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Scomparsa: che fine ha fatto la Granduchessa Anastasia?

Il 17 luglio 1918, in una cittadina ai confini estremi di quella che era ormai la Russia comunista, si consumò un crimine che tutt’oggi suscita fascino, suggestione e sentimenti contrastanti. Il luogo in questione è Ekaterinburg in Siberia, capolinea per l’ultima famiglia imperiale russa.

Dopo un periodo di detenzione sempre più stringente, il Soviet degli Urali, decise di giustiziare la famiglia e gli ultimi servitori rimasti, per paura che questi fossero tratti in salvo dall’esercito dei Bianchi sempre più vicino. Nel giro di qualche giorno il comandante di Casa Ipatiev (detta la “casa a destinazione speciale”), Jakov Jurovskij, organizzò dettagliatamente le fasi non solo dell’esecuzione, ma anche del futuro smaltimento dei corpi.

Nella notte fra il 16 e il 17 luglio, a mezzanotte circa, la famiglia, il Dottor Botkin, la dama di compagnia Anna Demidova, il cuoco Charitonov e l’inserviente Trupp, vennero svegliati con l’ordine di prepararsi a partire. Era necessario uno spostamento “per proteggerli dai disordini che si erano verificati in città”. Tutti scesero nel seminterrato, dove gli fu ordinato di aspettare e subito dopo furono disposti su due file per una “foto” segnaletica che sarebbe stata inviata ai loro parenti a testimonianza del fatto che, malgrado in detenzione, erano ancora vivi ed in buona salute.

Qualche minuto dopo dieci uomini (pochi rispetto al numero inizialmente previsto, perché alcuni si erano rifiutati di sparare alle granduchesse) entrarono nella stanza e ai condannati fu comunicato che a seguito dei ripetuti tentativi dei loro parenti di liberarli, il Soviet degli Urali aveva deciso che sarebbero stati fucilati.

Ad ogni tiratore, armato di revolver, era stato assegnato un bersaglio, ma molti ignorarono quest’ordine e il primo a morire fu l’ex zar per i molti colpi al petto. Lo stesso si può dire per la zarina, colpita quasi subito alla testa. Lei e la figlia Olga tentarono di farsi il segno della croce ma non ebbero il tempo. A tutti era stato ordinato di mirare al cuore per evitare eccessive fuoriuscite di sangue, ma quando la sparatoria si interruppe, Alexei rantolava sul pavimento, Tatiana, Maria e Anastasia erano accovacciate e si lamentavano accanto alla seconda porta (chiusa) della stanza. Gli esecutori rimasero impressionati dal fatto che i proiettili continuassero a rimbalzare addosso ai figli di “Nicola il Sanguinario” e che nemmeno le punte delle baionette riuscissero a passarne i vestiti. Jurovskij quindi, si avvicinò al tredicenne zarevich Alexei e lo finì con tre colpi alla testa. Resisi conto che gli spari avevano svegliato le famiglie del vicinato, solo Tatiana fu uccisa con un colpo alla testa. Anastasia e Maria furono picchiate con i calci dei fucili finché il tutto parve concluso.

Purtroppo l’opera non era completa, infatti:

«Quando deposero sulla barella una delle figlie, essa lanciò un urlo e si coprì il volto con una mano. Constatammo che erano vive anche le altre. Ormai non si poteva più sparare, perché le porte erano aperte […] Ermakov prese il mio fucile con la baionetta innestata e a colpi di baionetta finì tutti coloro che erano  ancora vivi.»

(Sterkotin, uno dei soldati appartenenti al plotone d’esecuzione)

Il sotterraneo di Casa Ipatiev all’arrivo dell’Armata Bianca

Una volta accertati i decessi delle undici vittime, i corpi furono caricati su un camion che era stato lasciato in moto per tentare di coprire il rumore degli spari. C’era necessità a questo punto di occultare i corpi in modo che nessuno li trovasse mai. La speranza era che rendendo impossibile il ritrovamento, complice anche la censura del regime ormai in atto, col tempo il mondo si sarebbe dimenticato del vecchio sovrano e della sua famiglia.
L’esecuzione tuttavia aveva richiesto più tempo del previsto e i soldati erano in notevole ritardo sulla tabella di marcia. Erano già quasi le tre del mattino e Jurovskij si trovò a dover calmare i restanti militari del soviet che non avevano preso parte all’eccidio. Erano quasi tutti completamente ubriachi e decisamente arrabbiati per aver perso l’occasione di uccidere Nicola II.

Inoltre, quando iniziarono ad essere spogliati i cadaveri, il mistero dell’apparente “immortalità” dei figli dello zar venne svelato e si presentò per il comandante l’ennesimo intoppo: all’interno dei vestiti dei cinque ragazzi erano stati cuciti i diamanti, i gioielli e le gemme che la famiglia era riuscita a portare con sé da San Pietroburgo per impedirne la confisca. La zarina era convinta che sarebbero stati utili per “comprare” una chance di sopravvivenza e riuscire a mandare in esilio almeno i figli, magari presso qualcuno dei tanti parenti in Europa. In un eccesso di zelo aveva inconsapevolmente prolungato la sofferenza delle quattro granduchesse e dello zarevich durante la fucilazione.

I militari, resisi conto della presenza massiccia di preziosi, iniziarono a saccheggiare i corpi nella speranza di potersi portare a casa qualche conveniente souvenir. Per calmarli Jurovskij dovette minacciare l’arresto e la possibile condanna a morte dichiarando che stavano perpetrando un furto nei confronti di beni che ormai appartenevano allo Stato. Con questa ispezione furono recuperati circa 8 kg di pietre preziose.

Il luogo prescelto per la sepoltura era stato individuato in una miniera abbandonata all’interno del bosco dei Koptyaki, a una ventina di chilometri da Ekaterinburg. Una volta giunti sul posto i cadaveri furono definitivamente spogliati, i vestiti bruciati e le vittime gettate nella cava, che quindi i militari tentarono di far collassare per completare l’occultamento, gettando all’interno una grande quantità di bombe a mano. La buca tuttavia, profonda soltanto tre metri, non era profonda abbastanza per contenere i cadaveri. Stava facendo giorno e, lasciati degli uomini di guardia, Jurovskij tornò in città per fare rapporto e risolvendosi di tornare la notte seguente per spostare e seppellire i corpi in un secondo luogo.

Il comandante, assieme al suo macabro seguito si trovarono alla cava nella radura “dei quattro fratelli”. Una volta estratti i resti, questi furono caricati sull’ormai noto camion per seppellirli in un luogo ancora più distante dal centro cittadino. I Bianchi stavano avanzando ed era essenziale che non avessero modo di ritrovare la Famiglia. Dopo qualche chilometro tuttavia, l’ennesimo intoppo: il fango non permetteva l’avanzata dell’autocarro. La decisione fu quindi di scavare una buca improvvisata e seppellirli sul posto.

Per depistare le future indagini nella sepoltura principale vennero deposti nove corpi, gli altri due in un luogo poco distante, ritrovati rispettivamente nel 1979 e nel 2007.

Olga Nikolaevna e Tatiana Nikolaevna sulla spiaggia in Crimea insieme ad Anna Vyrubova

Alcuni giorni dopo, quando i Bianchi effettivamente raggiunsero Ekaterinburg, Casa Ipatiev fu sottoposta ad un’accurata ispezione. Al suo interno furono trovati oggetti di ogni tipo, da effetti personali come bottigliette di profumo, forcine, borse, sacre icone rese irriconoscibili, giocattoli da costruzione per bambini (probabilmente appartenenti ad Alexei)… Moltissimi di questi oggetti erano sparsi fra le stanze della casa, nella latrina principale e praticamente incenerite nei camini dell’edificio.

Nonostante la ricerca, affidata all’investigatore legale Sokolov, i corpi non vennero mai trovati, solo in prossimità della cava dove si era tentato di inumare le vittime in una prima fase, furono ritrovati una grande quantità di oggetti: scarpe, corsetti, una dentiera (appartenente al Dottor Botkin), pezzi di ossa e un dito umano. Segno inequivocabile che qualcosa di terribile era capitato fu il ritrovamento del corpo carbonizzato del cagnolino di Anastasia, Jimmy.

Le indagini si chiusero a causa del ritorno dei Rossi con la conclusione che i corpi fossero stati bruciati. Il silenzio scese definitivamente sulla vicenda con il divieto che, nel 1938, Stalin impose di fare anche un solo accenno al passato imperiale della Russia. Casa Ipatiev stessa, che era stata adibita a Museo della Rivoluzione, venne demolita negli anni ‘70.

La brutale fine che giunse per la famiglia dell’ex-zar e gli altri, avrebbe tuttavia reso immortale il loro lascito. Gli interrogativi sulla loro sparizione furono amplificati dal fatto che fu resa di dominio pubblico solo la morte di Nicola, resasi necessaria a seguito di un “tentativo di fuga”. I giornali dichiararono quindi che il resto della famiglia era stato spostato in un “luogo sicuro”.

L’occultamento della strage di Ekaterinburg sarebbe certamente riuscito se, nel maggio 1979, l’archeologo amatoriale Alexander Avdonin e il regista Geli Ryabov, rinvennero nel luogo della sepoltura principale tre teschi che dissotterrarono e tentarono di far analizzare. Trovatisi però davanti alla reticenza dei laboratori di zona si arresero a dover aspettare che i tempi fossero maturi e seppellirono di nuovo i resti nel 1980. Ryabov decise di dichiarare ufficialmente la sua scoperta dieci anni dopo, sotto il governo di Mikhail Gorbachev, quando ormai l’Unione Sovietica aveva i giorni contati (il muro di Berlino sarebbe caduto solo dopo pochi mesi, il 9 novembre 1989).

Le ossa contenute in quella che sarebbe diventata la “sepoltura 1” furono esumate nel 1991, ma si dubitò a lungo che si trattasse dei Romanov sia per i traumi riscontrati sui resti che per il numero: nella fossa erano presenti nove scheletri, ma a questo punto era noto come il 17 luglio 1918 avessero perso la vita undici persone.

L’identificazione tuttavia, non fu immediata. I resti erano in condizioni non ideali e non si riteneva possibile che proprio la famiglia imperiale avesse potuto incontrare una fine tanto brutale. Solamente le ossa delle gambe della primogenita di Nicola, Olga, ventitreenne all’epoca della morte, erano spezzate in più punti, segno che il corpo era stato fatto a pezzi.

Con l’aiuto della ricostruzione facciale, e delle analisi del DNA mitocondriale condotte prima fra gli scheletri e poi in base alle parentele europee della famiglia, venne decretata una certezza quasi del 100% che i resti ritrovati effettivamente appartenevano alle vittime di Ekaterinburg.

Mancanti all’appello tuttavia erano il quattordicenne Alexei e una delle sorelle minori, Maria o Anastasia. Analizzando approfonditamente i tratti somatici dello scheletro femminile più giovane ci si rese conto che non era la tristemente famosa Anastasia a risultare assente, ma la “figlia di mezzo”, Maria. Dietro le storie di rivendicazione che avevano pullulato il XX secolo c’era quindi un fondo di verità? Era allora possibile che qualcuno fosse sopravvissuto alla strage?

Maria Nikolaevna in uno scatto ufficiale del 1914

Sembrava necessario arrendersi all’evidenza di una faccenda che non sarebbe mai stata chiarita fino in fondo ma all’improvviso, un colpo di scena. È il 29 luglio 2007 e di nuovo nel bosco dei Koptyaki una scoperta inattesa: vengono rinvenute ossa, presumibilmente umane, non troppo lontano dalla sepoltura 1. Non si tratta di molto, solo una quarantina di frammenti ossei, qualche dente, pezzi di stoffa, pallottole e cocci di terracotta.

Il mondo ricomincia a parlare, e i reperti vengono sottoposti ad analisi del DNA ancora più accurate rispetto a quelle ritrovate nel ’79. La famiglia Romanov infatti era stata canonizzata dalla Chiesa Ortodossa nel 2001 con il titolo di “Portatori della Passione” ed aveva ricevuto funerali di stato alla presenza perfino di Boris Yeltsin. Se le nuove ossa ritrovate ad Ekaterinburg fossero appartenute ad Alexei e Maria, si sarebbe trattato di reliquie. Necessarie erano quindi ulteriori verifiche.

Vennero chiamati anche studiosi americani e l’equipe che si occupò dell’identificazione dovette agire con moltissima cautela e in condizioni non ideali. I resti erano infatti in condizioni pessime, tali da rendere difficile il reperimento di campioni di una qualità idonea per un test che avesse un risultato preciso.

Ad uno sguardo esterno era evidente che si trattasse di un maschio e di una femmina relativamente giovani. Dopo aver riesumato le ossa di Nicola II e della zarina Alessandra ebbe luogo un confronto accurato e venne stabilita la parentela al 98%. La triste conclusione fu l’apprendere che la furia degli assassini su Alexei e Maria si era scagliata con forza ancora maggiore rispetto a quella subita dalle altre vittime.

Non era chiaro nella notte fra il 17 e il 18 luglio 1918, come si sarebbero potuti far fisicamente sparire i corpi dei Romanov, quindi il primo tentativo di smaltimento fu fatto con quello dello zarevich (il più scomodo se fosse stato ritrovato) e quello di una delle donne. Il fatto che neanche i fautori dell’eccidio fossero stati capaci di riconoscere il secondo corpo ci fa capire quanto i  cadaveri fossero già stati resi irriconoscibili.

Fu montata una pira per tentare di cremarli, ma dopo breve tempo si constatò che era necessario troppo tempo. La decisione finale fu quindi quella di farli a pezzi e corroderli con l’acido solforico in modo che di loro rimanesse il meno possibile. Nonostante le ricerche, di Alexei e Maria rimangono solo quaranta frammenti ossei custoditi ancora oggi nell’archivio di Ekaterinburg in attesa di “ulteriori conferme”.

A questo punto ognuno di noi avrà tratto le sue conclusioni e compreso come in realtà nessuno sopravvisse quella notte. Nessuna fuga miracolosa, nessuna pietà. Decade anche, supportata ulteriormente dall’incompatibilità genetica, la rivendicazione portata avanti da Anna Anderson che continuò ad affermare di essere la granduchessa scomparsa fino alla morte.

In una delle ultime lettere dalla Siberia inviate ad un’amica, Anastasia, scrisse più volte “…non dimenticarci”. A pochi giorni dall’anniversario della strage di Ekaterinburg ci pare opportuno rispondere alla sua richiesta ancora una volta, e dare una voce a chi, la storia, voleva far diventare cenere.

Non vogliamo in questa sede assolvere Nicola II dalle decisioni indubbiamente sbagliate che si sono susseguite durante il suo regno. Era un sovrano debole, che non doveva e non voleva diventare imperatore. Lui e la moglie per il desiderio eccessivo di proteggere la loro famiglia dagli intrighi di corte si sono allontanati dal mondo, ma la conseguenza è stata diventare sordi ai bisogni del popolo, meritevole di ascolto e protezione in un momento storico cruciale. L’era degli assolutismi era finita da un pezzo, ma se ne accorsero, probabilmente, troppo tardi.

Detto questo, cancellare un simbolo, un nome, lasciarsi andare all’odio, ha mai portato a qualcosa di buono? Alla fine conoscere la storia non serve proprio ad evitare di ripetere gli errori passati per un futuro migliore?

La famiglia imperiale al completo in uno scatto ufficiale del 1914 

Passaporto Futuro è un’iniziativa no profit promossa da giovani studenti spinti dalla voglia di divulgare la conoscenza acquisita nel corso dei loro studi.

Assieme a Bufale.net collabora per la stesura di una rubrica chiamata “Bufale Junior” con l’obiettivo di creare una conoscenza sana e condivisa.

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