Retrogames al femminile: quando si poteva avere una protagonista senza avere sterili polemiche
Un tempo, esistevano anche retrogames al femminile: prima che la parola “woke” andasse di moda, e che andasse di moda agitarla come un’arma. Abbiamo già visto come Echoes of Wisdom, il prossimo capitolo di Legend of Zelda, non è stato il primo gioco della saga con Zelda protagonista assoluta, ma solo il primo decente.
Escludendo la metatestualità, ovvero il fatto che l’intera storia del gioco moderno può essere fatta comodamente risalire almeno fino a Colossal Cave Adventure, basato sulle reali esplorazioni di Patricia Crowther, programmatrice e speleologa (divenuta poi Patricia Wilcox), colei che aveva esplorato e mappato la Mammoth Cave in Kentucky, i casi di giochi in cui la protagonista è una donna sono molteplici nel passato.
E no, maliziosi, non parliamo solo della Lara Croft responsabile di diverse cotte in 2D e 3D scontornati e poligonati male di molti di voi.
Lady Bug, il primo della serie, il capostipite (coi suoi limiti)
Consenso generale vede il primo protagonista femminile comparire in Lady Bug (1981, Universal), una versione evoluta del concetto di Pac-Man con un labirinto dinamico.
La coccinella del titolo, un insetto nel gioco ma nel materiale promozionale “curiosamente” (ma non troppo, dato un latente sessismo incidente nel mondo dei “gamers” sin dall’antichità) descritta come una avvenente donna-insetto sulla falsa riga dell'”Affascinante Wasp” (“The Winsome Wasp”) apparsa nei fumetti degli Avengers sin dagli anni ’60 infatti aveva la capacità di manipolare porte scorrevoli e girevoli in giro per il labirinto.
Fu il gioco più famoso per il ColecoVision della sua epoca, nonché una fissa presenza nel mondo arcade.
Nel medesimo anno anche Midway tirò fuori il suo Ms. Pac-Man, versione migliorata di Pac-Man con l’introduzione dell'”effetto Pac-Man”, quattro “tunnel” per andare da una parte all’altra dello schermo e intelligenza artificiale migliorata per i fantasmi ostili.
Kangaroo
Sulla falsariga di giochi con “animali battaglieri” Sunsoft (allora Sun Electronics Corp.) nel 1982 tirò fuori le avventure di un canguro in cerca del suo piccolo, pubblicato per Atari 2600/VCS.
I movimenti del joystick controllano i balzi della mamma canguro, il tasto di sparo i pugni per sconfiggere delle scimmiette dispettose. E fin qui, come vedremo per alcuni dei prossimi capitoli, siamo comunque nell’ambito di una figura femminile quantomeno stereotipata, o nel materiale promozionale (Ladybug) o nella storia contenuta nei manuali. In questo caso, un canguro-mamma alla ricerca del suo cucciolo.
Girl’s Garden, dal futuro autore di Sonic
Nel 1984, per l’antenato solo giapponese del SEGA Master System, L’SG-1000, apparve Girl’s Garden.
La storia un canovaccio a metà tra action e datesim: bisognava aiutare una ragazzina di nome Papri a raccogliere fiori, evitando api ed orsi, per ingraziarsi un potenziale fidanzato prima del finire del tempo.
Se il tempo fosse finito prima di raccogliere abbastanza fiori, il ragazzo sarebbe andato via con un’altra ragazza, provocando un anticlimatico gameover.
Per quanto il gioco fosse semplice come struttura e trama, fu definito come tecnicamente uno dei migliori per la console e rampa di lancio per programmatori e compositori finiti poi a lavorare per Sonic e altre iconiche creazioni della casa.
Ma fu nel biennio successivo che partì una vera rivoluzione. I cui nomi passano per la game designer Rieko Kodama da SEGA e per un personaggio che ormai conoscono tutti per Nintendo: la cacciatrice di taglie spaziale Samus Aran.
Ninja Princess
Nel 1985 Rieko Kodama decide di anticipare Nintendo di un anno creando il primo videogioco della storia con le seguenti caratteristiche
- Un personaggio femminile forte che non deve la sua presenza alla connessione con un personaggio maschile;
- Un personaggio femminile col ruolo unico di protagonista;
- Un personaggio femminile il cui “punto di vendita” non fosse la sua sessualizzazione;
- Un personaggio femminile non bisognoso di essere salvato da un pericolo, ma in grado di salvare altri
Nasce così la Principessa Kurumi (Kurumi-Hime, alla Giapponese), una kunoichi (ninja al femminile) il cui scopo è salvare la provincia di Ohkami da un malvagio tiranno nell’epoca Edo.
Il gioco anticipa gli “spara-spara” a scorrimento con vista dall’alto come Commando, ed ha avuto abbastanza notorietà per far parte dei giochi in cui nell’iconica serie di romanzi basati sulla cultura nerd il giovane Parzival (Wade nella vita reale) deve dimostrare la sua bravura per salvare il mondo digitale e insieme quello fisico (nel sequel, Ready Player Two).
Ciò nonostante sia Kurumi-Hime che Rieko Kodama subiranno un bizzarro esproprio: nel remaster per SEGA Master System, Kurumi sarà sostituita da un generico ninja, ovviamente un uomo, interrompendo un potenziale franchise.
Nella “nuova narrazione” Kurumi viene infatti incerimoniosamente messa in panchina, anzi nel dungeon del malvagio tiranno di Ohkami, relegata a “principessa da salvare” e biecamente rimpiazzata dal Ninja Kazamaru (che peraltro godrà della grafica migliorate del Master System e dell’esportazione all’estero), consegnandola ad una damnatio memoriae pari solo a quella di Zelda attualmente.
Rieko Kodama continuerà comunque a creare personaggi al femminile, come la Alis Landale dell’opera sci-fi a sfondo spaziale Phantasy Star del 1988.
Da Time Gal a Baraduke (e prima di Metroid)
Nel 1985 Taito decise di cavalcare la moda dei Laser Disc Game come Dragon’s Lair, creando una storia interattiva in cui il giocatore, muovendo il joystick in apposite scene, potesse manipolare la storia fino ad arrivare al lieto fine (il tasto giusto avrebbe fatto scorrere “l’anime interattivo” fino al finale, il tasto sbagliato avrebbe mostrato una “buffa scena di morte” portando al Game Over).
Nel suo caso, la storia fu Time Gal, animato dalla Toei che aveva animato decine di anime celebri ed altri ne avrebbe animati in futuro (un nome per tutti: Dragonball), mostrando le avventure della “Time Gal” Reika in lotta contro il malvagio ladro del tempo Luda, pronta a viaggiare nel passato e nel futuro per agguantarlo.
Al pari di Ninja Princess, abbiamo un personaggio (teoricamente) femminile forte e indipendente, ma come concessione al prurito tipico del nerd dell’epoca, Reika viene comunque presentata come un personaggio estremamente ammiccante, sessualizzato e sbarazzina, pronta a scorrazzare per lo spazio tempo in poco più che bikini e tacchi alti vagamente echeggianti gli abiti appariscenti ma poco professionali delle poliziotte/cacciatrici di taglie spaziali della serie Dirty Pair.
Questo per non parlare delle “sequenze di game over“, in un ammiccante stile “Super deformed” (infantilizzato) dove l’eroina finisce nei pasticci invocando a scelta “papi” o “il fratellone” (termini affettuosi solitamente rivolti ad un partner in posizione dominante).
Vedremo come “solo” dieci anni dopo un character designer deciderà che un personaggio femminile veramente forte e indipendente non dovrebbe essere “né una sciocchina, né una dominatrice mancata”: ci spiace dire che per quanto l’idea di un leader forte al femminile sia stata innovativa per quegli anni, la Reika di Time Gal ha l’orribile vizio di essere entrambe e contemporaneamente.
Sempre nel 1985, compare sulla scena il suo opposto polare e madrina spirituale di Samus Aran, Toby Masuyo, detta “Kissy”, protagonista dell’oscura saga videoludica di Baraduke.
Un’esploratrice di dungeon in mondi alieni, come il suo successore spirituale, appare inguainata in una corazza che rimuoverà solo nel finale, per ringraziare il giocatore di essere “Un uomo coraggioso” ed un buon alleato (apparentemente ignorando ancora una volta la possibilità di una giocatrice di sesso femminile…) e tornare alle sue esplorazioni.
In un interessante crossover coi sequel che non ti aspetti Toby Masuyo nel materiale promozionale successivo e nelle raccolte di giochi retro sarà descritta essere diventata negli ultimi quarant’anni moglie di Taizo Hori, il protagonista di Dig Dug (Namco, 1982) e collega esploratore del sottosuolo, aver dato alla luce suo figlio, Mr. Driller (protagonista di un omonimo gioco degli anni ’90, spiritualmente seguito di Baraduke e Dig Dug) e di aver poi divorziato restando in ottimi rapporti col figlio ma pessimi con l’ex marito.
Chiude il trittico Lady Master of Kung Fu del 1985, di Taito, in cui la protagonista è indubitabilmente una maestra di arti marziali (riconoscibile non solo dal titolo, ma dal fatto che, nonostante i limiti grafici dell’epoca, i disegnatori si siano peritati di darle un cortissimo cheongsam o qipao per evidenziarne le gambe) pronta a sgominare un palazzo pieno di cattivacci a colpi di calci rotanti e colpi di nunchaku.
E infine arriva Samus (e la principessa Lucia)
Nel 1986 parte una saga il cui ultimo capitolo, non a caso, è stato annunciato assieme all’Echoes of Widsom che ha creato il bisogno di questo articolo. Nintendo, per convergenze evolutive sulla saga di Baraduke o per ispirazione non è chiaro, crea una sua eroina femminile.
Come per molti giochi dell’epoca, è “tutto nel manuale”: Samus Aran, figlia di coloni terrestri, è stata resa orfana dai pirati spaziali, e trovata dai Chozo, una popolazione pacifica di alieni dalla forma vagamente aviaria che hanno deciso di crescerla dandole tutta la saggezza del loro popolo ormai in estinzione, curando la sua preparazione fisica e munendola di un’armatura in grado di sparare laser da un cannoncino nel braccio e consentirle di muoversi in spazi angusti appallottolandosi su se stessa.
Nascondendo il suo corpo e viso dietro l’armatura, Samus si riunirà ai coloni terrestri diventando un’abile cacciatrice di taglie pronta alla vendetta contro i pirati spaziali, diventando di fatto la sintesi della Ellen Ripley della saga di Alien, prima protagonista di un survival horror ad essere la vera e iconica protagonista e non una Scream Queen alla mercé del malvagio slasher (killer paranormale) e di Toby Masuyo.
Gli “speedrunners”, i giocatori più veloci, sin dal primo capitolo del 1986 sarebbero stati accolti da una sorpresa: anche coloro troppo distratti per leggere i manuali (praticamente tutti), finendo il gioco entro cinque ore avrebbero visto la prima apparizione della “Zero Suit”, paradigma della saga picchiaduro di Smash Bros. e altri giochi attuali.
Ovvero l’attillato “sottotuta” che Samus ovviamente indossa per evitare di essere spellata come un frutto rancido dal metallo dell’armatura Chozo, sottotuta che dimostra chiaramente le sue fattezze femminili (all’epoca una pixellata chioma bionda e una vita sottile, nei giochi attuali una figura bionda e slanciata).
Sempre nel 1986 Sunsoft decide di lanciare una saga fantasy, The Wing of Madoola, che mai ricevette un seguito e mai una traduzione ufficiale fuori dal Giappone nata per invertire totalmente gli stilemi delle serie di azione dell’epoca.
Laddove Mario aveva sempre salvato la Principessa Peach e Zelda era considerata così tanto una “damigella in difficoltà” che ancora oggi c’è chi cancella dalla sua mente i capitoli della saga dove non avviene, in TWoM spettava alla principessa guerriera Lucia, agghindata come una Wonder Woman priva dei marchi distintivi, salvare il suo regno da un traditore pronto a usare l'”Ala di Madoola”, idolo descritto sin dal titolo, per dominare il mondo e già che era lì per la strada salvare il suo altrimenti inutile principe.
Secondo il designer Kenji Sada avere una principessa guerriera come personaggio principale avrebbe dato corpo e unicità al gioco: riuscì ad ottenere uno dei personaggi più amati tra i personaggi vintage del mondo di gioco giapponese, nonché la mascotte “ufficiale o quasi” di Sunsoft, raffigurata su riviste, fanzine e tessere fan.
La formula cominciò lentamente a prendere piede: The Return of Ishtar del 1986 vede infatti la “damigella in difficoltà” del gioco precedente della saga The Tower of Druaga del 1984, Namco, ovvero la “Principessa Ki” ricambiare il favore e salvare il suo salvatore.
Phantasy Star e il ritorno di Rieko Kodama
Abbiamo già visto come Rieko Kodama aveva incerimoniosamente visto il suo debutto come creatrice di videogame rimaneggiato da SEGA per munirlo di un personaggio maschile.
Cosa che abbiamo visto, SEGA non era affatto nuova a fare e avrebbe ripetuto: il gioco del 1987 Anmitsu Hime, storia di una principessina maschiaccio in un Giappone Ucronico, nata per consolare i bambini del dopoguerra sottoforma di fumetto e sopravvissuta nei decenni, non sopravvisse all’idea vintage del “personaggio principale maschile”, e nel 1989 fu buttata fuori dal suo stesso gioco, sostituita da Alex Kidd la mascotte del Master System e della stessa SEGA prima di Sonic per il Mega Drive e Segata Sanhiro per il Saturn.
Rieko Kodama ebbe la sua “vendetta” con Phantasy Star, saga videoludica destinata a rivaleggiare col più noto franchise su Nintendo (poi passato a SEGA) di Final Fantasy della Squaresoft, creando il personaggio di Alis Landale, principessa ed eroina quindicenne imbarcata in una missione per vendicare l’amato fratello e salvare il cosmo intero da una grave minaccia col suo team di eroi.
Assieme all’iconica Chun-Li di Street Fighter II e seguenti (personaggio femminile in un picchiaduro, tra molti altri personaggi e controllata comunque da un giocatore perlopiù di sesso maschile) e la citata Samus Aran, Alis è considerata una delle sante patrone dell’erorina del videogioco moderno.
Il tutto, ricordiamo, nel 1987.
I primi giochi con Zelda protagonista
Ne abbiamo già parlato diffusamente in questo articolo linkato qui: considererete questo un pacchetto di espansione.
Il primo gioco con Zelda protagonista è del 1993, e si chiamava The Wand of Gamelon.
Nato da uno sventurato accordo tra Nintendo e Philips per “risarcire” Philips di un progetto in comune andato male (che avrebbe dovuto ipoteticamente portare ad una console pari alla Playstation sviluppata da Nintendo in-house con licenze SONY e Philips e portò a SONY pronta al lancio della sua console…) the Wand of Gamelon vede Zelda partire per salvare suo padre il Re e Link da una missione contro Ganon che li ha visti entrambi sconfitti.
Con animazioni a dir poco fognarie, un doppiaggio poco più che amatoriale, e una inedita collaborazione internazionale di uno sconosciuto studio di programmazione americano e uno studio di animazione Russo composto da sessanta disegnatori e animatori e tutti incapaci di disegnare una mano in modo decente.
Un anno dopo Philips ci riprovò con Adventure of Zelda, con scene girate “in studio” usando segretarie e compositori in cui il Mago Gaspra sentenzia che, non potendo reperire Link, dovrà accontentarsi di una fanciulla coraggiosa e manda Zelda a salvare il Regno di Tolemac (Camelot all’incontrario) con le fattezze della segretaria dello studio che creò il gioco vestita con una tunichetta da due spicci e una goffa parrucca di plasticaccia e crine.
Ci vorranno anni perché il modo si riprenda dall’orrore, e perché persino Nintendo consideri l’idea di riprendere l’idea ottima dietro la Triforza Sconsacrata, ma eseguita in modo decente.
La saga di Wonder Boy ottiene una Wonder Girl: Asha
La saga di Wonder Boy ha avuto diversi capitoli e diversi personaggi, cominciando dal primo capitolo del 1986 dove il cavernicolo Tom Tom doveva salvare la fidanzata Anya da un malvagio nemico per una intera saga.
Sebbene alcune fonti dichiarino che Tom Tom è sia il protagonista del primo che del secondo gioco, l’ultimo capitolo della saga “Monster Boy and the Cursed Kingdom” conferma che ogni singolo Wonder Boy della storia è stato l’uno il successore dell’altro, tranne per due casi.
Il primo nel 1988, quando la necessità di avere un doppio giocatore in Wonder Boy III ha portato l’eroico Leo ad avere come secondo giocatore la Principessa Purapril, o Priscilla.
Il secondo Monster World IV, confermato canon da un rifacimento moderno e da una menzione esplicita in Cursed Kingdom dove la protagonista è per la prima volta in modo esclusivo Asha, ragazza dall’aspetto vagamente mediorientale in una ambientazione da “Le mille e una notte” aiutata da una bizzarra creatura chiamata Pepelogo (che in Cursed World tornerà per aiutare il nuovo protagonista a sbloccare i poteri dei Wonder Boy del passato in cambio della possibilità di salvare Asha da una minaccia ignota).
Anche in passato Asha fu la “Zelda” dei suoi tempi, creando un gioco che divise per la struttura diversa da solito e, non a caso, perché c’era una “Wonder Girl” al posto del “Wonder Boy”.
Il 1996: convenzionalmente l’anno della protagonista al femminile (Tomb Raider, Sakura Wars)
Abbiamo già visto come di fatto eroine nei videogiochi sono sempre esistite dai tempi di Ladybug, e la prima eroina nel senso chiaramente moderno (non sessualizzata, protagonista, indipendente, senza che il suo ruolo di interesse amoroso del personaggio maschile sia il suo punto di vendita) è apparsa già negli anni ’80.
Quello che mancava però era la crossmedialità: la capacità di prendere l’eroina forte, estrarla dal mondo dei videogames e farne un simbolo.
Nel 1996 Core Design e Eidos Interactive tra i titoli di lancio della PlayStation tirano fuori la saga di Tomb Raider, ancora in corso: l’idea era proprio quella che abbiamo visto solo dieci anni prima coi personaggi di Rieko Kodama, ma riadattata ai tempi di crossmedialità.
L’assunto era semplice: da Street Fighter a Virtua Fighter il character designer Roby Gard aveva notato un trend che anche qui abbiamo accennato: anche i giocatori maschi selezionano personaggi al femminile.
Scartata quindi l’idea di inserire il solito personaggio alla Indiana Jones, Gard decise che avrebbe potuto creare un personaggio al femminile. Un personaggio che non doveva essere una bambolina sciocca o una dominatrice mancata.
Comunque, sottolineando (un numero di volte troppo elevato nello stesso paragrafo come vedremo nei reperti fotografici perché non fosse un sospetto tentativo di vincere sacche di resistenza ancora prsenti), che Lara Croft (all’epoca ancora “Laura Cruz”) avrebbe dovuto essere “una gnocca totale” (total babe) e una gnocca con cervello (babe with a brain) e che un pubblico di giocatori “dai diciotto ai ventiquattro anni” sarebbe stato sicuramente abbastanza maturo dal vestire “i panni di una gnocca” rispetto al pubblico tipico di preadolescenti.
Nuovamente Core Design si mise di traverso: scartato Indiana Jones, Gard dovette difendere la sua idea perché su migliaia di videogames esistenti, sostanzialmente i personaggi femminili sul modello di quello che sarebbe diventato Lara, c’erano ma possiamo contarli nelle circa duemila parole prima di questa.
Prima di arrivare alla Lara che conosciamo tutti, Gard letteralmente provò ogni genere di modello visivo. Bionde dall’aria psicopatica, “ragazzacce” cerotti e cappellini da baseball, teppiste da stadio dall’aria nazista, e poi decise per “Lara Cruz”, sudamericana dall’aria della “Latina determinata”.
Core gli pose un ultimo veto: “Lara Cruz” (ricordate eravamo negli anni ’90, e nel mondo dei videogiocatori, come dimostra purtroppo il GamerGate, le conquiste civili arrivano sempre in ritardo di dieci anni…) non sarebbe stata accettata da un pubblico di “bravi ragazzi e ragazze” videogiocatori.
Il character design (coda di cavallo, fisico slanciato, shorts e pistole) rimase quasi inalterato, ma Gard dovette cercarsi un cognome inglese nell’elenco, e riclassifare Lara Croft come l’ultima erede di una nobile famiglia inglese, Lady per diritto di nascita ma esploratrice e avventuriera per passione e sete di conoscenza, recuperando dalle sue origini come “versione al femminile di Indiana Jones” una enorme cultura accademica maturata nella vasta libreria di famiglia e nutrita dai migliori studi universitari unita ad una fortissima cultura e passione sul campo.
Anche la storia fu ritoccata leggermente lasciando alcuni punti inalterati: “Lara Cruz” (inizialmente “Laura”, ma secondo Core Design un pubblico di ragazzini inglesi sarebbe stato incapace di pronunciare il nome “Laura” senza inciampare…) era la figlia di un mercenario sudamericano, laureata in archeologia, inesplicabilmente fan dell’attore Brian Blessed e addestrata personalmente dal padre in tecniche di sopravvivenza estrema, incline ad affittare i suoi servizi di “Tomb Raider” (cacciatrice di reperti nei seplocri) per guadagnare abbastanza denaro per opere di carità. Lara Croft, ovviamente, divenne un po’ “figlia di papà”, survivalista autodidatta (ma conservando gli abiti militari di Lara Cruz) e con sufficiente denaro da essere una “dama di carità” già con le sue possibilità da ereditiera ma prediligere la caccia al reperto per sottrarli all’avidità umana.
Esausto e citando le enormi resistenze (come avete visto, non a torto) nel character design e nella realizzazione della backstory, Gard abbandonerà Core Design subito dopo l’uscita del primo capitolo.
Contrariamente ad una diffusa leggenda metropolitana, Gard non aveva disegnato Lara come una supermaggiorata “per un errore col mouse che ne aveva ingrandito il seno del 150%”, ma il team di sviluppo (sei persone al principio) aveva concordemente deciso per una figura poligonale il più stilizzata possibile per enfatizzare i movimenti (a costo quindi di essere una serie di poligoni malamente incollati ad evocare una figura femminile se osservata staticamente: durante l’azione frenetica del gioco il movimento avrebbe fornito catarsi) e mettere Lara Croft in competizione diretta non solo con gli archeologi del passato, ma coi “nuovi giochi in 3D” tipici della quinta generazione come Mario 64, Virtua Fighter e co.
Fu un successo mondiale, nel 1999 in un bizzarro incrocio tra un atto d’amore e un momento cringe Eugenio Finardi portò Amami Lara a Sanremo.
Tra un’internet ormai ubiquitaria alla caccia di “codici per vedere Lara Croft nuda”, fumetti, film (peraltro in grado di lanciare la carriera di Angelina Jolie come icona pop), spin-off e quant’altro Lara Croft in un certo senso riuscì a rompere il “muro di vetro” che teneva tutte le eroine che l’avevano preceduta per decenni nella relativa oscurità di circoli nerd distanti.
La concorrenza di SEGA tra gli ultimi atti prima della resa incondizionata provò a giocarsi la carta di Sakura Wars, gioco steampunk ambientato in un Giappone pre-guerra ma con tecnologie moderne nel quale una squadra segreta di guerriere al comando di potenti robot da combattimento alimentati dai loro poteri parapsicologici difendono il mondo da minacce che esso non riesce neppure a concepire.
Tra di loro la protagonista assoluta, la Sakura Shinguji del titolo, a differenza di Lara Croft (concepita sin dal suo design originale sull’archetipo della “ribelle lividi e coda di cavallo”) creata come l’immagine della Yamato Nadeshiko, il “Fiore del Giappone”, ovvero una personalità elegante e raffinata alla bisogna in grado di esibire grande forza di carattere interiore e ardore guerriero.
Nel secondo crossover degli “spin-off mai accaduti”, SEGA deciderà nel materiale promozionale di accasarla con Segata Sanshiro, manesco testimonial di tutta la SEGA noto per girare per il Giappone percuotendo i ragazzini che rifiutano di giocare ai videogames e in un sequel attuale degli sport diventerà la madre (o quantomeno nei flashback presenti il personaggio viene disegnato come una Sakura in abiti moderni…) di Sega Shiro, adolescente fan del Retrogaming ed erede del padre nel ruolo di testimonial, potenzialmente in grado di combattere come entrambi i genitori ma che preferisce divulgare note storiche e cimeli della storia della casa madre (diventando idealmente la mascotte di questa rubrica).
Dimostrando come la saga di Sakura Wars ha avuto un forte seguito in Giappone, e tutt’ora lo ha.
Nel frattempo in Giappone veniva rotta un’altra convenzione dei giochi al femminile
Il primo Otome game o Harem inverso della storia
Esiste un intero genere di giochi in Giappone che noi occidentali abbiamo visto perché le sue tematiche sono state inserite in giochi successivi destinati all’esportazione
Se oggi nel remake di Final Fantasy VII possiamo “sedurre” gli altri personaggi scegliendo uno che avrà relazioni romantiche con noi, e in giochi come Skyrim e Fallout, sia pur di marca e derivazione occidentale puoi avere relazioni di amore e odio coi companion, è perché per decenni in Giappone si è coltivato il genere dell’harem game.
Prendi un personaggio, un “ragazzo comune”, lo sbatti in un ambiente pieno di ragazze bellissime, e lo scopo del gioco è creare un “harem”, esplorare cioè tutti i diversi finali in cui riesci ad accasare il tuo personaggio con una delle belle ragazze presenti, se non addirittura riuscirci con più di loro contemporaneamente.
Un harem game non brilla certo per caratterizzazione: fino al momento di cui parliamo, i personaggi femminili negli harem game esistono solamente per una forma di wish fullfillment del giocatore maschio in cerca di un surrogato emotivo. Quindi il “maschiaccio”, la “prima della classe”, la “reginetta di bellezza altera” e così via.
Nel 1994 Angelique inverte il tutto col genere “otome” (“[gioco per] fanciulle”).
Riassumendo in brevissimo la trama di Angelique, la “Regina del Cosmo” decide di abdicare scegliendo il suo successore tra due nobildonne, la principessa Angelique del titolo e la sua rivale Rosalia de Cartagena, giudicando la loro capacità nell’amministrare due regni a loro concessi.
Nonché nove ministri a testa che dovrebbero aiutarle nel buon governo.
Non è un caso se i nove ministri sono quello che in gergo potremmo definire dei gran pezzi di manzi (concedeteci della par condicio rispetto al pitch di Tomb Raider…) e i finali possibili prevedono ascendere al trono governando con saggezza, ascendere al trono mandando i suddetti manzi a ostacolare Rosalia o decidere di far vincere Rosalia a tavolino per accasarsi con uno dei summenzionati.
Per quanto per la coscienza occidentale le origini del genere Otome sono poco comprensibili perché non abbiamo vissuto la sua controparte, il genere otome diventa la “rivincita” delle giocatrici dando anche a loro la possibilità di un wish fullfilment.
Il genere Otome col tempo si è stratificato in una serie di formule: il “plot Pamela” (dall’omonimo romanzo di Richardson) dove la “nobile eroina” deve scegliere tra passione e virtù, scoprendo nei finali migliori che la scelta della virtù comporta anche una modica quantità di passione come ricompensa e la scelta della passione fine a se stessa ti fa perdere l’una e l’altra costringendoti a ricaricare gli ultimi salvataggi, o il “plot Cenerentola”, dove un’umile fanciulla “sconfigge” la rivale nobile e viziata con la bontà del suo cuore e l’abilità della giocatrice è nello scansare i “dispetti da sorellastre malvage” che arriveranno per mano della rivale livello per livello.
Come piccolo atto di “vendetta narrativa”, nel genere otome sono i citati interessi amorosi che spesso diventano non meno stereotipati di quanto erano le loro controparti femminili, avendo così “il ragazzaccio”, “il bel secchione”, “l’amico di infanzia”, “il ragazzo tutto lavoro e niente affetto che scopre l’amore” e altri stereotipi vaganti con tanto di strategie per rubare loro il cuore e ragazzi che si escludono a vicenda.
Tema sottoposto a parodia (quindi una parodia di parodia, se ci pensate) da opere metaletterarie come la graphic novel e manga The World of Otome Games is Tough for Mobs, dove un ragazzo del nostro tempo reincarnato in un gioco otome decide di approfittare del fatto di essere l’unico essere umano di sesso maschile munito di una personalità completa (per quanto pessima) in un mondo di NPC per garantirsi fama, successo e fortuna.
Destino assai ironico, dato che il genere otome nasce proprio come reazione ad un genere harem in cui quel destino toccava, invariabilmente, agli NPC femminili.
Il presente, il futuro
Ora: arrivando fino agli anni ’90 abbiamo dimostrato come la strada per un personaggio femminile forte e indipendente non sia “una cosa woke”, ma sia stata un concetto con cui l’industria videoludica ha giocato sin dall’inizio.
Non possiamo quindi che guardare con una certa preoccupazione alle discussioni di lana caprina su Zelda protagonista femminile, non comprendendo come si sia arrivati a tutto questo.
L’impressione è che la comunità “gamer” abbia dimostrato un’inquietante vena di regressione attinta all’oblio: l’onda lunga del GamerGate ci porta sostanzialmente a lamentarci di un Nintendo Direct in cui è stata annunciato un gioco con Zelda unica protagonista. Lo stesso Nintendo Direct in cui Samus Aran è protagonista da ormai decenni senza perdere colpi.
E parva scusa pare il trincerarsi dietro “Eh ma Link è sempre stato protagonista”, dati ben due giochi e mezzo, ormai retro, in cui non lo è stato e dati precedenti in cui la protagonista femminile di almeno due giochi è stata sottoposta a damnatio memoriae in favore di un protagonista maschile senza colpo ferire.
Altrettanto ironico risulta leggere oggi le sentite ancorché insistenti giustificazioni di Gard per la creazione di Lara Croft: se nel 1996 Gard era convinto che gli allora ventenni averebbero avuto la maturità di apprezzare e accettare Lara Croft come eroina, scopriamo oggi con un malcelato orrore che proprio gli adolescenti e giovani uomini di allora sono quelli che su X si dimostrano i più accaniti censori di una “Zelda eroina” invocando il loro “diritto di nascita” al Link eroe maschio per un giocatore virile.
Probabilmente Gard avrebbe dovuto insistere anche ai giorni nostri. E probabilmente (purtroppo), molte altre eroine subiranno damnatio memoriae in futuro.
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