Un’emoji vale come firma: contadino Canadese si scontra col consenso
“Un’emoji vale come fima”: avrete letto ovunque la notizia ci una rivoluzionaria frontiera del diritto che in realtà non è poi così rivoluzionaria a pensarci. Dimostra semplicemente che in Canada, come in altri posti, il contratto può avere molte forme. E quindi anche il consenso.
Un contadino del Canada ha scoperto che rispondere ad un messaggio in cui gli si chiedeva se fosse disponibile a vendere merci con un messaggio in cui rispondeva in modo affermativo equivale ad una risposta.
Quello che la rende inusuale è il linguaggio usato: una emoji, il disegnino di un pollice in su.
Un’emoji vale come firma: contadino Canadese si scontra col consenso
Nel 2021 la società South West Terminal, Ltd invia un messaggio di testo al contadino canadese Chris Achter chiedendo l’acquisto di diverse tonnellate di lino al prezzo di 17 dollari canadesi allo staio.
Dopo una serie di telefonate SWT prepara un pratico contatto per la somma invitando Achter a leggerlo e sottoscriverlo.
Achter invia il simbolo di un pollice in su e torna alla sua vita di tutti i giorni.
Arrivati al mese di Novembre, col prezzo del lino raddoppiato, Acther non invia la quantità di grano indicata nel contratto.
SWT porta Achter in tribunale dichiarando che, ovviamente, il fatto che lui abbia risposto con una emoji non significa che aveva approvato il contratto ma che aveva ricevuto il contratto, riservandosi di approvarlo in seguito quando gli fosse stata inoltrata una copia dello stesso per mezzo fax o email.
Taceremo sulla richiesta del fax nell’anno Domini 2021, ma entreremo nel dettaglio del giudizio.
Il valore di un’emoji
Va ricordato che anche da noi è possibile avere contratti validamente stipulati in ogni forma, anche verbale o per “atti e fatti concludenti”. Possiamo entrare in un supermercato senza firmare alcunché, e il solo fatto di posare la merce sulla cassa significa che siamo intenzionati ad acquistarla e lo scambio tra la merce e il denaro si perfeziona lì, sul posto, senza intoppi.
Posso comprare qualcosa con un colpo di telefono, un’email o uno scambio verbale. Non c’è nessun problema, né dovrebbe essercene in questo caso, tanto che avevamo pensato all’inizio di titolare descrivendo il tutto come una “non notizia”.
Ma il problema in questo caso è stato arrivare a cosa sia prevedibilmente interpretabile come un consenso.
Secondo la difesa di Achter
“permettere ad una emoji ?di avere significato di accettazione e identificazione del consenso significa aprire le gabbie ad ogni caso giudiziario che richiede interpretare ogni possibile emoji, ad esempio chiedendosi il significato di ? o ? . La difesa dichiara che i tribunali saranno indondati di casi giudiziari se la Corte dichiarerà che l’emoji? ha significato di firma”
Aggiungendo altri ulteriori segni di interpretazione, come il fatto che Achter era solito richiedere clausole di “forza maggiore” e in quel contratto l’evento di forza maggiore non era previsto.
Il giudice ha invece deciso di definire il contratto come almeno verbalmente stipulato tra le parti, aggiungendo che un osservatore esterno con una minima facoltà di discernimento avrebbe accettato quell’ok come un “ok”, ovvero come l’intenzione di accettare il contratto, aggiungendo che il consenso deriva da un messaggio unico inviato da un cellulare in particolare: quello del venditore.
Nessun problema quindi: i contratti arrivano in molte forme, e se accettiamo che convenzionalmente un “ok” può anche essere espresso con un segno grafico, dobbiamo anche accettare che un contratto possa essere chiuso così, almeno in questo caso e in Canada.
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