Stiamo all’erta, non date cani a quest’uomo, è un sadico!, ci avete più volte segnalato in tutta la mattinata.
Ci risiamo. Davvero, ci risiamo, e non possiamo che condividere l’appello di una nostra lettrice sinceramente preoccupata dalle conseguenze civili e penali di tali leggere condivisioni.
Condivisioni che continuate a ripetere, semplicemente, credendo di essere furbi evitando Facebook per usare WhatsApp.
Condivisioni che vi esibiamo, con censure che nel testo originale non ci sono.
Ancora una vilta, migliaia di condivisioni nelle quali anonimi “giustizieri” sbattono dinanzi al loro uditorio una vera e propria foto segnaletica impropria, arricchita da dettagli come nome, cognome, indirizzo di casa e numero di telefono di un tizio, paventando l’esistenza di una intera lista di proscrizione gestita da nessuno sa chi dove chiunque potrebbe finire.
Lo sapete che state tutti compiendo condotte gravissime, vero?
Immagino che quando sarete chiamati a rispondere del reato di diffamazione aggravata dal mezzo, dire che mi ha detto un amico mio che questo uomo è tanto cattivo ed io sono tanto buono basterà ad evitarvi un processo, vero? E naturalmente sono assai ironico.
Immagino che abbiate tutte le liberatorie del caso da esibire al Garante della Privacy quando vi renderà conto del fatto di aver sbattuto davanti alle folle i dati personalissimi di un tizio e della sua compagna per risibili motivi.
E immagino che abbiate tutte le prove di quello che dite no?
E se le avete perché non siete andati a denunciare il grave crimine per cui un tizio merita di essere additato come un mostro, sbattuto sui social e privato di ogni sembianza di privacy alle autorità competenti anziché organizzare un linciaggio in stile Far West?
Oltretutto, a scienza nostra, nel nostro ordinamento non esiste il crimine di “essere un sadico” e gli altri “capi di accusa” sono alquanto bizzarri e confusi.
Delle due l’una: o avete prove dei gravissimi reati che diffondete come in una chat carbonara su WhatsApp, ed allora avete il dovere di andarli a denunciare, perché persino sulla stampa locale non ne abbiamo traccia, oppure non ne avete, e quindi state sostituendo gli inquirenti e la magistratura in quel tipo di linciaggio che prima danneggia e poi chiede perdono.
Ma solo quandi è tardi.
Ma esistono i reati di diffamazione aggravata ed esiste un GDPR.
Perché sapete, non è la prima volta che accade.
Ricorderemo per sempre la triste parabola di A.M., giovane barista che il Popolo della Rete descrisse una volta come un “pedofilo” e che per questo patì la devastazione del suo bar e della vettura di proprietà per mano di vili anonimi che fomentati dalla Rete decisero di “farsi giustizia”. Per una bufala.
Tempo fa scrivemmo un articolo dal titolo Abbiamo tutti una scelta: il coraggio di non condividere.
Ognuno di noi è definito dalle sue scelte: voi oggi vi siete definiti con la scelta di condivere la foto di un tale, dando a chiunque gli strumenti per arrivare in casa sua, molestarlo, danneggiare la sua intimità, prendersela coi suoi cari.
Il tutto per risibili, assurde accuse che, forse, se non aveste deciso di diventare giudici, giuria e giustizieri, le autorità vi avrebbero detto se vere, realistiche o false.
Smettete immediatamente di condividere: non è giusto che il prezzo di simili azioni le paghi un tizio con l’unica colpa di essere stato gettato nel tritacarne della Rete.
Non è giusto che i torti e le colpe passino per le dita di qualcuno con uno Smartphone, ma solo per i tribunali.
Perché se colpe vi sono, il loro accertamento non può che passare per la legge ed il diritto, e non per il passaparola onli
Odiare ti costa: e dovrebbe costare non alle vittime, ma ai carnefici. Dovrebbe costare a chi, una condivisione per volta, vorrebbe rituffarci in un mondo di linciaggio e forca, di bullismo ed odio social. Non a chi desidera vivere in pace ed usare Internet per comunicare pacificamente.
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