Molti ci segnalano lumi sul dibattito sulla proposta, ormai in fase di dibattito avanzata, di poter ottenere parte del TFR, mensilmente, in busta.
Le voci si rincorrono: si parla di emendamenti per aumentarne le tasse, svantaggi o, di converso, vantaggi spropositati… come ogni volta che un nuovo provvedimento sta per essere varato, si dice tutto, ed il contrario di tutto.
Ma partiamo con ordine, ricorrendo allo specchietto esplicativo offerto dal mensile Panorama:
Il trattamento di fine rapporto (Tfr) è una quota di stipendio pari al 6,9% della retribuzione lorda, che viene accantonata ogni anno dai lavoratori per farsi la liquidazione o per costruirsi una pensione di scorta privata, integrativa di quella pubblica. All’accantonamento di base, si aggiunge un ulteriore quota dello 0,5% (per un totale del 7,4%) che serve per alimentare un fondo di garanzia dell’Inps, il quale assicura sempre il pagamento del Tfr ai lavoratori, anche quando un’azienda fallisce.
Solitamente quindi il TFR è una quota di stipendio che viene “messa da parte” per essere restituita tutta assieme nel momento in cui il rapporto di lavoro finisce. Il motivo è evidente: un rapporto di lavoro terminato quando ancora il lavoratore è lontano dall’età pensionistica genera la necessità di cercare una nuova occupazione, adempimento non sempre facile. Avere un “tesoretto” da parte che ti venga consegnato in breve tempo aiuta a rendere quel passaggio meno oneroso. Assolve inoltre una funzione sociale: una minuscola parte di quel fondo viene adoperata per il cosiddetto “Fondo di Garanzia INPS”, che anticipa ai lavoratori che abbiano prestato la loro opera presso un datore di lavoro gravemente insolvente o sottoposto a procedure concorsuali (come il fallimento) il TFR e le ultime tre retribuzioni ove non pagate per poi “rivalersi” al loro posto.
Dal 2007, con l’incremento delle forme pensionistiche complementari è stata introdotta la possibilità di destinare tali somme ad un fondo pensionistico, allo scopo quindi di migliorare le possibilità di ritrovarsi, ad integrazione della pensione sovente non certo stellare, di una pensione privata che possa comprendere, con una buona dose di fortuna, un aumentato benessere.
La riforma in corso di discussione introduce quindi una terza via: nella quale i soldi non restano né immobili ed accantonati, né vanno ad un terzo (il fondo pensione), bensì vanno direttamente nelle tasche del lavoratore. Si è valutato, fonte Panorama che, di media
Per chi guadagna 1.500 euro netti al mese, ad esempio, il riscatto del 50% del trattamento di fine rapporto annuo dovrebbe comportare un incremento dell’assegno di 40-50 euro mensili.
A fronte però
Nell’ipotesi che vada in pensione tra 30 anni, lo stesso lavoratore perderà 6mila euro di liquidazione e 35-40 euro al mese di pensione integrativa.
Il perché in fondo è semplice: non si parla di aumentare o diminuire le somme, ma di mutare la loro allocazione. I soldi accantonati tendono, per loro natura, ad accumularsi nel tempo, e nel corso di una vita lavorativa lunga e produttiva, raggiungono un tesoretto che, tradizionalmente, per i lavoratori di tempi meno inclini al precariato era l’occasione di una vita per permettersi un ultimo lusso prima del ritiro a vita da pensionato o per “sistemare” definitivamente i figli ormai per quella data sposati e con famiglia (ad esempio dando loro una quota della liquidazione per terminare il pagamento dell’inevitabile mutuo, o “invitarli” a passare dall’affitto al mutuo). I soldi dati ad un fondo di pensione integrativa si traducono in un piccolo vitalizio.
I soldi presi e spesi subito… sono spesi, non c’è niente da fare. L’anticipazione in busta, ricordiamo, riguarda il 50% del totale: ma resta comunque la scelta, necessaria ed inevitabile, del decidere quando ti servono più quei soldi, se tutto e subito o domani, in futuro.
Una buona novella era apparsa negli emendamenti di questi giorni, in quanto, fonte Sole24Ore:
Da registrare, nella montagna di emendamenti per chiedere modifiche sul Tfr in busta paga, otto proposte di modifica che chiedono di sopprimere tout court la norma. A invitare il governo a cancellare la disposizione che consente ai lavoratori di chiedere che il proprio Tfr venga anticipato mensilmente in busta paga sono quattro emendamenti di deputati del Pd, due del Movimento cinque Stelle, uno di Fi e uno da fratelli d’Italia. Maino Marchi e Marco Causi (Pd) propongono invece di assogettare l’anticipo del Tfr a tassazione “separata”, che non si cumuli cioè con il resto del reddito.
Possiamo purtroppo confermare che l’emendamento relativo alla tassazione “separata” non è passato.
Infatti, riporta Blastingnews
Dei ben 3700 emendamenti presentati dai vari gruppi parlamentari nella legge di stabilità 2015, sono stati tanti gli emendamenti scartati, tra questi c’è l’ emendamento che proveniva da un esponente del Pd che prevedeva la tassazione separata sul tfr anticipato dei lavoratori in busta paga. L’emendamento è stato scartato a causa delle mancanza dei fondi necessari, avrebbe previsto un risparmio delle tasse per i lavoratori che decidono di farsi anticipare il proprio trattamento di fine rapporto in busta paga grazie ad un meccanismo che rendeva l’ anticipo non cumulabile con il reddito del lavoratore mentre rimangono intatte le altre norme sul tfr anticipato.
Va quindi introdotto, nell’attuale stato di cose, il computo della tassazione sul reddito complessivo: come si è visto, in realtà il reddito medio non viene aumentato così di tanto, salendo di 40-50 euro su un lavoratore che guadagna 1.500 euro netti al mese, e l’incremento nella tassazione sarà quindi lineare, tanto più marcato quanto sale il TFR, il quale, come si è visto, sale proprio col reddito.
Nondimeno, ove i fondi necessari fossero stati reperiti, per quanto moderato sarebbe stato un beneficio per il lavoratore.
Non ci resta dunque che attendere la prosecuzione dei lavori parlamentari al riguardo, restando disponibili a fornirvi nuove informazioni man mano che esse perverranno.
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