La morte di Vittorio Zucconi è uno degli obituari che non avremmo mai voluto verificare. Ma cogliamo l’occasione per stringerci intorno ai suoi cari ed alla loro famiglia.
Vittorio Zucconi, da tempo malato, si è spento dopo una avventurosa vita all’insegna del giornalismo a Washington, negli Stati Uniti, luogo del quale aveva la cittadinanza.
Giornalista di pregio e sin dai tempi del liceo, corrispondente per gli Stati Uniti, uomo del suo tempo, in ogni tempo.
A lui fu affidata, sino al 2015, l’edizione Web del noto quotidiano La Repubblica, e fino al 2018 fu direttore di Radio Capital, acuto nel comprendere il valore dei new media.
Viveva il giornalismo, non lo interpretava. E infatti il Vittorio privato, quello dell’amicizia, era uguale al suo ruolo pubblico. A cena, in redazione, nei viaggi, negli incontri ogni vicenda, qualsiasi fatto, tutti gli avvenimenti grandi o piccoli di cui si parlava per lui prendevano automaticamente il format del racconto, come se fossero pronti per essere scritti, o addirittura come se fossero avvenuti per finire nella rete del suo giornalismo. Che li reinterpretava rendendoli simbolici, o almeno emblematici, comunque esemplari.
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Geloso nel lavoro, come tutti noi, era generoso nell’affabulazione, empatico, capace di entrare in sintonia con qualunque interlocutore, un bambino, un campione sportivo, un politico, un lettore. Divoratore notturno di qualsiasi cosa si potesse leggere, col suo russo, il francese, l’inglese americano e persino un po’ di giapponese poteva parlare di tutto, e su tutto aveva un’opinione, ma soprattutto un ingresso particolare, con un ricordo personale, una storia tangenziale: e infatti era un animale radiofonico perfetto, come testimoniano gli anni alla direzione di “Radio Capital”. Si prendeva in giro canzonando gli altri. Ma invecchiando confessava l’importanza dell’amicizia, con quegli slanci che nascono a sorpresa dal pudore del lavoro: fino a borbottare una sera al telefono un “ti voglio bene” a qualcuno prima di riattaccare, probabilmente vergognandosi.
Aveva lavorato con direttori come Scalfari, Ronchey, Fattori, Nutrizio e Di Bella. Aveva visto il mondo con gli occhi del mestiere, che obbliga a indagare, decifrare, capire. Bruxelles, giovanissimo, poi New York, Mosca, Parigi, Tokyo, Roma con il caso Moro, di nuovo e definitivamente Washington, l’America dei suoi figli Guido e Chiara e dei suoi nipoti. Ma l’ancoraggio del suo mondo privato era Alisa, a cui leggeva i pezzi in cucina prima di spedirli, la compagna che lo accompagnava nei viaggi, che gli faceva da sparring partner, quando masticava un avvenimento elaborandolo, prima di cominciare a scrivere.
Scrivere era l’inizio e la fine di tutto, l’unica cosa che contava. Non diceva mai no al giornale, aspettava la chiamata con la richiesta di un articolo, lo cominciava subito, poi attendeva la telefonata di controllo, di ringraziamento, di complimenti. Aveva promesso alla famiglia che non avrebbe risposto al giornale solo il giorno in cui suo figlio giurava come ufficiale, e infatti non lo fece per due ore, poi cedette. Era morto Frank Sinatra e scrisse un articolo bellissimo col computer sulle ginocchia tornando a casa in auto, mentre Alisa guidava.
Come abbiamo avuto in modo di dire in passato, non approviamo ed aborriamo chi tra i commenti vorrebbe vedere noi Fact Checking sul ring contro i giornalisti.
Non siamo per gli astii, non siamo per la lotta ad ogni costo.
Un fact checker non è, non può e non deve essere un giornalista, bensì il bibliotecario della biblioteca più grande del mondo.
E, in quanto bibliotecario, impara ed amare e rispettare ogni testo, compresi quelli dell’emeroteca, le raccolte giornalistiche.
Anche per questo, per chi vi scrive la morte di Vittorio Zucconi è un lutto per il quale è pronto a chiedere, ed esigere, rispetto.
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