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Video Game Crash: quando il crollo di Atari cambiò il mondo del videogame

Tutti parlano del Video Game Crash, nessuno lo fa nel modo giusto. Io stesso devo confessare: è una cosa infinitamente più complessa che “Atari non riusciva a vendere le cassette di ET che finirono in una discarica”, e probabilmente non riuscirò ad elencare tutti i fattori. Ma molti sì.

E soprattutto, parleremo del fatto di come il mercato videoludico sia cambiato per sempre.

C’era una volta l’Atari 2600 (e c’è ancora)

La storia inizia nel 1983, ma affonda le sue radici negli anni ’70. Per farci capire, attualmente siamo alla nona generazione delle console (Playstation 5/Xbox Series X and S) con Nintendo che fieramente porta la bandiera dell’ottava con la Nintendo Switch, mentre l’Atari VCS (o Atari 2600) era l’orgoglioso rappresentante della seconda generazione.

Non la prima console ad avere cartucce removibili (la novità della sua generazione), quella fu il Fairchild F. E neppure la console più performante della sua generazione, va detto: presto il ColecoVision arrivò sugli scaffali diventando la Cadillac delle console.

Ma per quasi un decennio, l’Atari VCS (ridenominato 2600 per motivi commerciali) fu la più venduta e la più longeva delle console di seconda generazione.

Immagine dell’Atari VCS

E poi arrivò la terza generazione. E lo fece in un mercato che era enormemente cambiato rispetto alle sue origini.

La seconda generazione aveva introdotto le cartucce: ogni console aveva quindi un team di programmatori pronti a tirare fuori una libreria di cartucce per gli scaffali dei negozi, perlopiù con la formula della merce in conto vendita: i grossisti portavano le cartucce in negozio, attendevano il tempo dovuto, si ripresentavano per raccogliere sia i soldi che l’invenduto portando le uscite del momento.

Modulo di espansione COLECO per giocare con le cartucce Atari su ColecoVision

La posizione di Atari come attore principale della seconda generazione (col 58% delle vendite contro il 17% di Coleco) attirò anche le attenzioni di produttori di cartucce di terze parti. Tutti volevano vendere giochi per Atari 2600, l’Atari 2600 era il simbolo stesso della sua generazione e persino il più performante ColecoVision aveva un “modulo” che consentiva di emulare un Atari 2600 usandone i giochi.

E questo fu parte della rovina di Atari.

A chi troppo, a chi niente

Fino al 1979 nessuno aveva mai pensato ad una forma di controllo-qualità o anche solo ad un controllo legale. Semplicemente ogni produttore si faceva le cartucce per la sua console (come nella prima generazione avevi “schede gioco” come il Magnavox Odyssey o semplicemente giochini in memoria) e nessuno si poneva l’inedito problema di terzi pronti a. a vendere cartucce per la tua console e b. a inondare il tuo mercato con pessimi prodotti.

Le avvisaglie del problema nacquero con la nascita di uno degli attori principali anche dell’attuale panorama: Activision, ora la divisione Microsoft nota come Activision Blizzard.

Prima di Activision nessuno si era mai fisicamente posto il problema di produrre giochi senza avere una console “propria”, dopo Activision ci si è posti il problema per la prima volta del “gioco su licenza”.

Giochi Activsion per Atari

Activision fu fondata da quattro impiegati e sviluppatori per Atari (David Crane, Larry Kaplan, Alan Miller e Bob Whitehead), la c.d. “banda dei quattro” stanchi di non ricevere riconoscimento e gratifiche (anche economiche) per il loro lavoro.

In una mossa assai moderna crearono un mercato creando una loro società che producesse giochi in grado di funzionare sull’Atari 2600, che ben conoscevano.

Non esisteva niente nel loro contratto passato che li vincolasse a non farlo: Atari provò a fermarli in tribunale ma non ci riuscì.

Nacque così il concetto di “giochi terzi” ma non il concetto di “sigillo di approvazione” o “gioco approvato su licenza”. E questo andò ad aggravare ed incastonarsi su un altro problema.

L’inflazionamento del mercato

Nel 1983 Goldman Sachs aveva previsto che vi sarebbe stata una enorme sproprzione tra domanda e offerta, sostanzialmente con la produzione di giochi e videogames superiore del 75% rispetto alle capacità di assorbimento del mercato. Atari, pur sostanzialmente concordando con l’analisi economica, viveva però nella convinzione che quando questo sarebbe accaduto, metà delle case americane avrebbero avuto in casa una console per videogames, cosa che con la posizione dominante di Atari avrebbe significato profitto.

Questo non avvenne, e fu l’inizio della caduta.

La situazione fu enormemente peggiorata dall’apertura giudiziale alla “concorrenza forzata”. Nelle parole di David Crane, Activision, i produttori di giochi su cartuccia per Atari VCS decuplicarono nel giro di un anno: in sei mesi il CES, la Fiera dell’Elettronica di Consumo, vide gli espositori passare da tre a trenta senza passare dal via e tutti con prodotti di qualità infima.

Sì, provarono a venderlo (fonte cartdrigecorner blog)

A quel punto il mercato del videogioco era diventato una bolla, e chiunque si sentì in grado di radunare gruppi di programmatori presi da tutt’altro settore, programmare una serie di giochi al meglio delle loro scarse possibilità e mandarlo sugli scaffali in tempo per le festività.

Arrivò così una salva di titoli improponibili: nel 1982 il gioco per Atari più costoso fu “Custer’s Revenge”, improbabile e offensiva porno-parodia in un cui un omino pixellato col membro di fuori doveva simulare atti sessuali con una squaw di nome “Revenge” legata ad un palo (secondo il manuale, per una pratica sadomaso consensuale…).

Ma non solo giochi ipercostosi dalla qualità infima e dalla morale inesistente: presto il mercato vide un influsso di “giochi da cestone”, basati su meccaniche di gioco desuete anche per la seconda generazione e persino compagnie di cereali come Quaker Oats comprarono alla chetichella rami di azienda del settore informatico per avere cartucce da mettere sullo scaffale.

Il mercato del videogame esisteva sostanzialmente da una generazione e mezzo, ed eravamo già dinanzi ad una intera salva di titoli derivativi in cui non appena un produttore tirava fuori una meccanica di gioco vagamente innovativa, tutti gli altri producevano cloni, derivati e cloni del clone inseguendo la moda del momento in un mercato di prezzi al ribasso e tentativi di saltare su un carro del vincitore ormai incapace di sorreggere il peso di tutti gli invitati.

Come questo innovativo gioco del Nascondino che ti chiedeva di chiudere gli occhi mentre il secondo giocatore si nascondeva virtualmente. Seriamente

Torniamo ora alla situazione in corso con più elementi (cosa che faremo periodicamente per chiarire le idee): la seconda generazione di videogames era alla fine della corsa, con la terza (SEGA Master System, Nintendo NES e, come vedremo, VIC20 e Commodore 64 anche se in modo “improprio” ma accettato) già pronta ai blocchi di partenza per rivoluzionare il mercato.

I negozi erano invasi ora di cartucce in conto vendita di tutti i prezzi, ma quelle a basso costo (e come per “Custer’s Revenge”, almeno un paio di costo alto) erano ciarpame tale da trasformare ogni festa di compleanno e Natale in una tragedia greca.

Il mercato della merce in conto vendita significava che ogni mese i produttori si vedevano restituire pallet di cartucce-ciarpame mentre il pubblico perdeva rapidamente fiducia nel mercato.

La risposta di Atari e le cartucce di ET tra mito e storia vera

Atari rispose a tutto questo con la tipica mossa della disperazione che abbiamo visto più volte anche in mercati recenti: affidarsi a proprietà intellettuali forti.

Il “tiro della salvezza” di Atari fu la produzione di una serie di giochi basati sulle proprietà intellettuali forti del momento. Ad esempio film, come Star Wars ed ET, ma anche “porting” da sala giochi come Pac-Man.

Abbiamo già visto come la testardaggine di Coleco portò la nota concorrente di Atari a strappare al rivale l’uscita in esclusiva di Donkey Kong: il tentativo di ripiegare su Pac-Man portò a grandi vendite, ma macchiate da svariate richieste di restituzione ed una salva di recensioni negative per un “porting”, una versione domestica di titolo da sala giochi, ritenuto come di molto inferiore alla sua controparte.

Le “cartucce da discarica”

E.T. ebbe lo stesso destino: contrariamente alla volgata che lo vuole un fallimento “a prescindere”, ebbe vendite esplosive nel 1982, seguite da recensioni negative e, nuovamente, un tracollo delle vendite nei mesi successivi.

La fiducia del consumatore si stava incartando in un loop di titoli attesi basati su nomi di richiamo che vendevano, deludevano e attiravano nuovi titoli in un cerchio di erosione costante della fiducia.

Nel 2014 fu ritrovata una discarica piena di cartucce di ET ed altri titoli: a dire il vero tale discarica era già da decenni percepita come la più grande leggenda del mondo videoludico, portando a ritenere che il “Video Game Crash” del 1983 sia stato causato da ET.

In realtà quello era un sintomo, non la causa: come abbiamo visto, il sistema della merce in conto vendita rendeva più conveniente sopportare le perdite e distruggere l’invenduto che avere magazzini pieni di pallet di merce con una vita di scaffale assai breve.

Arriva la concorrenza

Nel 1981 arriva nel mercato americano il VIC20, seguito dal Commodore 64.

Parliamo ovviamente di home computer, ma la campagna promozionale di lancio di entrambi i prodotti fece sia da volano che cavalcò la crisi della seconda generazione.

Sia pur non parlando di “terza generazione”, gli spot del VIC20 schierarono celebrità come William Shatner (il capitano Kirk di Star Trek) pronto a sciorinare come il VIC20 consentisse sia di avere giochi di qualità su cartuccia che programmi professionali e gestionali.

Shatner presenta: il VIC20

L’esplosione del mercato arriva però proprio tra 1982 e 1983, quando Commodore tira fuori dal cilindro il VIC-II e il SID, tra i chip video e audio più avanzati nel mercato videoludico attuale.

Commodore progetta il lancio di una console con limitate capacità da computer, la MAX Machine, ma dopo averla lanciata per il solo mercato Giapponese prosegue con l’uscita dell’ormai mitologico Commodore 64.

Il lancio pubblicitario è lo stesso, anzi potenziato: il Commodore 64 è un home computer, ma il Commodore 64 ha anche audio polifonico a tre voci più una voce per il rumore, video a 16 colori con risoluzione a 320 × 200, 160 × 200 in modalità multicolore, uscita video composito ed LCA (parente stretto del formato S-Video e ad esso facilmente adattabile) ed una fortissima vocazione per il videogame ereditata dalla defunta Max Machine.

Diversi modelli di Commodore 64, Attribution: Hedning, Wikipedia Commons

Di fatto la terza generazione di console, che nel mondo è partita col Nintendo FamiCom del 1983 in Occidente sboccia invece col Commodore 64, sia pur essendo questo home computer e non console (ironicamente una versione mutilata della tastiera e delle seriali per floppy, il Commodore 64GS, diventerà una delle ultime console della generazione).

È uno dei chiodi sulla bara della Seconda Generazione, chiodo dal quale Atari si riprenderà, reinventandosi sotto la guida di Jack Tramiel, fondatore prioprio di Commodore dalla quale era uscito per divergenze sulla visione generale (ufficialmente motivi personali) con la dirigenza Commodore.

Anche il Commodore 64, va ammesso, aveva le sue vagonate di giochi infimi, nonché un enorme problema con la pirateria informatica che Atari non aveva, prova che attribuire il Video Game Crush alla sola “discarica piena di giochi di ET” è un gravissimo errore.

Il NES, versione occidentale del FamiCom, primo della Terza Generazione

Ma quantomeno finché non venne il turno di Commodore nel cadere sotto i colpi simultanei della quarta generazione di console e del mondo del PC IBM Compatibile, Atari si trovò presto alle corde.

Sotto Tramiel nel 1986 Atari, alla ricerca di catarsi nel settore dell’home computing, tirò fuori la sua console di terza generazione, l’Atari 7800 del tutto retrocompatibile col VCS/2600.

Ma a quel punto SEGA e Nintendo, che erano rimasti alla finestra del mercato Giapponese, erano entrati nel mercato Occidentale, con una serie di lezioni importanti dal tracollo che influenzano il mercato ancora ora.

La lezione di Atari: l’importanza delle licenze

Nintendo apprese dalla lezione di Atari la ferocissima difesa delle sue IP e del software (in seguito anche hardware) in grado di girare sulle sue console proprio dai falliti tentativi di Atari di controllare il mercato ed evitare di trovarsi affossati ed associati a giochi fallimentari e/o di basso livello.

Nintendo introdusse nel NES un “lock-out chip”, un chip presente sia sul NES che sulle cartucce in grado di rendere inutilizzabili tutte le cartucce che non fossero state approvate da Nintendo, e quindi munite dello stesso chip.

Qualora il chip “10NES” sulla console riconosceva un suo consimile sulle cartucce munite del “Nintendo Seal of Approval”, con l’addizionale controllo di regione (per valutare se si stesse giocando ad un gioco venduto nell’area geografica della console), il NES si avviava regolarmente: altrimenti si sarebbe ripetutamente resettato producendo un led di accensione lampeggiante che i bambini avrebbero ritenuto segnalare un prodotto difettoso.

Il “lockout chip”

Questo non impedì ai più creativi di cercare di “ingannare” Nintendo: proprio una sussidiaria di Atari, la Tengen tentò di lanciarsi nel mercato dei giochi NES esaminando il chip lockout (e chiedendo documentazione all’ufficio brevetti col pretesto di valutare una causa legale contro Nintendo…) per produrre un proprio chip in grado di far riconoscere i propri giochi come legittimi al NES.

L’avventura giudiziaria finì in pareggio: Tengen potè produrre il chip “rabbit” ma non potendo accedere alla pienezza dei protocolli di funzionamento Nintendo avrebbe in ogni momento potuto rilasciare versioni hardware successive per bloccarlo.

Cosa che non fece, anzi le versioni economiche successive del NES non avevano il lockout chip perché a quel punto era arrivato il SNES e Nintendo potè dedicarsi a proteggere il nuovo hardware.

Uno dei tentativi di evitare il Lockout chip

Un altro competitore fu l’Aladdin Deck Enhancer di Camerica: una “mezza cartuccia” contenente un lockout chip e altro hardware nella quale incastrare giochi sovente di qualità inferiore rispetto ai giochi NES.

Ma a quel punto Nintendo aveva cementato la sua posizione di prestigio, spazzato via come “inferiore ma a lei non collegato” il mercato dei giochi cloni e lanciato l’attuale china per cui il “Seal of approval” è assoluto.

Nintendo arrivò a riportare tali schemi in patria: se il FamiCom non aveva il lockout chip, il Famicom Disk System, di cui abbiamo parlato qui, richiedeva particolari floppy istoriati col logo Nintendo per funzionare.

Se oggi puoi caricare sulla Switch solo cartucce col marchio Nintendo, se puoi volendo comprare Joycon di terze marche ma col “caveat” che in ogni momento Nintendo può disconnetterteli con un aggiornamento costringendoti a tua volta ad aggiornarli da PC e se Nintendo ha fama di essere intensamente protettiva delle sue IP è proprio perché il NES è nato dagli effetti della deregulation assoluta.

Manca però un ultimo anello al fenomeno.

Il Great Video Game Crush non è accaduto allo stesso modo allo stesso tempo

Immaginate un sommovimento di mercato come onde in uno stagno: le onde lambiscono e si diffondono nello stagno in tempi differenti.

A Natale 1983 in America c’era spazio solo per il Commodore 64 in veste di Araldo della Terza Generazione.

In Italia continuavano ad esserci spot dell’Atari VCS, e persino nel 1983 le TV locali (prendi questo spot preso dalla pagina “200 lire in sala giochi”) continuavano a proporre l’Atari VCS con l’iconico spot “Atari? Magari!” e nell’immaginario a tinte rosa di molti era ancora la prima scelta.

Atari? Magari!

In realtà è assai più verosimile la situazione descritta nei racconti del content Creator e scrittore Alessandro Apreda, autore di “Inseguendo un Super Santos verso l’infinito” C, romanzo che mescola storie ambientate negli anni ’80 a momenti ucronici in cui artefatti del mondo moderno si “infiltrano” nei ricordi del passato, e proseguite nelle “Antro Stories” sul suo blog, in cui NES e Commodore 64 vengono descritti come la vera “prima scelta” e l’Atari VCS compare come la console di un bambino povero col padre “Cassadisintegrato” che non poteva permettersi di meglio.

O meglio: al netto dell’inflazione anche l’Atari VCS aveva un suo costo sostenuto. Parliamo di 271mila lire, ovvero oltre 600 euro attuali per una console dall’hardware ormai datato e deprecata in madre patria.

Ma il Commodore 64 costava quasi un milioncino tondo, e il NES sarebbe apparso solo nel 1987.

Il mondo oggi

Oggi l’Atari 2600 e il suo immediato successore 7800 rivivono nell’Atari 2600+, console moderna reimpacchettata con la capacità di funzionare con le moderne TV e le cartucce dell’epoca.

Nintendo, come visto, continua a difendere con ferocia le sue proprietà intellettuali e bannare chi provi ad andare online con console modificate allo scopo di caricare giochi che non siano da lei espressamente approvati.

Siamo alla nona generazione di console, con la Nintendo Switch unica rimasta di ottava che si materializzerà tra due giorni sotto gli alberi di Natale di molti ragazzini e dintorni.

Al Vigamus a Roma potrete osservare una cartuccia Atari “da discarica” ricordo di tempi in cui un mercato ancora giovane subì movimenti magmatici.

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