Bufala

“Si chiama Malak, bambina di tre anni uccisa in Palestina”: come rovinare un tema importante con le bufale

La storia della bambina Malak è una storia interessante. Ma interessante nel senso che dimostra come dinanzi ad una tragedia, l’istinto umano nel voler cercare la via semplice, lo scoop e la viralità non rende onore alle vittime.

Anzi.

Ma andiamo con ordine.

Ci è stata segnalata più volte la foto della “bambina Malak”, che abbiamo censurato in copertina per pietà. Perché non sbattiamo i morti e i bambini in prima pagina, non senza essere certi che non siano effettivamente vittime di sofferenza.

Ma riporteremo in chiaro qui, certi che non stiamo parlando di una vittima.

La storia ci ha colpito, come l’apologo contro la guerra.

Per carità, una guerra non piace a nessuno, e in un mondo in cui sembra che ogni “cittadino di Facebook” abbia il dovere morale di mettersi l’elmetto in testa, decidere chi sono i “buoni e i cattivi” nel conflitto Palestinese e prendere posizione per non essere fucilato dallo schieramento opposto, noi preferiremmo altro.

Preferiremmo acconsentire a capire che la guerra è una cosa brutta, non importa a nessuno chi ha sparato il primo colpo.

Ma come ha detto il Dottore nel noto serial Doctor Who, nessuno sa alla fine di una guerra cosa accadrà dopo, nessuno sa cosa accadrà quando tutti i buoni avranno ucciso tutti i cattivi.  Si sa solo che finché qualcuno non deciderà di sedersi e parlare, un numero incalcolabile di vite brucerà e sarà perso, ancora ed ancora.

E soffiare sul fuoco della guerra, di fake news in fake news, non aiuta. Perché è quello che è stato fatto. Forse  perché i veri morti, i veri bambini che soffrono, le vere vittime della guerra non sono così viralizzabili, non sono belle a vedersi, non suscitano l’istinto di cliccare e condividere, qualcuno ne ha creata una a tavolino.

Entra ora in scena la bufala della bambina Malak.

“Si chiama Malak, bambina di tre anni uccisa in Palestina”: come rovinare un tema importante con le bufale

Costruzione perfetta: si prende una bambina oggettivamente bella, una bambolina in un bel vestito, si sovrappongono le foto del conflitto, e le si attribuisce un nome angelico. Letteralmente angelico, dato che in alcune varianti della bufala viene detto che il nome Malak significa “Angelo” in Arabo.

E si lascia che il popolo della Rete si metta l’elmetto, che scateni l’ennesima guerra santa in nome non delle vittime reali della guerra, ma della “Bambina Malak, l’Angelo”.

Perché ogni guerra santa si scatena non per l’umano, ma per l’idea del divino creata dal popolo di Turno.

Entra ora in scena Tamuna, madre russa con un profilo che per seguire una metafora italiana potremmo definire “tutto buongiornissimi e Kaffeh”.

A cominciare dalla frase introduttiva, degna di uno di quei memes col Corto Maltese scontornato male in un veliero glitterato con Minni

“Sogna in grande e consentiti di sbagliare, la vita è breve, vivila felicemente”

Madre che, come ogni madre di questo mondo virtuale, ama esibire fiera scatti di sua figlia, Sophie

Non siamo guardoni, non vi mostreremo tutta la bacheca di Tamuna, ma effettivamente, quella è una foto di quando la figlia di Tamuna aveva tre anni.

Seguita da scatti in cui la piccola festeggia i suoi compleanni, si fa selfies con le amiche… momenti, sostanzialmente di vita comune. Forse un genitore attento non lascerebbe ad una bambina di cinque anni un cellulare per i selfies, ma qui non stiamo parlando di mamma Tamuna, che sicuramente sta facendo il suo meglio per crescere sua figlia con la quale condivide un interesse per Instagram.

Parliamo del fatto che diciotto ore fa madre e figlia godevano di ottima salute ed erano inclini al rito ormai periodico del selfie su Instagram. E la piccola aveva cinque anni, quasi sei e non tre, essendo passato del tempo dallo scatto usato per descrivere la piccola Malak. Scatto del 24 dicembre 2018.

A chi giova creare queste bufale?

A nessuno giova creare simili bufale. E intendiamo il ricco filone della foto decontestualizzata.

L’ultima volta che abbiamo controllato il finale della storia di “Al Lupo, al lupo!”, la storia non si chiudeva con un fermo immagine anni ’80 in cui il pastorello bugiardo, i lupi e gli abitanti del villaggio si davano il cinque ridendo, bloccati a mezz’aria dallo stacco di regia mentre partiva la sigla finale con un sincopato ritmo di chitarra.

Quando abbiamo letto il finale della storia, il pastorello bugiardo stava cercando di spiegare ai suoi concittadini che alla fine i lupi stavano arrivando davvero, ma fallendo.

Con la storia che insinua con assoluta certezza che alla fine della storia i lupi arrivarono per divorarsi tutte le sue pecore, e probabilmente uccidere anche lui per passare a devastare il resto del villaggio.

In questo momento voi che avete condiviso siete il pastorello.

Quando bisognerà parlare davvero della guerra e delle sue implicazioni, avrete avvelenato il pozzo così tanto che nessuno vi crederà.

Ogni morto morirà invano, ogni dolore sparirà nella pioggia e nelle lacrime perché avete voluto inventarvi una bambina Malak o condividere senza verificare.

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