Perché parliamo delle “Regole del Barone De Coubertin”?
La massima espressione del fair play nei modi di dire è “Giocare con le regole del Barone De Coubertin”, a volta “giocare con le regole del Barone”, sovente erroneamente “del marchese”, in una evidente conflazione col Marchese di Queensberry, ideatore delle regole del pugilato. A volte con ammirazione, a volte con fare derisorio, invocando la necessità di “colpire sotto la cintura”.
Ma chi era il Marchese, e quale erano le sue regole?
Perché parliamo delle “Regole del Barone De Coubertin”?
Charles Pierre de Frédy, barone di Coubertin, nato nel 1863 era uno sportivo e pedagogo, fondatore dei Giochi Olimpici moderni i cui scritti sono diventati base per la moderna Carta Olimpica.
Charles de Coubertin era convinto dell’importanza dello sport nell’educazione del giovane moderno: lo sport avrebbe sia reso forte e in salute il corpo dei giovani che dato loro un’infarinatura di regole e capacità di convivenza civile.
Con la scoperta delle rovine di Olimpia, De Coubertin manifestò il desiderio di riportare i Giochi Panellenici di Olimpia nel mondo moderno, come una raccolta di atleti (all’inizio esclusivamente dilettanti) pronti a competere nelle principali discipline sportive in uno spirito di pace e concordia tra popoli.
De Coubertin stilò alcuni principi, a cui avrebbero dovuto ispirarsi le rinate Olimpiadi ma anche l’intero mondo dello sport e, per estensione, i rapporti umani e sociali.
I principi di De Coubertin
L’eccellenza ad esempio, sovente riassunta in l’importante è partecipare, ma riassunta in modo erroneo. L’atleta deve dare il meglio di se stesso in ogni occasione, ma non in vista del premio finale, ma in vista del superamento dei propri limiti.
Secondo il principio dell’eccellenza, anche un atleta sconfitto, se sarà stato battuto dopo aver dato il suo meglio per migliorare se stesso potrà lo stesso dichiararsi soddisfatto. Naturalmente, qualora la sconfitta sarà stata dovuta all’assenza di eccellenza, ovvero desiderio ardente di migliorarsi tradotto in azione, non vi sarà alcun onore in essa.
Si è eccellenti per averci provato, ma per averci provato davvero, non solo per essersi “improvvisati” senza alcun sacrificio.
Altro principio è il rispetto dell’avversario. Atteso che ogni atleta parte da una situazione di parità, ed ogni atleta punta all’eccellenza, i rispettivi desideri di eccellenza vanno rispettati, astenendosi da comportamenti scorretti e irriguardosi.
Seguono amicizia e solidarietà: lo sport e la vita sono un campo comune nel quale promuovere armonia e comprensione reciproca.
Tali principi sono stati distillati nella Carta Olimpica, per cui ogni individuo deve avere la possibilità di praticare lo sport senza discriminazioni di alcun genere e nello spirito olimpico, che esige mutua comprensione, spirito di amicizia, solidarietà e fair play.
Allora perché parliamo delle Regole del Barone?
Perché spesso si applicano, o dovrebbero applicare, anche alla vita sociale e politica del paese.
Eccellenti, ma non pronti a “tutto pur di vincere” ma a “tutto pur di essere oggi migliori di ieri”. Pronti a portare rispetto anche all’avversario più accanito, riconoscendo anche di essere diversi ma senza “giocare sporco”. Solidali: questo era l’ideale del Barone questo significa “giocare secondo le regole”.
E perché la confusione col Marchese?
Le regole del Marchese di Queensberry sono invece le regole del pugilato, tra cui spicca il “non usare mosse da wrestling”, codificato anche come il “non colpire sotto la cintola”, regole usate per rendere leale e gestibile uno sport di contatto col rischio di avere fortissimi strascichi sul fisico degli atleti e dell’uso di mosse “scorrette”.
È comprensibile come la somma delle “Regole del Marchese e del Barone” siano oggi l’espressione del gioco pulito, e come il “colpo sotto la cintura” sia considerato deprecabile sia nello sport che nella vita.
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