Boris Romanchenko, prigioniero politico in Germania, si è spento sotto le bombe della Kharkiv invasa dai Russi, arso vivo nella sua casa.
E non è un buon segno, in quella guerra che il Cremlino si inventa essere “operazione speciale di denazificazione” ma che almeno in questo caso ne ha decisamente proseguito l’opera.
Prigioniero politico nella seconda guerra mondiale, Boris Romanchenko fu deportato sedicenne a Dortmund come prigioniero politico. Un tentativo di fuga lo portò nel campo di concentramento a Buchenwald, poi Peenemünde, Mittelbau-Dora e Bergen-Belsen, costretto a costruire razzi per il nemico tedesco.
Alla fine della guerra, restò per anni a disposizione dell’esercito sovietico nella Germania dell’Est.
Dopo la guerra aveva continuato la sua opera di pace per parlare degli orrori della guerra, e gli orrori della guerra l’hanno trovato per portarlo via.
Secondo quanto riferito dai parenti, la sua fine è stata particolarmente orrenda, arso vivo dal fuoco dei bombardamenti che ne hanno devastato la casa.
Solo le ossa ne rimangono, e neppure i soldi per fornirgli degna sepoltura.
Cosa della quale se ne occuperanno le autorità civili, ma sarà impossibile fino alla fine del conflitto.
«Mi ha insegnato tutto, lo andavo a trovare sempre durante le vacanze. Abitava in quel palazzo da trent’anni, da solo. Ho provato a convincerlo a venire via, ma non ha voluto. Ormai era sordo e faceva fatica a camminare».
Ha riferito la nipote dando notizia della morte.
Amaro il commento di Zelensky
«Questo è ciò che chiamano “operazione denazificazione”».
In effetti, quello che ha causato la morte di Boris Romanchenko ha un solo nome: guerra.
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