Viviamo in un’epoca di standard. Si rompe qualcosa nel vostro PC? Potete comprare tranquillamente delle nuove componenti e periferiche e sistemarlo. La vostra Nintendo Switch finisce la memoria? Comprate una microSD, la stessa che usereste su ogni altra miniconsole o cellulare e siete a posto. Lo finite sulla PS5? SSD esterno o una nuova nVME.
E così via: ma un tempo sostanzialmente era più economico il fai da te e le soluzioni in house, il che portava ad alcuni form factor decisamente assurdi.
Il futuro, visto dal passato, era un mondo decisamente interessante.
Nel 1981 Holborn (“Holland – Born”), ditta olandese decise di sfidare il Commodore PET con un suo “all in one”. Il concetto di All-in-one invero non ha niente di strano: un all-in-one è un computer con integrato un monitor sostanzialmente.
Molti computer da ufficio attuali lo sono, il Commodore PET lo era (con l’aggiunta di una tastiera integrata e l’inusuale capacità di aprirlo per manutenzione come il cofano di un’automobile con tanto di fermo pieghevole…), ma l’Holborn 9100 era fatto a forma di periscopio, con l’unità di massa in un grosso cassone esterno per non rovinare l’estetica, comprendente gli allora rari, pesanti e costosi hard drive e floppy drive.
L’Holborn 9100 fu fatto riciclando il fattore di forma dei terminali della casa, e aveva supporto per la penna ottica anziché il mouse (già esistente, che sarebbe esploso nel mercato di lì a poco).
La combinazione di costo, specificità del prodotto e un design sin troppo estroso anche per l’estrosa epoca degli anni ’80 rendono il 9100 impossibile da regalare per Natale ad un amico retrocollezionista: ne sono esistiti non più di 200.
Eppure gli Holborn 9100 non erano mal costruiti, anzi: erano incerneriati come il PET e usavano un allora moderno processore Zilog Z80A e il “cassone” esterno aggiungeva un lettore floppy (o due) da 8 pollici ed un disco fisso da 30Mb.
Poteva supportare CP/M e un sistema operativo proprietario, ma l’arrivo degli IBM compatibili di fatto uccise il “mercato della fantasia”, e con esso Holborn.
Il 9100 ebbe peraltro diversi modelli paralleli: uno degli esemplari del 6500, fu rubato e fortunosamente salvato tipo “Antico Vaso”, dando così traccia di un oggetto antico e bizzarro.
Nel 1984 Seiko decise che il genere umano era pronto a portare con sè uno smartwatch ricco di informazioni. Non esistevano touchscreen di dimensioni e caratteristiche idonee (esistevano, ma inadatti ad applicazioni così minuscole).
La soluzione? Perché non cercare di convincere l’utente a comprare una docking station, una intera enorme tastiera per programmare il proprio smartwatch e aggiungere 4Kb di RAM, supporto BASIC e una stampante?
Male che fosse andata, potevi vendergli “solo” una tastierina o i cavi necessari per collegare il Seiko ad un computer dell’epoca.
Senza uno smartphone da usare per dargli intelligenza e dati, il Seiko UC-2000 crollò presto di prezzo, per poi diventare una curiosità e una nota a margine nella storia dell’informatica retro.
Come ricordato dal sito NamokiMODS, se avete un Seiko UC-2000 in giro per casa complimenti, avete una delle cose più strane partorite dalla mente umana e un oggetto su cui, costruendo un’interfaccia a parte con tecnologie moderne, caricare una copia semplificata di Tetris assai simile al primo prototipo rilasciato da Pajitnov per Elektronica 60.
Molti computer degli anni ’70 e ’80 nascono come “hobby computer”, giocattoli per smanettoni che servivano per imparare i rudimenti di una nuova interfaccia o esplorare nuovi processori.
L’intera storia di Commodore parte dal KIM-1, kit di sviluppo per studiare i misteri del 6502, divenuto poi il PET, e, col passaggio mediante il progetto interno “miniPET”, il VIC20 e il Commodore 64.
IASIS ia-7031, il “computer in a book”, era sostanzialmente un kit di studio dell’Intel 8080 incollato sull’ultima pagina di un raccoglitore ad anelli con esempi e programmi.
Potevi collegarlo ad un lettore di cassette per salvare i tuoi programmi e, con gli esperimenti proposti, imparare le meraviglie della programmazione. Oggi infilare una scheda nuda e cruda in un raccoglitore sarebbe considerato una pratica ben poco sicura, ma ricordo che eravamo nel 1976 e prima dell’arrivo dell’Apple II era perfettamente accettabile costruire il proprio Apple I per tenerlo saldamente connesso ad un piano di legno o addirittura in una valigia svuotata usata come guscio.
Nel 2020 qualcuno ha caricato il manuale dello IASIS sull’Internet Archive, ovviamente senza lo IASIS.
Con un disco integrato, 128K di RAM con microprocessore 6502B della Synertek, circuiti stampati, mini-floppy drive da 5.25″ da 140K, l’Apple III era il successore naturale dell’Apple II.
Questo non accadde, ed abbiamo già avuto modo di descrivere l’Apple III come un mostruoso fallimento commerciale.
Come se non bastassero alcune soluzioni tecniche decisamente poco pratiche, come collegare la retrocompatibilità con l’Apple II all’avvio di un disco di sistema che bypassasse le nuove funzioni, Steve Jobs chiese come case un blocco di alluminio che dissipasse la temperatura senza rumorose ventole.
Se attualmente i Macbook e i Mac Mini sono di alluminio, ma hanno piccole e silenziose ventole comunque un motivo ci fu. La combinazione di alte temperature e le piste sulla scheda madre troppo ravvicinate (secondo Apple la seconda più probabile della prima) causarono una serie di malfunzionamentti nel sistema.
Essere un computer evoluto senza ventole, raffreddato in modo puramente passivo fece in modo che le temperature fossero tali da causare l’espulsione spontanea dei chip dagli zoccoli interni: questo e un’altra serie di difettucci che però abbiamo discusso nell’altro articolo e non comprendono il tema del momento, quello delle soluzioni sin troppo creative, comportarono la fine prematura della serie e il ritorno in auge dell’Apple II, unico prodotto di bandiera Apple fino all’arrivo di LISA e Macintosh.
Vi basti sapere per completare l’analisi relativa a questo articolo, che l’Apple III era uno sbalorditivo computer di moderno alluminio, silenzioso e bellissimo al tocco che di tanto in tanto andava sbattuto con forza sulla scrivania per convincere i chip più riottosi a tornare a posto.
Sappiamo tutti che oggi un PC da Gaming è un PC a prestazioni elevatissime che può essere usato per giocare i titoli più rinomati nel mercato. Per Amstrad nel 1993 un “PC da Gaming” era un PC datato e scarsamente performante (un 386 nel 1993…) fuso assieme con un Mega Drive.
E fuso si intende in modo letterale: una delle schede espansione era un Mega Drive acefalo che si poggiava alla scheda madre ed alle schede video ed audio dell’Amstrad, che quindi poteva vantare uno slot per le cartucce del Mega Drive sul frontale, un joystick da Mega Drive ed uno da PC, e sostanzialmente per un prezzo di due milioni di lire in Italia ti dava un PC non troppo performante (in seguito sarebbe dovuta uscire una versione 486, ma nonostante su Internet qualcuno giuri di averla vista non è mai arrivata sul mercato) unito ad una console che in un anno sarebbe arrivata al suo naturale fine vita.
Il tutto con un’ergonomia diciamo latitante, cui aggiungere il fatto che teoricamente avresti potuto aggiungere un lettore CD al MegaPC, ma non avresti potuto giocarci i giochi del MegaCD (espansione CD del Mega Drive che ispirò a Nintendo il progetto che poi SONY avrebbe realizzato come PlayStation…) in quanto la scheda che avrebbe dovuto permettere tale connessione non fece in tempo ad arrivare sul mercato.
Il che ci porta ad un altro tipo di computer pubblicizzato in Italia.
Su molti numeri di riviste per ragazzini del 1995 era pubblicizzato il PB Corner Computer. La risposta ad una domanda che nessuno si era mai posto, ovvero “se io volessi mettere il mio PC nell’angolo della scrivania, potrei costruirne uno di forma angolare”?
Il PB Corner Computer era esattamente quello che il suo nome promette: un Pentium da 75Mhz in un case sempre quadrato, ma orientato in modo che floppy e CD sbucassero fuori dai due lati, consentendo di incastrarlo in un angolo della scrivania ed usarlo come primitivo Multimedia PC con un apposito telecomando/mouse/controlli musicali.
Se eri un ragazzino, lo adoravi. Ma se eri un adulto, capivi che l’ergonomia di tutto ciò era completamente assente e, probabilmente, per risparmiare spazio avresti fatto meglio a comprare un case a minitorre come il resto dei mortali.
Ciò nonostante, ad oggi ha ancora una nicchia di affezionati, ed è uno dei modelli più desiderati per una “sleeper build”, ovvero per infilargli nelle interiora un moderno, ancorché scomodo e bizzarro PC da Gaming
Migliore del MegaPC in ogni senso, ma ancora più assurdo per altri versi, fu il povero LaserActive, una console “espandibile” inserendo in un apposito slot dei moduli chiamati i “PAC”.
Per 600 dollari avresti avuto un PAC compatibile col MegaDrive compreso di MegaCD, per altri 600 un PC Engine (computer/console da gioco molto rinomato nel Sol Levante), per “soli” 350 un onnipresente modulo per il Karaoke per divertirti con gli amici.
Anche in questo caso, per la famiglia media era più competitivo procurarsi un MegaDrive e chiudere lì la partita, rinunciando però all’innovativo formato “MegaLD”, che consentiva di usare i LaserDisk al posto dei CD sul modulo MegaCD, anche se titoli come Time Gal erano a onor del vero già usciti in versione domestica su CD rendendo il doppio acquisto una vanteria economica prima dell’uso di pubblicare i propri acquisti sui social più che vera utilità.
Anche di questo ne abbiamo parlato diffusamente: sostanzialmente Gradiente era una ditta che si occupava di cloni più o meno autorizzati. Il Phantom era un clone del NES, infilato in una carrozzeria dell’Atari 7800 (prodotto di cui Gradiente aveva le licenze che invece Nintendo non scuciva), venduto con una copia della Light Phaser del SEGA Master System e copie dei controller del SEGA Mega Drive, con tanto di tasto sovvrannumerario perché il NES usava due tasti e il Mega Drive tre.
Venduto con cloni delle IP Nintendo, come i Super Irmaos al posto di Super Mario e cartucce con giochi di terze parti, come Ghostbusters, ma con una livrea nero Atari per far finta fischiettando che quel bizzarro mostro di Frankenstein che stavano vendendo fosse una console reale.
Il tutto complicato dal fatto che i citati controller usavano il connettore DB9 del Master System e del Mega Drive ma il protocollo di comunicazione del NES, tanto per rendere impossibile usare accessori originali.
Immaginate di essere un creativo giapponese del 1995. Vi viene chiesto di creare una “console per le ragazze”. Potrebbe venirvi in mente che nel 1996 sarebbe uscito Tomb Raider, ed erano maturi i tempi per avere delle gamer al fianco dei gamer.
Oppure continuare a pensarla come il tipico nerd che considera la donna col fastidio di Sheldon Cooper che incontra la bella Penny nei primi episodi di The Big Bang Theory, esclamare “Che schifo le femminucce” e creare il Loopy, aka My Seal Computer SV-100.
Un affare dal colore grigio rosato, dai riflessi viola se esposto alla luce di una stanzetta bene illuminata piena di luce, tende e peluches, con un solo scomodissimo pad inutile per picchiaduro e giochi di azione (perché le ragazze non li avrebbero giocati secondo loro, e perché le ragazze non giocano in compagnia…), una decina di giochi tra cui un antesignano di Animal Crossing dove arredare la tua casetta al femminile (ma scritto da uno degli autori Final Fantasy e È quasi magia Johnny – Kimagure Orange Road, Kenji Terada, per cui evidentemente, citando Italian Spider-Man, “Le femmine non sono utili a fare il fantasy, ma sanno arredare una bella casetta”) ed una serie di giochi legati al mondo della moda, avventure romantiche al livello “Romanzo di Liala“, oroscopi, e purikura, ovvero programmi per stampare adesivi luccicosi (comprando la citata stampante) per adornare zainetti, borsette e cellulari in un tripudio di rosa e strass da far vomitare anche la Barbie.
Il Loopy fu venduto per tre anni, ebbe giochi solo per uno. Ovviamente, potremmo dire.
Per molto tempo, un modo accettato per espandere un computer era attaccarci un Sidecare, uno scalotto di fianco. Successe con l’Amiga, che poteva ospitare un disco esterno o un emulatore hardware PC, successe col Laser 128 (clone dell’Apple II migliorato), successe col Texas Instruments TI-99/4, commercializzato dall’inizio del 1979.
L’idea era attaccare una serie di accessori in modalità passante, e ce ne erano di ogni, da espansioni di memoria a moduli di sintesi vocale passando per moduli stampante.
Alcuni furono stroncati dalla FCC Americana per emissioni e sicurezza, evitando quindi che un computer domestico diventasse una specie di lungo serpentone di accessori. Di stroncatura in stroncatura, il progetto di un computer-LEGO con moduli passanti di ragguardevole lunghezza fu abbandonato, ponendo fine ad una potenziale era di computer chilometrici.
Nel 1998 Apple decise di reinventare la sua linea con colori traslucidi ed uno stile moderno. Reinventò anche il mouse, creando il Puck Mouse.
Un mouse tondo.
Avveniristico e moderno nell’aspetto, ma se vi siete chiesti perché un mouse è fatto a forma di ellisse, elongato verso il basso coi tasti verso l’alto e non tondo con grip laterali e un tastone singolo davanti è perché idealmente dovresti essere in grado di muoverlo mentre guardi il monitor e riconoscere l’alto dal basso.
Un Puck mouse era impossibile da muovere correttamente, e fu necessario vendere un iCatch per trasformarne la forma in un mouse convenzionale.
Era però uno dei primi mouse USB commercialmente diffusi della storia, e in seguito gli standard ADB (Apple Device Bus) e PS/2 furono abbandonati: ma tutti smisero di reinventare la ruota e gli attuali mouse USB continuano ad assomigliare ai loro antenati.
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