Crime Facts

“Rosaria sono io”, la rabbia femminista dopo il massacro del Circeo

Una ragazza siede in un bar e osserva gli avventori mentre sfogliano il giornale. Da pochi giorni la cronaca nera parla di due giovani massacrate da tre ragazzi, una di loro è morta. È successo a San Felice Circeo, in provincia di Latina, un posto che da quel momento sarà maledetto per sempre.

Tra il tintinnare di ceramiche e cucchiaini si consumano i commenti, qualcuno scuote la testa e si lascia andare in pesanti accuse nei confronti dei tre aguzzini. Quella ragazza dice: “Una volta tanto sono d’accordo anch’io con la gente della strada, col maresciallo e col piccolo borghese del terzo piano, con l’edicolante, con il dentista democristiano.

Quella ragazza è Lidia Ravera, ha 24 anni e scrive per Muzak, una rivista in cui si fa cultura musicale e attivismo politico. Lidia e gli avventori del bar stanno parlando del massacro del Circeo, uno dei capitoli più neri della cronaca italiana.

Il massacro del Circeo

Nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975 Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, 19 e 17 anni, vengono violentate, seviziate e massacrate da Angelo IzzoGianni Guido e Andrea Ghira in una villa che si affaccia sul mare pontino. Izzo e Guido le hanno attirate con l’espediente di una festa. Rosaria muore, Donatella sopravvive fingendosi morta.

Le due vengono chiuse in un bagagliaio e riportate a Roma in piena notte. Donatella inizia a picchiare e urlare accanto al cadavere dell’amica, così attira l’attenzione di un metronotte. Il resto è storia nota.

Izzo e Guido vengono arrestati, Andrea Ghira sparirà per sempre. Non prima di aver scritto una lettera ai suoi camerati, promettendo loro la libertà e la morte della stessa Colasanti: “Quella stron*etta la faccio fuori, farà la fine della Lopez.

Ora, torniamo a Lidia Ravera e a quel bar in cui si commenta la vicenda.

Muzak, breve storia di un mensile

Muzak, per dirla come gli stessi autori, è un “Mensile di musica Progressiva-Rockfolkjazz” fondato nel 1973 sotto la direzione di Giaime Pintor e orbitante nella sinistra extraparlamentare. Non per questo parliamo soltanto di un periodico di propaganda, anzi. Muzak è un piccolo universo che dal 1973 al 1975 ha raccontato la musica con l’obiettivo di “rimarcare che tutto ciò che è musica (anche la muzak, appunto) è sempre e comunque una cosa che riguarda delle persone“.

Perché il nome “muzak”? La muzak, in termini anglosassoni, è la musica commerciale e poco impegnata che talvolta tocca pure i mostri sacri. “Anche i Beatles”, si legge nel manifesto, “quelli disgustosamente muzak di ‘Michelle’”Musica, ma non solo.

Le parole di Lidia Ravera su Rosaria Lopez

Nel numero 6 (raccolto da Mediateca Italiana) del 1975, uscito nel mese di ottobre, a pagina 6 troviamo due pagine firmate da Lidia Ravera, che l’anno successivo pubblicherà il libro Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti. Lei, insomma. Ravera dedica il suo pezzo a Rosaria Lopez sotto il titolo … Paura non abbiamo. Nella sinossi leggiamo:

I figli della ricca borghesia fascista hanno ucciso una ragazza di borgata. Giochi di massacro e amori ancillari: non è da sempre che i signori violentano le loro serve? Ma siamo stufe di compiangerci e subire. È ora di organizzare la nostra difesa.

In apertura abbiamo fotografato Lidia Ravera all’interno di un bar mentre osserva e discorre con altri avventori sul massacro del Circeo. Lidia dice di amare quel senso di collettività che per la prima volta fa sentire in armonia una “femminista, comunista e sostenitrice della dissoluzione della famiglia” con le altre persone.

Al di là della narrazione sulla ferocia di tre “squadristi coperti dall’impunità del fascismo”, dove “tutto è spiegato” se “aggiungi l’arancia meccanica con “scoppi di violenza organici al sistema”, la giovane Ravera nota che c’è dell’altro.

Più volte i quotidiani hanno indicato Rosaria Lopez come la ragazza di borgata, categoria “disprezzata”, quella “dei pezzenti” e sa bene che Izzo, Guido e Ghira non avrebbero mai fatto del male alle “levigate ragazzine dei Parioli”. Le ragazze dei Parioli non sognano “la scalata sociale” che arriverà con un “padrone da sposare”. Le ragazze di borgata, le proletarie, sì.

Quasi tutte le coetanee di Rosaria e Donatella avrebbero ceduto alla possibilità di una gita al mare con i rampolli della Roma bene, scrive ancora Ravera. Mentre lei riflette, una signora si alza e le dice di aver sempre raccomandato alle figlie di non accettare passaggi dagli sconosciuti. Accade dal 1975, quindi, e anche prima, che nelle tragedie qualcuno riesca a trovare nelle vittime una fetta di responsabilità.

Lidia Ravera, quindi, scrive:

Il rimprovero alle ‘sbarazzine assassinate‘ è sottinteso […], ma noi non dobbiamo sempre difenderci. Glielo dico: siamo stufe di avere paura, di non poter rispondere a un sorriso perché lì dietro si nasconde il pericolo di essere toccate, violentate, picchiate, disonorate, insultate, uccise.

Poi rincara la dose:

Mi guarda gelida: “Cara signorina, il mondo è cattivo, bisogna sapersi comportare“. Eccola, la morale della favola: i fascisti dei Parioli sono dei mostri (cioè delle eccezioni, prodotti guasti di una società sana) e le vittime sono due innocenti vanesie che “non hanno fatto attenzione“.

Infine monta la rabbia, quella che ha mosso il movimento femminista per cambiare una volta per tutte la legislazione italiana sullo stupro. Lidia Ravera non si trattiene: urla tutto in faccia a un uomo che sta per contraddirla (“Essere dalla parte dell’aggressore, parola difficilissima da declinare al femminile, mi tranquillizza”) e sente la necessità di “un servizio d’ordine femminile” chiamato GARL“Gruppo Armato Rosaria Lopez”.

A San Felice Circeo, oggi, nessuno vuole più sapere di questa storia. La giornalista Antonella Lattanzi lo racconta in un suo articolo pubblicato nel 2016, quando visita il luogo del massacro per documentare lo stato in cui versa la villa dei Ghira. Gli abitanti le dicono:

Perché lo chiamano massacro del Circeo? L’ha fatto gente di Roma che è venuta qui, ha fatto una cosa orribile, ed è tornata a Roma. Che c’entriamo noi?

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