Tecnologie più retro di quanto pensiate: il touchscreen
Potete dare una data di nascita al touchscreen? Molti di voi penseranno al 2007, data di uscita del primo iPhone, ma il primo touchscreen della storia è stato concepito nel 1965.
Stranamente infatti, se abbiamo visto come sia la fantascienza che l’opera di ricerca degli analisti tendono ad anticipare i bisogni del pubblico, nessuno aveva pensato ad immaginare un touchscreen.
I Touchscreen per molti anni, vedremo assieme, sono stati considerati scomodi, privi di quelle forme di feedback tipiche di tastiere e altre forme di input, che sono quindi state le favorite quantomeno fino al primo decennio del XXImo secolo.
Ma l’avventura del touchscreen è cominciata da molto lontano.
Tecnologie più retro di quanto pensiate: il touchscreen
Il touchscreen ha qualcosa in comune col trackpad: entrambi sono stati inventati per uso avionico. Eric Arthur Johnson della Royal Radar Establishment di Malvern, in Inghilterra, decise che per il controllo del traffico avere un dispositivo che fosse sia monitor che controller avrebbe comportato un forte risparmio di tempo.
Nel 1969, quattro anni dopo la sua invenzione provvide a brevettarla nel Regno Unito e negli USA, sotto il nome di “touch display”. Il touch display era un primitivo display capacitivo, la stessa tecnologia usata nei display dei cellulari.
Naturalmente, un brevetto assai meno evoluto e basato su elementi in grado di reagire al tocco ben visibili sulla superficie del display, mentre ora sono ovviamente ben nascosti.
Secondo le intenzioni di Johnson un giorno saremmo arrivati ad avere una tastiera utilizzabile sul suo touch display, ed anche qui non siamo arrivati lontani dal vero. Semplicemente, la tecnologia e, come vedremo, la percezione della stessa non erano maturi.
Il Touch Display stava al moderno touchscreen come una carrozza sta all’automobile: solo con uno sforzo di immaaginazione avremmo chiamato “touch screen” un vecchio monitor a tubo catodico con dei fili visibili sulla superficie da toccare con le dita, ma per l’epoca sembrava fantascienza, e almeno fino al 1990, l’idea restò nei brevetti e non fu mai applicata.
Nel 1971 nacque per avventura il display resistivo, ora visto come alternativa economica e meno performante del capacitivo ma per molto tempo l’alternativa più pratica e superiore, quando il Dr. G. Samuel Hurst dell’Università del Kentucky scoprì che mettendo assieme a sandwich due strati di materiale conduttivo, la pressione del dito li avrebbe schiacciati l’uno con l’altro in un punto in particolare, consentendo quindi la misurazione delle tensioni generatesi e calcolare al volo la posizione del dito.
Il primo display resistivo non era trasparente e fu scoperto per caso e brevettato sulla base del principio “brevetterò prima che qualcuno mi scippi il brevetto”, e nulla più. Il primo display resistivo del tutto trasparente nacque nel 1974 e fu brevettto nel 1977: si trattava dei prodotti Elograph.
I primi AccuTouch erano touch screen da aderire su monitor CRT, avendo quindi un touch screen fatto a mano, quasi artigianalmente in pochissimi esemplari per lotto, migliorati nel corso dei decenni.
All’epoca, gli AccuTouch erano un prodotto avveniristico, prodotto da una ditta il cui sistema di archivio delle contabili era letteralmente una scatola da scarpe, che crebbe vertiginosamente negli anni ’80, decennio in cui alla Fiera Mondiale di Knoxville del 1982 il mondo vide i primi CRT equipaggiati con un touchscreen. Ma anche qui, il Touchscreen era tutt’altro che una tecnologia ubiquitaria.
Tecnologie parallele, i limiti del touchscreen
Dal punto di vista dell’utente finale, un touch screen era assai simile ad una tecnologia assai precente, la light pen degli anni ’50, concetto che trovò utilizzo in tecnologie come l’IBM 2250, primo computer in grado di visualizzare grafiche vettoriali usato da ricercatori, per l’utilizzo in programmi di grafica ed elaborazione musicale e, in una variante di cui abbiamo parlato spesso, per le light gun dei videogiochi domestici.
Una light pen percepiva con un sensore ottico le variazioni su di un monitor CRT, i primi touch screen portavano i sensori direttament sulla superficie del monitor lasciando che le dita fossero lo strumento, ma l’effetto era lo stesso.
Una ergonomia assai ridotta e i primi casi di sindrome da movimenti ripetitivi nota come “gorilla arm”, i tipici doloretti che colpiscono chi usa il braccio parzialmente esteso per toccare ripetutamente un monitor di fronte a lui con gomito, polso e dita bloccati in una posizione non del tutto rilassata e non del tutto contratta confermarono che, semplicemente, la tecnologia non era ancora pronta per incontrarsi con l’ergonomia.
Nel 1983 HP tentò di sfondare sul mercato con un computer così avveniristico da avere tutto quello che sarebbe apparso solo nel futuro dell’informatica: parliamo ovviamente dell’HP-150 “Touchscreen”, computer parzialmente PC Compatibile (usava versioni proprietarie di MS-DOS 2.x e 3.20) e tra i primi computer per uso domestico/piccolo ufficio a passare al formato floppy disk da 3,5” e con un touchscreen di serie.
Un “falso” touchscreen a dire il vero, né resistivo né capacitivo e per dirla tutta neppure touchscreen: un serie di sensori infrarossi tutti attorno la cornice del monitor SONY incorporato, attraverso piccoli forellini, creavano una griglia che consentiva di identificare la posizione del dito.
Ovviamente una simile imitazione del touchscreen aveva tutti i difetti del touch screen dell’epoca compreso qualcuno in più: ad esempio era facilissimo credere di aver rotto il “touchscreen” perché della polvere era caduta in uno dei forellini di alloggiamento dei sensori accecandone uno e rendendo quindi una parte del display non responsiva al tocco.
L’anno successivo l’HP-150 II risolse il problema sostituendo i forellini “a pozzetto” con un pannello di plastica trasparente agli infrarossi (come quella dei telecomandi odierni) resistente alla polvere e rendendo il finto touchscreen un accessorio del tutto facoltativo e a pagamento che pochi comprarono.
Anche dal punto di vista della penna ottica (argomento di cui parlare assieme in una prossima occasione magari) il successo non fu così esplosivo: il Tandy 1000 e il 1000SX, antsignani della serie famosa per essere quella del computer di Sheldon Cooper in Young Sheldon (un Tandy 1000SL comprato dai Cooper dando fondo ai risparmi familiari) avevano un connettore apposito per la penna ottica, che fu rimosso negli esemplari successivi a cagione dello scarno interesse, facendo posto per una porta seriale.
Infatti per molto tempo mouse e tastiera furono considerati il sistema di input più affidabile, ergonomico e generalmente superiore. Parliamo ovviamente dei computer, perché anche con altre applicazioni il touchscreen non ebbe fortuna.
Il touchscreen nel mondo automobilistico
Molti pensano che il primo touchscreen installato su un’automobile è l’iDrive di BMW, del 2001. In realtà il primo touchscreen parte integrante di una automobile, che abbiamo ampiamente descritto in questo articolo, è il Graphic Control Center della Buick Riviera del 1986.
Un piccolo display monocromatico a tubo catodico con uno strato di Mylar incollato sopra che visualizzava una serie di dati di telemetria, come il contagiri, i comandi dell’autoradio e della climatizzazione e un piccolo vocabolario interno che forniva informazioni sia sulla percorrenza che sul veicolo.
Sostanzialmente era già in parte tutto quello che è un un sistema “car computer” completo, anche qui con una serie di limiti: niente GPS ad esempio, ma solo una bussola rappresentata graficamente.
Ma a parte i problemi tecnici inerenti l’assenza di un computer di bordo moderno, la ricezione del GCC fu pessima perché il pubblico non vi era abituato. Il cruscotto medio era infatti composto di tre elementi: un elemento primario, ovvero il volante coi comandi, un elemento secondario, il riscaldamento e un elemento terziario, ovvero l’autoradio.
Il GCC aumentava le parti da guardare e costringeva ad usare il feedback ottico, banalmente distogliere lo sguardo dalla guida, per capire cosa stavi facendo.
La somma di tutti questi guai portò i touchscreen a scomparire dal mondo automobilistico dopo pochi anni (in quattro anni la Buick si sbarazzò del GCC) e fare in modo che un touchscreen non tornasse prima dell’iDrive.
Il touchscreen per palmari
Apple nel 1993 rilasciò il MessagePad Newton, uno dei primi Personal Digital Assistant muniti di Touch antenati di tablet e della sezione produttività di ogni buon smartphone.
Aveva un display touch, ma da usarsi con un pennino: era un’evoluzione rispetto ai primi PDA, come ad esempio i prodotti di Psion che usavano una piccola tastiera: il Newton aveva un display resistivo e l’astratta capacità di riconoscere il testo scritto da un essere umano.
Astratta perché era incline agli errori: nonostante questo il Newton era una via di mezzo tra un diario e un blocco appunti per prendere note virtuali, registrare appuntamenti e non finire mai la carta.
Un concorrente fu la linea dei PDA di Palm, nata nel 1996 col Palm Pilot e arrivata fino alla serie Tungsten in modo “autonomo” per poi cedere alle sirene degli smartphone, come vedremo nei capitoli successivi.
Il Touchscreen e il PDA divennero un connubio essenziale: sì, era possibile acquistare una tastiera infrarossi per il proprio Tungsten, ma la comodità era proprio avere applicazioni di diverso tipo in un oggettino tascabile e che non richiedesse accessori.
Presto arrivarono dispositivi basati su Windows CE, come gli HP Jornada (1999) e, tra i molteplici palmari disponibili, il touchscreen trovò una via per esistere.
Il successo dei palmari trascinò il touchscreen anche nel mondo dei videogames portatili: il Game.com di Tiger del 1997 (il cui nome occhieggiava ad Internet) ebbe come richiamo sia essere connettibile ad Internet che avere un touchscreen.
Cose che arrivarono molto dopo in console però più fortunate e blasonate.
L’esplosione del touchscreen dal mondo dei cellulari
Il primo telefono portatile con touchscreen fu l’IBM Simon del 1992, venduto però solo due anni dopo, sull’onda dei palmari. Era poco più che un gimmick però, come la serie 9xxx dei Nokia Communicator, telefoni cellulari di dimensioni enormi che rivelavano al loro interno un palmare accessibile aprendo una cerniera per dividerli a metà.
Il Simon è di fatto uno smartphone mediante retronimo: era uno smartphone prima che il concetto venisse codificato. Lo chiamiamo Smartphone noi “moderni”, ma ai suoi tempi era solo un cellulare che aveva un display touchscreen come strumento di distinzione.
Sul mercato durò pochissimo: lo stesso mercato che anni dopo però si sarebbe dimostrato più ricettivo: nel 2006 LG presenta il “Prada”, collaborazione col marchio di lusso omonimo, primo cellulare operato da un touchscreen capacitivo a poter essere usato senza un pennino, seguito a ruota dall’Apple iPhone, che partì dal touchscreen capacitivo per introdurre un sistema operativo personalizzato e costruito intorno allo stesso ed alla presenza di un ecosistema integrato, traslato poi nei nuovi iPod (discendenti del primo leggendario iPod divenuti di fatto iPhone senza la sezione radiomobile usati per musica e app)
Ancora un anno dopo, nel 2008, HTC lancia il Dream, che inverte il paradigma dei Nokia Communicator, diventando il primo smartphone con Android 1.0 ma con una tastierina a scomparsa.
A questo punto, quindi parliamo di meno di venti anni fa il touchscreen comincia ad entrare in tutte le case.
Si genera così un effetto volano che trasforma i touchscreen in qualcosa di ubiquitario, con qualche intoppo, come i Photoplay curiosi cabinati arcade col gimmick del touch screen venduti tra la fine degli anni ’90 e i primi del 2000.
Display sempre più robusti e sempre più precisi cominciano a colmare quel gap di ergonomia: le tastiere cominciano a sparire dai telefonini cellulari (per tornare poi nei feature phone, i cellulari semplificati per un pubblico anziano o dedito al digital detox), salvo la duratura eccezione dei BlackBerry e dopo lo sfortunato Tapwave Zodiac del 2003, nel 2004 Nintendo lancia il DS, discendente ideologico del Game&Watch di Gunpei Yokoi ma dotato di touchscreen.
Anche SONY munirà una sua console portatile, la PSVita (2014) di un touchscreen e di un pannello posteriore sensibile al tocco: semplicemente Nintendo non abbandonerà più il touch e tutte le sue console successive, ovvero Nintendo DS Lite, DSi (XL), 3DS (XL), 2DS, New 3DS, New 2DS, WiiU e l’attuale Nintendo Switch useranno il touchscreen come mezzo di gioco.
Anche gli iPhone e tutti i cellulari su licenza Android continueranno ad usare i touchscreen, e l’esistenza di sistemi operativi concepiti per il tocco riporterà di prepotenza i touchscreen nelle automobili.
Oggi non possiamo concepire l’idea di uno smartphone senza il touch, e ci aspettiamo di avere un sistema Android Car o simile. Nei totem dei supermercati, nelle stazioni ferroviarie al posto delle biglietterie, persino nelle macchinette distributrici di bibite e snack, siamo ormai abituati a quel genere di dispositivi che solo un generazione fa erano considerati scomodi e odiosi.
Ancora adesso ad esempio, dopo la pubblicazione dell’articolo sulla Buick, qualche commentatore più vintage ha deciso di onorarci con suoi commenti relativi a quanto per lui i touch screen siano scomodi e pericolosi e preferirebbe tornare all’autoradio sempre nella mano destra come ne “L’Italiano” di Cutugno.
Ci sono voluti meno di vent’anni per “riprogrammare” lo stesso concetto di ergonomia e abituarci ad un nuovo modo di manipolare i nostri strumenti elettronici, seguito a decenni di negletto e rifiuto.
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