La pandemia che stiamo vivendo sta mettendo alla prova il nostro sistema sanitario, scolastico e dei trasporti pubblici, ma non solo. È anche uno stress test per il nostro sistema costituzionale e la sua capacità di gestire i periodi di emergenza.
La nostra Costituzione, a differenza di altre, non prevede esplicitamente un vero e proprio stato di emergenza. Questo ha senz’altro motivazioni storiche. L’Assemblea Costituente, organo che dal ’46 al ’47 si occupò della redazione della Costituzione, lavorò in un contesto in cui la paura del decaduto regime fascista era ancora viva nei cittadini e nelle istituzioni. Si temeva che la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza da parte del Governo potesse tradursi nella compressione allo stremo dei diritti costituzionalmente riconosciuti. Durante i lavori preparatori, la Seconda Sottocommissione dell’Assemblea formulò così un articolo che vietava “ogni […] misura di sospensione totale o parziale delle garanzie regolate dalla […] Costituzione” (Atti, 101) e con un altro articolo stabilì che non fosse “consentita la decretazione di urgenza da parte del Governo” (Atti, 255 ss.).
Tuttavia, successivamente, la Seduta Plenaria della Costituente concluse che sarebbe stato irrealistico precludere al Governo la possibilità di ricorrere alla decretazione di urgenza. Si sarebbero infatti sicuramente presentate occasioni in cui questo si sarebbe rivelato necessario, magari anche derogando ad alcuni diritti costituzionalmente garantiti. I Costituenti ritennero dunque che sarebbe stato più opportuno prevedere la decretazione d’urgenza disciplinandone in modo preciso i limiti piuttosto che non prevederla affatto. Così facendo si sarebbe evitato che il Governo si trovasse costretto ad adottare provvedimenti incostituzionali ma, allo stesso tempo, si tutelava la Repubblica da possibili abusi nel ricorso a questo strumento. Si arrivò così alla formulazione finale dell’articolo 77, ancora oggi in vigore:
“Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.”
Questa formulazione fa sì che il Governo possa adottare, sotto la sua responsabilità, un decreto equiparato alla legge, il decreto-legge appunto. Questo può avvenire solo “in casi straordinari di necessità e di urgenza” e il Governo è in ogni caso obbligato a presentarlo alle Camere per la sua conversione in legge. Qualora queste non lo dovessero convertire, il decreto cesserà di avere effetti ex tunc: in altre parole, non solo smetterà di esistere, ma sarà come se non fosse mai esistito.
Rimane da sciogliere un ultimo nodo: un decreto-legge può derogare a un diritto costituzionalmente garantito?
Una prima lettura dell’articolo 77 potrebbe indurci a rispondere di no. La Costituzione è infatti la fonte suprema dell’ordinamento e neanche una legge ordinaria approvata dal Parlamento può derogarvi. Tuttavia, parte autorevole della dottrina (si veda ad esempio Carlo Esposito, Necessità assoluta e necessità relativa come condizioni della adozione dei decreti-legge) sottolinea come i decreti-legge possiedano “forza di legge” e non “forza di legge ordinaria”. La mancanza dell’aggettivo “ordinaria” ha un effetto enorme. Infatti, la legge ordinaria non potrebbe andare a incidere sui diritti costituzionali ma, non specificando, i Costituenti avrebbero ricompreso all’interno della “forza di legge” tutti i tipi di legge, compresa quella costituzionale. E la “forza di legge costituzionale”, quella sì, può andare a incidere sui diritti costituzionalmente garantiti.
Tornando alla situazione attuale, sono state introdotte importanti limitazioni alla nostra possibilità di uscire di casa, andando così in deroga alla “libertà personale” che è “inviolabile” secondo l’art. 13 della Costituzione. In tempi ordinari il bilanciamento tra i diritti costituzionali (in questo caso tra libertà personale e diritto alla salute e alla vita) spetterebbe al Parlamento ma, come abbiamo visto, in “casi straordinari di necessità e di urgenza, è previsto che possa essere il Governo stesso a compiere questa delicata operazione attraverso un decreto-legge. Al Parlamento spetterà poi l’importante funzione di vagliare il decreto ed eventualmente convertirlo in legge”.
Ma, nell’adottare il lockdown, il Governo ha agito completamente all’interno del quadro costituzionale?
Non è facile rispondere a questa domanda, e la questione ha suscitato un acceso dibattito anche tra i costituzionalisti.
Le restrizioni sono infatti disciplinate a livello generale da alcuni decreti-legge, convertiti poi in legge. Questi stessi decreti-legge rinviano poi agli ormai noti DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) che regolano i dettagli di queste misure.
Questo ha suscitato le critiche di alcuni commentatori che ritengono che non si possa lasciare questo compito ai DPCM, da un lato perché i diritti costituzionali sono una materia riservata alla legge (e per la verità, talvolta sottratta pure ad essa), dall’altra perché il Parlamento non ha alcun controllo su questi atti.
Al contrario, c’è chi sottolinea come formalmente non ci sia niente di illegittimo, poiché sono gli stessi decreti-legge ad autorizzare il Presidente del Consiglio ad emanare DPCM che prevedano eventualmente anche importanti contrazioni dei diritti costituzionali.
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