Shadow's Play

Retrogames: quando la copia sopravvive all’originale (e talora diventa più famosa)

Domanda: quando è possibile copiare una proprietà intellettuale o meglio, taroccarla abbastanza perché sembri diversa, venderla e ottenere qualcosa che a tratti supera in fama l’originale, a tratti lo pareggia, ma viene continuato ad essere venduto, tra strappi e mugugni?

Il puzzle non è di facile soluzione, e naturalmente non vi incoraggeremo a darvi alla copia selvaggia: rischiereste ben più di qualche problemuccio legale.

Retrogames: quando la copia sopravvive all’originale (e talora diventa più famosa)

Ci sono stati casi illustri nella storia, e di alcuni abbiamo parlato in altre rubriche, di videogames famosissimi (a volte per tutti, a volte nelle loro nicchie) che erano semplicemente nati come ripiego perché in un mondo di “giochi basati sulle proprietà intellettuali di grido” semplicemente, all’ultimo momento, qualcuno era stato avvisato che la proprietà intellettuale di grido era diventata irreperibile.

Il prologo della storia: la caduta di Atari

Per spiegare il fenomeno dobbiamo esaminare ancorché brevemente un periodo storico in cui entrambi “i malcostumi”, ovvero giochi derivati uno dell’altro sugli scaffali senza controllo e il tentativo di impacchettare prodotti oggettivamente sottotono coi colorati manifesti di film di grido nel tentativo di attirare il giocatore erano diffusi.

Il biennio 1982-1983, quello in cui mentre da noi ragazzini nelle pubblicità televisive urlavano felici davanti alle vetrine illuminate dalle lucine di Natale e imbiancate dalla finta neve “Atari? Magari!!!” l’Atari VCS finiva il suo naturale ciclo vitale in una decadente danza di giochi scadenti, se non imbarazzanti, venduti in conto vendita e pallet di invenduto.

Tra i vari tentativi dei produttori di videogames per Atari, casa madre compresa di sopravvivere abbiamo già letto assieme apparvero i giochi tratti dai film di grido (ET, Star Wars) e i titoli derivativi l’uno dell’altro.

Cassetta di ET Atari rottamata trovata nella discarica di Alamagordo New Mexico. 2014.0190.01, National Museum of American History

Ovviamente parliamo del mondo videoludico di seconda generazione: non c’erano a disposizione le meraviglie della tecnologia moderna per creare mondi immersivi e fantastici, e personaggi iconici e realistici.

Non c’era neppure lo spazio fisico in cartuccia per avere cutscene e narrazioni: tutto quello che ti era raccontato dovevi cercartelo nei manuali e ricostruirlo con la fantasia da poche immagini “scubettate”.

Avere alle spalle una forte identità di grido portava i ragazzini in negozio.

E talora capitava che, mentre eri già pronto a lanciare il tuo “videogioco tratto dalla serie animata/dal film” i legittimi proprietari delle stesse ti “levassero il tappeto sotto i piedi”.

E questa è una citazione quasi testuale.

Donkey Kong (e i Mario Bros.) esistono solo perché è esistito Braccio di Ferro

Siamo nel 1981: Atari comincia ad arretrare, l’astro di Nintendo comincia a brillare anche nel mondo occidentale. Già in madrepatria Nintendo aveva posato gli occhi su Braccio di Ferro, l’eroico marinaio del Thimble Theater di E.C. Segar che “Spaccia tipacci/mangiando spinacci”.

Dati i limiti tecnici dell’epoca, Shigeru Miyamoto e co. decisero per un gameplay semplicissimo, basato sull’eterno canovaccio della serie televisiva ispirata ai fumetti de Segar: Bluto (in Italiano noto come “Bruto il Terribile”) all’epoca, il forzuto, rissoso e stupido marinaio rivale di Braccio di Ferro rapisce la bella Olivia e Braccio di Ferro deve accorrere al suo salvataggio dopo aver fatto il pieno degli amati spinaci.

Donkey Kong nasce come un clone di Braccio di Ferro

Il gioco era praticamente pronto, con un “piccolo” ostacolo: Nintendo non riuscì a procurarsi i diritti sui personaggi del Thimble Theather.

Ci riuscirà solo un anno dopo, quando lancerà il “vero” gioco di Braccio di Ferro, che come vedremo tradisce le sue origini. “Fu come se ci avessero strappato la scaletta sotto i piedi”, riferirà Shigeru Miyamoto, che fece quello che tutti (e vedremo: tutti) quelli che non possono permettersi più una proprietà intellettuale fanno.

Ovvero inventò sul posto dei personaggi-prestanome.

Shigeru Miyamoto sostituì al volo Bruto il Terribile con un personaggio abbastanza differente da non essere confondibile ma abbastanza iconico per prendere il posto: uno scimmione stupido, muscoloso e rissoso, che chiamò “Donkey Kong” perché il nome “Donkey”, somaro, avrebbe evocato l’immagine di un personaggio mentalmente ottuso come Bruto il Terribile.

Il gioco di Braccio di Ferro come apparve alla fine

Andato via Bruto (o Bluto) dovette andar via Braccio di Ferro: al suo posto fu introtto “Jumpman”, presentato come un idraulico (in modo da evitare legalmente fastidiose assonanze col marinaio di segar), un baffuto idraulico dalla salopette rossa (credo capirete dove stiamo andando a parare) e al posto di Olivia la bionda Pauline (diventata nei capitoli successivi della saga una brunetta).

Anche la trama divenne un canovaccio buttato lì per ostentare la divergenza: Jumpman e Pauline sono proprietari di un gorilla stupido chiamato Donkey Kong che si sente trascurato e maltrattato. Per vendetta Kong rapisce Pauline e tira barili addosso a Jumpman, che di salto in salto deve salvare la sua fidanzata e punire lo stolto animale non più animaletto.

Il gioco ebbe un enorme successo, così tanto che quando alla fine il gioco di Braccio di Ferro arrivò, il pubblico lo stroncò come una derivazione non necessaria dell'”originale” Donkey Kong.

Cosa accadde dopo

Dai, lo sapete. Perché me lo chiedete? Nel 1983 con Mario Bros. fu dato un nome ed una identità al “clone non troppo autorizzato di Braccio di Ferro” e i Fratelli Mario e Luigi Mario divennero i paladini di una intera generazione, protagonisti di una lunga sequela di giochi con una lore, una trama interna, Pauline si “fece da parte” (diventando brunetta e sindaco di una città, nonché gestore di un parco naturale dove ai discendenti dell’un tempo maltrattato Donkey Kong è data una vita felice) e arrivò la Principessa Peach del Regno dei Funghi rendendo Mario un avventuriero transdimensionale dalla vita sin troppo impegnata per essere solo un umile manovale.

Braccio di Ferro non ebbe mai fortuna nel mondo videoludico

L’imitazione dell’imitazione: le Giana Sisters

Nel 1987 lo studio tedesco Time Warp Productions e il publisher Rainbow Arts tirarono fuori un platform fortemente ispirato a Super Mario Bros. e sfacciatamente rivenduto come tale, con messaggi pubblicitari velatamente comparativi che descrivevano la superiorità delle sorelle rispetto ai “fratelli”, inteso come i “Fratelli Mario”

Anche in questo si riempiva un vuoto: Nintendo, da sempre severa guardiana delle sue proprietà intellettuali, non aveva mai creato o autorizzato un porting della saga di Mario per il Commodore 64.

Dovremo aspettare il 2019 per avere un port non ufficiale funzionante su quasi tutti i Commodore 64 (tranne quelli sottoposti al c.d. VSP Bug, ovvero dove non è possibile forzare il funzionamento del chip grafico per simulare lo scorrimento dei giochi NES e Master System senza usare espansioni di memoria), e nel frattempo TWP tirò fuori un gioco con le stesse meccaniche di Super Mario Bros., e il primo livello sospettosamente simile, con le controparti genderbent dei due idraulici.

Quando si dice “Tirare troppo la corda”

In questa versione le due sorelle Giana e Maria di Milano (sic!) vengono trasportate nel Mondo dei Sogni da un avido drago e devono combattere per svegliarsi e tornare a respirare l’aria della Madunina.

Ovviamente Giana (o Gianna, il gioco non era chiaro…) e Maria erano “fortemente ispirate” a Mario e Luigi, il drago a Bowser e il Mondo dei Sogni al mondo dei Funghi della Principessa Peach.

Una leggenda metropolitana vuole Rainbow Arts trascinata in tribunale da Nintendo: in realtà per quanto Nintendo effettivamente contattò la concorrenza rilevando le estreme somiglianze non ci fu bisogno di adire i tribunali.

Il franchise, ora

Le Sorelle Giana avevano un grande successo… ma nella sola nicchia dove l’ormai onnipresente NES non invadeva le case degli Occidentali.

La combinazione del timore da “primo contatto” e il fatto che il pubblico principale delle sorelle Giana coincideva col pubblico Commodore e Amiga che dopo il 1993 avrebbe cessato di esistere per suicidio/fallimento di Commodore fece i modo che nonostante le recensioni favorevoli Great Giana Sisters sparì subito dagli scaffali.

Cosa accadde dopo

Che ci crediate o meno, potete comprare un gioco della serie delle Sorelle Giana e giocarlo assieme ad un gioco della serie dei Fratelli Mario: Giana continua ad esplorare il mondo dei sogni per salvare la sorella Maria in “Great Giana Sisters: Twisted Drams” per Nintendo Switch.

La saga si è infatti evoluta in un platform ispirato ma distante dai Fratelli Mario in cui Giana conserva il dono della trasformazione, ma passando dall’essere un’aggressiva ragazza punk dai poteri infuocati ad una dolce e innocente ragazzina “pop” dai candidi abitini firmati con musiche e ambientazioni che cambiano a seconda dell’aspetto della protagonista.

Il gioco “originale” è diventato un oggetto di collezione, come sovente accade a quello che in passato fu ritirato dal commercio e/o venduto in meno esemplari di quanto preventivato.

La mascotte del Master System ha rischiato di essere Son Goku (o quasi)

Quest’anno è venuto a mancare Akira Toriyama, padre dell’eroe spaziale Son Goku, protagonista di Dragonball. Iconica serie ancora in corso d’opera dagli anni ’80 ad oggi, tranne un intervallo negli anni ’90, dove il genere wuxia incontra il genere supereroico.

Per i quattro sassi che ancora non conoscono la storia di un anime e manga ormai generazionale, Dragonball nasce come parodia del “Viaggio in Occidente”, col gioviale e fortissimo bambino dalla coda di scimmia Son Goku che incontra la brillante ma vanitosa scienzata Bulma Briefs e insieme partono per una missione alla ricerca delle Sette Sfere del Drago, oggetto che può garantire ogni desiderio e che Bulma vorrebbe usare per trovare marito.

Immagini che potete ascoltare

La storia è una parodia del romanzo Viaggio in Occidente, dove un santo monaco recluta Sun Wu Kong, il “Re delle Scimmie”, divinità ribelle scacciata dal Regno dei Cieli, per aiutarlo a reperire delle antiche pergamene che porteranno il Buddhismo in Oriente.

E diventa col tempo una space opera affine per temi all’occidentale Superman, dove Son Goku si rivela essere in realtà Kakaroth, uno degli ultimi rimasti della razza aliena dei Saiyan, implacabili guerrieri dalle abilità superiori a quelle dei comuni umani e, come il Kal-El/Clark Kent del nostro fumetto occidentale, decide di diventare il tenace protettore del pianeta dove è cresciuto e dove ormai è diventato padre e nonno, raccogliendo vari guerrieri ed amici per difendere prima la Terra, poi l’Universo e infine tutto il Multiverso da enormi minacce, con l’amica di una vita Bulma ormai moglie del principe della sua defunta specie Saiyan, l’altero Vegeta e i due legati da una tenace rivalità che li spinge a migliorarsi costantemente come guerrieri difendendo le galassie da altre entità di cosmico potere.

Questo è Alex Kidd…

Tutto questo è una parentesi per ricordare che SEGA è andata clamorosamente vicina ad avere come mascotte il Son Goku vivace ragazzino delle prime stagioni.

Ma non tutte le ciambelle riescono col buco. Anche in questo caso un gioco di Dragonball era pronto ma i diritti di Dragonball latitavano.

Alex Kidd, protagonista del gioco-bundle del Master System II “Alex Kidd in Miracle World” è un ragazzo vestito con una tutina rossa in grado di lanciare onde energetiche con un particolare bracciale, allungare il suo braccio per colpire lontano e armato di una serie di “capsule magiche” piene di oggetti sorprendenti per liberare il Regno di Radaxian dal malvagio Janken the Great, usando tecniche ispirate alla Morra Cinese.

E questo era Goku negli stessi anni

Il Son Goku delle prime stagioni della serie era un ragazzino vestito con un “gi” blu, sostituito poi da uno rosso, in grado di lanciare onde energetiche dopo aver incontrato un anziano maestro di arti marziali amico del nonno adottivo Son Gohan, armato di un “bastone magico” eredità del nonnino adorato che poteva allungarsi per colpire lontano, armato dall’amica Bulma di capsule contenenti ogni oggetto di cui abbisogna e pronto a combattere il malvagio Imperatore Pilaf con tecniche ispirate alla morra cinese.

Vi ricorda qualcosa? Kotaro Hayashida, autore del gioco, lo ammette: Alex Kidd era Son Goku, la tecnica di arti marziali “Shellcore” era la “Scuola del Genio delle Tartarughe” e tutti gli elementi della saga di Dragonball furono rimaneggiati al volo.

Cosa accadde dopo

Diciamo l’esatto opposto di quello che accadde tra Super Mario e Braccio di Ferro.

Alex Kidd diede origine ad una serie di dimenticabilissimi sequel, a loro volta ottenuti rimaneggiando altri giochi (come Anmitsu Hime o Sugar Princess, storia di una principessina dai modi da maschiaccio) e facendo parodie di giochi noti, Dragonball diede origine ad una lunga sequela di prodotti crossmediali, tra cui una serie di videogiochi che coprono ogni arco narrative della fortunata serie.

SEGA provvide a procurarsi due nuove mascotti: Sonic il Riccio, il celeberrimo animale antroporfo dal dono della supervelocità (usata per mostrare le superiori capacità di scorrimento del Genesis o Mega Drive) e Segata Sanshiro, di cui ho parlato in un precedente articolo, bizzarro testimonial videodipendente il cui scopo era cercare tutti coloro che prediligevano giocare all’aperto anziché in casa coi videogiochi e percuoterli selvaggiamente costringendoli a comprare prodotti SEGA, succeduto da un figlio meno manesco che si limita a frequentare il liceo con lo zainetto pieno di retrogames da regalare agli amici, ancorché tutti ovviamente di marca SEGA.

Momoko 120%: il gioco di Lamù che non doveva esistere

Nel 2022 Amazon Prime ci ha riportato Lamù e i Casinisti Planetari, rifacimento dell’anime Lamù la Ragazza dello Spazio del 1981, a sua volta versione animata del manga Urusei Yatsura (“I Casinisti Planetari”) del 1978.

Come avrete intuito dal titolo, il protagonista iniziale non doveva essere la Lamù del titolo, ma lo sfortunatissimo Ataru Moroboshi destinato dalla sua malasorte ad attirare diversi casinisti planetari, ovvero alieni ispirati alla mitologia giapponese con l’unica abilità in comune di peggiorare la sua vita già abbastanza sciagurata tra una famiglia di classe media improverita che non lo sopporta, un forte appetito sessuale frustrato da una vita di due di picche e il disprezzo di docenti e compagni di classe.

Cast di “Lamù e i Casinisti planetari”

Come accadde per Fonzie in Happy Days uno dei “casinisti” attrasse l’attenzione del pubblico, la principessa aliena Lamù (in originale Lum, ispirata dalla fotomodella Agnes Lum).

A furor di popolo la storia fu riadattata in corsa perché diventasse non la storia di resistenza di Ataru contro i Casinisti planetari, ma la storia d’amore tra un pasticcione, piccolo borghese, allupato e svogliato teenager umano ed una affascinante, gelosa, pasticciona, ma leale, fedele e innamorata principessa aliena convinta di poter “cambiare” il suo Tesoruccio (Darling in originale, proprio in inglese con un marcato accento americano in un dialogo altrimenti in Giapponese) e dargli la felicità in cambio della fedeltà in amore ed una vita assieme.

Title Screen di Lum no Wedding Bell contro Momoko 120%

Il successo planetario di Lamù (tale da farla diventare primus inter pares tra i “Casinisti”, ora diventati un eterogeneo gruppo comprendente le sue amiche di infanzia e i suoi parenti, le prime concupite da Ataru e i secondi variamente tollerati…) portò alla creazione di un videogame. Quasi.

Nel 1986, con Lamù ancora sugli schermi, Jaleco cercò di pubblicare Urusei Yatsura – Lum no wedding bell, traducibile con “I Casinisti Planetari – La campana nunziale di Lamù”.

La trama si scontrava coi limiti del gioco arcade dell’epoca: Lamù finisce intrappolata in un gorgo temporale che ad ogni livello la intrappola ad una età diversa (bambina di quattro anni, bambina delle elementari, bambina della scuola media, la Lamù adolescente delle superiori che conosciamo nella serie animata, Lamù collegiale e Lamù ormai donna adulta) e il suo scopo è superare ogni livello in modo da potersi riunire col suo “Tesoruccio” e, nel livello finale, convolare finalmente a nozze con lui.

Siccome Lamù può scagliare fulmini e Momoko no, perché non darle una pistola?

Anche in questo caso Jaleco non ottenne i diritti.

Lasciò quasi tutto inalterato, compreso il tema musicale (confidando nella scarsa fedeltà dell’audio dell’epoca, forse), ma sostituendo il personaggio somigliante a Lamù con una generica bimba/ragazza/donna chiamata Momoko e Ataru Moroboshi con un generico “spasimante” per Momoko adulta, rimaneggiando la trama in modo da mostrare diversi momenti della vita di una certa Momoko dall’infanzia al matrimonio, col gioco che si “riavvia” nel finale con una “Momoko jr.” che ripercorre i passi della madre in un “gioco della vita”.

Cosa accadde dopo

Jaleco ottenne i diritti in tempo per la conversione per Famicom, che quindi potè raffigurare Lamù.

Il franchise di Urusei Yatsura ricevette diversi giochi, ma meno noti in Occidente, ultimo un date sim del 2005 in cui il giocatore, nei panni di Ataru, deve far innamorare di sè una delle ragazze nella serie, non necessariamente Lamù.

L’anime divenne peraltro uno degli ispiratori del genere Manic Pixie Dream Girl, il genere romantico-commedia nel quale una ragazza innamorata, dai modi energetici e stralunati, fuori dalle righe, esuberante ma ricca di amore incontra un “ragazzo comune” o pieno di difetti e a causa dei suoi modi stravaganti e grazie al suo infinito amore lo porta fuori dalla sua confort zone conquistandone il cuore e migliorandone la vita, come ad esempio in Dharma&Greg e telefilm del genere.

Se il tuo franchise inventa un genere, i risultati sono ovvi

Lamù è anche il diretto ispiratore della serie animata occidentale Galaxy High School (TMS Entertainment, 1986) che però inverte la premessa: i ruoli di Ataru e Lamù sono rispettivamente invertiti e poi reinvertiti, con l’atletico, attraente, brillante e famoso Doyle Cleverlobe e la timida Aimee Brighttower, “secchiona” descritta dalla sigla come “the smartest girl in school, not very popular, not very cool” (“La più intelligente della scuola, né popolare né attraente”) che vengono mandati su una scuola aliena dove la dinamica si “reinverte” in quella della serie madre.

Negli episodi infatti la bizzarra situazione di shock culturale fa in modo che Doyle diventi lo sventurato pariah sociale vittima di bullismo ed Aimee la ragazza più affascinante e corteggiata, convinta però di poter aiutare Doyle, ricostruendo così la dinamica Ataru-Lamù-Casinisti in salsa Americana.

Il che ci porta dritti ad un’altra famosissima IP Giapponese di quei tempi

La saga di “Black Belt” non è quello che vi aspettate, ma lo capirete

Nel 1986 in Occidente appare un gioco per SEGA Master System chiamato Black Belt, che avrà nel 1989 un seguito per Mega Drive e Amiga.

In Black Belt assistiamo alle imprese del campione di arti marziali Riki, che un bel giorno viene aggredito a tradimento dal rivale Wang che sequestra la bellissima Kyoko, fidanzata di Riki.

Riki viene lasciato ferito e sanguinante, ma si rialza e sconfigge tutti i campioni della scuola rivale, più un rivale assai temibile della sua stessa scuola e si riunisce a Kyoko.

Se vi sembra Kenshiro malamente taroccato…

Nel secondo capitolo della saga, Last Battle, invece Aarzak, campione mondiale di Jeet Kune Do, decide di salvare nuovamente la situazione (e capirete perché uso nuovamente anche se l’impronunciabile Aarzak non sembrerebbe essere Riki… ma lo è) con l’aiuto dei suoi giovani allievi Max e Alyssa, entrambi allievi della scuola di Jeet Kune Do e fedeli seguaci di Aarzak fin dall’infanzia.

A parziale scusante possiamo dire che in quel periodo Chuck Norris non si distingueva dai tamarri con le creste punk che leccano i coltelli…

Aarzak decide coosì di liberare il mondo dai malvagi seguaci del Tang Soo Do (apparentemente la scuola di arti marziali coreana) per poi partire per un’isola lontana dove i seguaci del Chuk Kuk Do, ovvero la scuola di arti marziali del memetico Chuck Norris (!!!), il Walker Texas Ranger descritto come un personaggio al limite dell’onniscienza e dell’onnipotenza complottano per il dominio del mondo attentando peraltro alla libertà della dolce Alyssa.

Se le due trame vi sembrano familiari, è perchè

“Siamo alla fine del ventesimo secolo,
il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche.
Sulla faccia della terra gli oceani erano scomparsi
e le pianure avevano l’aspetto di desolati deserti…
…tuttavia la razza umana era sopravissuta…”

Entrambi i giochi nascono come la versione videoludica delle due serie di Ken il Guerriero.

Riki e Aarzak sono in realtà la stessa persona: Kenshiro. Kenshiro che, avrete capito, viene ferito da Shin della scuola di Nanto, lo insegue per liberare l’amata Julia, lo sconfigge, combatte i Generali di Nanto, recluta i giovani Lynn e Bart, sconfigge Raoh (Raul in Italiano) impedendogli di reclamare il ruolo di Re di Hokuto e si ritira con Julia pago di essere l’ultimo successore legittimo della Divina Scuola di Hokuto.

Io non me la prendo perché si sono dimenticati di taroccare lo sprite di Lynn, ma per i dialoghi degni del Bardo Shakespeare…

Nel secondo capitolo della saga Aarzak, ovvero Kenshiro, viene richiamato in azione (come chi ha visto la serie ricorda) da Lynn e Bart perché la malvagia scuola di Cento (o Gento) sta dominando il mondo e, dopo averla sconfitta, parte per l’Isola dei Demoni dove ad aspettarlo non trova Chuck Norris (cosa che sarebbe il sogno di generazioni di ragazzini, intendo vedere Chuck Norris e Kenshiro combattere a colpi di improbabili “Uatatatà”) ma il fratello perduto Hyoh e Kaioh, leader della “Sacra Gemma di Hokuto”, uno dei tre rami della Divina Scuola di Hokuto il cui leader è da sempre spinto dal destino a confrontarsi col leader della Divina Scuola per la supremazia.

Le famigerate cover del SEGA Master System contro l’Hokuto

Come avrete intuito questioni di diritti avrebbero consentito di vendere entrambi i giochi solo in madrepatria e qualche taglio creativo e l’apparizione di Chuck Norris hanno consentito di riciclare la saga di Ken il Guerriero, ancorché con copertine assai brutte e la Sacra Gemma di Chuck Norris Karate Kommando nel mix.

Cosa è successo poi

Se dovessi spiegarvi il successo mitologico di Ken il Guerriero, avrei fallito come cultore del retro, “sarei già morto ma non lo saprei”.

Ken il Guerriero è diventato una parte immane dell’immaginario dei giovani degli anni ’80 e ’90.

E abbiamo rischiato il crossover involontario…

Un videogame del 2018 con una storia originale di Ken il Guerriero, ambientata nelle prime fasi della storia con Kenshiro ancora fresco della prima sconfitta contro Shin ed alla ricerca di Julia, chiamato “Fist of the North Star: Lost Paradise” contiene in sé una copia giocabile di Black Belt coi nomi corretti.

Curiosità: un “cheat legale” incorporato in Last Batte per Amiga consente di reincorporare le esplosioni craniche che rendono il franchise famoso.

La CAPCOM voleva un picchiaduro coi Mostri della Universal: si contentò di Darkstalkers

Il picchiaduro è da sempre stato uno dei generi arcade più famosi.

CAPCOM, la nota produttrice di Street Fighter, avrebbe voluto creare un picchiaduro nello stile iconico tipico basato sui Mostri della Universal Pictures, saga prodotta dagli anni ’20 e ’50 recentemente rilanciata e comprendente la Mummia, l’Uomo Lupo, il Mostro della Laguna, Frankenstein, Dracula e l’Uomo Invisibile.

CAPCOM cercò di assicurarsi i diritti per consentire alle incarnazioni del grande schermo di ammazzarsi gioiosamente di botte.

Ovviamente non ci riuscì e ripiegò con una salva di mostri ispirati ai mostri Universal, le cui controparti erano parte del mito popolare, caduti nel pubblico dominio o ambo le cose assieme.

Cast di Darkstalkers, fonte Capcom

Una serie di arrangiamenti in corsa crearono sia personaggi iconici che versioni “seminuove” dei vecchi personaggi.

Effettivamente compaiono nel rooster finale una Creatura affine al mostro di Frankenstein, un cadavere rianimato chiamato “Victor” (dal nome dello scienziato), un “similDracula” di nome Dimitri e un licantropo di nome Jon Talbain (dal nome dell’Uomo Lupo Universal).

Scartati un Uomo Invisibile (una testa bendata con due guanti “volati”) e un personaggio simile a Van Helsing furono introdotti per titillare il pubblico adolescenziale le favorite dei fan Morrigan la Regina delle Succubi e Felicia la Ragazza Gatto.

Ovviamente, in versione “censurata” rispetto alle loro varianti del mito e del poema “Curse of the Cat Woman” di Edward Field: in originale Felicia avrebbe dovuto essere la fatale seduttrice e Morrigan l'”ingenua”.

Nel prodotto finale Morrigan è diventata una principessa altera ma ostentatamente sexy che anziché nutrirsi di fluidi corporei di nutre delle emozioni che naturalmente gli umani sprigionano divertendosi e assecondando i loro piaceri, oltre che dell’ammirazione che il suo aspetto provoca e Felicia una dolce ragazza gatto combattuta tra il sogno di diventare una popstar e quello di aprire un orfanotrofio per tutti gli orfanellli di America.

Cosa accadde dopo

La saga di Darkstalkers ha continuato ad esistere fino al 2013. I mostri della Universal continuano ad esistere. Personaggi iconici come Morrigan continuano ad apparire in tutti i prodotti della saga, come il gioco di carte collezionabili virtuali “Teppen” e la serie di Marvel vs Capcom che vede l’improbabile principessa combattere al fianco degli Avengers cinematografici per la salvezza di diversi mondi, laddove il divertimento non manca di certo.

La saga di Assassin’s Creed è più antica di quello che sembra, per questione di marketing

Assassin’s Creed è una saga videoludica che strizza l’occhio al complottismo occultista partita su PlayStation 3 nel 2007 e mai iniziata. Nella saga un giovane barista senza prospettive di nome Desmond Miles viene rapito dagli operativi di una Big Pharma, la Abstergo Industries e scopre che i Cavalieri Templari esistono ancora, combattono un’aspra e occulta battaglia a colpi di noncielodikeno, sciikimiki e altri capisaldi del complotto che tutti amiamo per nascondere la “verità del mondo”.

Assassin’s Creed, fonte Ubisoft

L’Apocalisse Maya del 2012 è vera, prima degli degli esseri umani il mondo era dominato dagli Isu, “Coloro che vennero prima”, enigmatici superumani che hanno manipolato l’evoluzione stessa dell’Uomo e della Natura e l’unico modo per salvare la Terra e consentire alla fazione di Abstergo di dominare il mondo attribuendosi il merito è collegare Desmond ad un macchinario che gli farà rivivere la vita di Altar Ibn La’Ahad, suo antenato della Setta degli Assassini storica e tra le poche persone confermate nella storia ad aver visto la Mela dell’Eden, oggetto creato dagli Isu per dominare le menti umane e controllare la realtà, soggiacendo così al duplice scopo di salvare il pianeta e rendere i “presunti salvatori” eroi e leader.

Nel corso degli anni la saga si evolve passando ad altri avi di Desmond, tra cui il mercante/avventuriero fiorentino Ezio Auditore ed altri soggetti esaminati dal’Abstergo che ha ormai superato il bisogno di usare antenati diretti, tra i quali la mercenaria Agiade Cassandra, il nativo americano per metà inglese Connor, la “Shiedmaiden” vichinga Eivor Figlia di Varin e altri personaggi, col ritorno in scena degli ultimi Isu rimasti e la consapevolezza che, superata l’Apocalisse del 2012, il mondo non è ancora al sicuro.

Un bel pasticcio di trama, nato da una semplice realtà: questa volta Ubisoft aveva i diritti del gioco originale, ma all’ultimo momento decise di non usarli.

Il “pitch” della saga era molto diverso: il gioco si sarebbe chiamato “Prince of Persia: Assassin” e avrebbe dovuto essere uno spin off della Saga del Principe di Persia dedicato al solo “Altair”.

Boxart del Principe di Persia, primo capitolo della saga

Che in origine era un personaggio del tutto distinto da Desmond, anzi Desmond non vi era ed Altair avrebbe dovuto essere la guardia del corpo del Principe di Persia che al comando dei fidi “assassini” avrebbe difeso da mille minacce, ispirato (ma in modo “scaltro” per questioni di diritti) dal romanzo “Alamut” del 1983, ispirato a sua volta alla storia della setta storica degli Assassini.

Va detto che Ubisoft ha ancora tutti i diritti sulla proprietà originale, avendo nel 2007 lanciato una saga ormai parallela rifacimento del gioco originale di Jordan Mechner del 1989: semplicemente il marketing decise che se tanto si era stabilito di rendere il protagonista Altair e non mostrare mai il “Principe” se non come elemento di trama, tanto valeva sbarazzarsi del Principe stesso.

Era una questione puramente logica: “Il Principe non è propriamente un personaggio d’azione” disse il game director Patrice Desilets apparentemente dimenticando la trama della saga originale di Broderbund. “È colui che aspetta di diventare un re, non un avventuriero. È qualcuno che aspetta che il padre o la madre muoiano per prendere il loro posto; è l’eterno numero due di un’organizzazione”.

I principi non vanno in giro a sgozzare gente e gli Assassini non diventano principi: un gioco in cui hai un Assassino a contratto che ammazza tizi per far ascendere al trono il “suo” Principe non è un gioco eroico che rende omaggio alla saga del Principe di Persia (fino a quel momento storia di principi eroici pronti a guadagnarsi il trono sconfiggendo personalmente minacce alla Corona), ed un Assassino “guidato dal principe” non è un eroe.

Se togli il Principe e dai all’Assassino ottime ragioni non per uccidere gente a caso, ma per difendere la libertà del mondo dai Templari del noncielodikeno, ecco che torna l’Eroe e fomenti un pubblico più moderno di quello che si ritiene.

A quel punto il sistema del “gioco nel gioco” consentì alla storia di evolversi in una vicenda paracomplottista in cui si esplorano diverse epoche caratterizzate dallo scontro tra “Poteri Forti e Poteri Fortissimi”: a metà della saga la Abstergo rivela avere una divisione videoludica ispirata alla stessa Ubisoft e anziché rapire i discendenti di stirpi famosi assume stagisti e betatester per giocare a moderni giochi in “realtà virtuale” che in realtà mostrano le vite di tutti coloro coinvolti nella eterna lotta.

Cosa accadde dopo

La saga di Assassin’s Creed continua, con l’ultimo capitolo pubblicato che torna alle origini di tutto mostrando le avventure dell’Assassino Basim Ibn Ishaq, difensore di Alamut e legato più profondamente di quanto egli stesso credesse all’eterno trilaterale Isu-Assassini-Templari.

Anche la saga del Principe di Persia continua, con Prince of Persia: The Lost Crown pubblicato il 18 gennaio: ma le due saghe ormai divergono in ogni elemento.

Traccia Bonus: Miss Dronio incontra la sua copia non autorizzata nei videogame, segue ilarità

Nel 1995 CAPCOM decide di cavalcare il successo del genere picchiaduro col dimenticato arcade Cyberbots: Full Metal Madness, a sua volta variante picchiaduro di un precedente gioco di “robottoni”.

Dal 1977 l’editore giapponese Tatsunoko con Taimu Bokan Shirīzu Yattāman, da noi conosciuto come Yattaman, aveva portato nel mondo la gioia dei combattimenti “pieni di comicità” tra robottoni e robottini simpatici introducendo però qualche prurito sessuale (forse di troppo) nei giovani spettatori.

Il cast fisso prevede il duo degli Yattermen, ovvero Gan-chan e Ai (Gan e Janet in Italiano), eroici giovani giocattolai innamorati (appena adolescenti in origine, eredi delle imprese collegate di famiglia) pronti ad impedire al misterioso Dottor Dokrobei, il “Dio (o re in Italia) dei ladri” di mandare il Trio Drombo a rubare i pezzi della “Dokrostone” che realizzerà i desideri dei suoi fedeli.

Illustrazione del Trio Drombo

Il trio prevede il brutto ma laido e geniale scienziato Boyakki (il cui sogno nella vita è essere riconosciuto come un genio e sedurre “tutte le belle liceali del Giappone”), il non meno repellente ma stupido e forzutissimo Tonzula (il cui sogno è essere riconosciuto come l’uomo più forzuto del mondo) e la “vamp” Miss Dronio (Miss Doronjo) in originale, biondissima ladra dalle chiome fluenti e la tuta decisamente ristretta, invidiosa della giovinezza di Janet (e il cui sogno è raggiungere l’eterna giovinezza e il titolo di donna più bella del Mondo) e pronta a finire ogni singolo scontro in una comica esplosione che le lacera ulteriormente le vesti lasciandola in costume quasi adamitico mentre fugge imbarazzata dai tentativi di Dokrobei di ammanire al trio comiche ed umilianti “punizioni”, temo responsabili di un vago imprinting sadomaso in diversi spettatori tra coloro che mi leggono.

Al momento di riempire il cast di Cybots accadde che l’illustratore Kinu Nishimura decise di introdurre la Principessa Devilotte, personaggio creato mescolando la bionda Alice disegnata da John Tenniel per Alice nel Paese delle Meraviglie alla Principessa Alena di Dragon Quest, coi suoi due servitori, ma chiaramente malvagia.

Problema: il resto dello staff non colse la citazione colta, anzi sin troppo colta.

Un po’ come avrebbero fatto tutti coloro che erano ragazzini negli anni ’70 e ’80, dinanzi all’abstract “Aiutatemi a disegnare una figura regale, bionda e viziata, con due servitori che maltratta intenzionata a combattere per ottenere grandi ricchezze” decisero di “ispirarsi” al Trio Drombo spingendosi a modellare le personalità di Devilotte e dei suoi servitori su di loro e reclutare il doppiatore di Boyakki per un personaggio fisicamente uguale al repellente e perverso scienziato, tranne per il colore della pelle.

Ovviamente, l’immaginario collettivo di quel gruppo di creativi era più colonizzato da Yattaman che da una serie di stampe ottocentesche, e sia pur ricadendo nei diritti di parodia e opera derivata, le intenzioni colte di Nishimura furono assurdamente deragliate da decenni di prurito adolescenziale.

E se persino il “Re dei Ladri” decide di farti un richiamo in base alle normative sul diritto d’autore…

Quando nel 2008 la Capcom ottenne finalmente i diritti su Miss Dronio come parte del gioco Tatsunoko vs Capcom il “finale” del picchiaduro per il trio Drombo contiene infatti una parziale confessione: Miss Dronio decide di partire per una missione che comprende trovare Devilotte e costringerla a pagarle anni di diritti di immagine sulla sua persona, salvo poi perdonarla, trovare un accordo sulle rispettive proprietà intellettuali e coinvolgerla nell’ennesima punizione del Dottor Dokrobei in un involontario scambio di identità.

 

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