Ci segnalano i nostri contatti una desueta screen sul “sacrificio del processo figlio”. Così desueta che l’account che l’ha lanciata su X è ormai chiuso da tempo, probabilmente da quando X si chiamava Twitter.
No, non c’è niente di satanico nella screen del “sacrificio del processo figlio”
Una screen di un messaggio di errore che propone di “kill process” (“uccidere un processo”) o “sacrifice child” (sacrificare un figlio). Ovviamente non c’è niente di satanico di tutto questo, ma la nomenclatura usata dai sistemi operativi derivati da Unix, come Linux.
Il “sacrificio del processo figlio” è semplicemente un mezzo per evitare un crash di sistema.
In caso ci siano problemi di memoria (sovente scarsità) il sistema operativo cercherà di chiudere i processi più ingordi. Per evitare blocchi di sistema a catena, cercherà di evitare i processi in modalità “root”, quelli che lavorano cioè alla base del sistema operativo, preferendo i processi secondari, i “programmi aperti da programmi” per cercare di capirci nel modo più semplice possibile.
Sacrificherà quindi un processo figlio, quindi derivato, scelto con logica euristica in modo da provocare il danno minore alle operazioni del computer.
Il linguaggio usato è un po’ bizzarro per i non addetti ai lavoro, ma non è così assurdo se ci si riflette.
Il ritorno in voga di questo vecchio post echeggia la passata discussione sulla nomenclatura master/slave nel gergo tecnico (dove indicava i driver primario e secondario su un controller) e informatico, dove indicava un ramo coi processi principali ed uno derivato e sui jack delle cuffie, dove si propose superare la nomenclatura “sessile” maschio/femmina.
In questo caso, con più complottismo e satanismo libero.
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