Ci sono eventi di svolta, anche nelle passioni collezionistiche: momenti che hanno cambiato per sempre il volto del retrocomputing. Col senno di poi è facile parlare, ma fare ipotesi non è affatto facile.
Ma molti dei momenti li abbiamo visti insieme in questa rubrica: punti di svolta dai quali la storia dell’intero retrocomputing ha preso direzioni assai diverse, e senza i quali vivremmo in un mondo davvero diverso.
Nel 1961 Steve Russell detto Slug, all’epoca giovane programmatore, decide sostanzialmente una delle grandi verità del gaming moderno: il gioco deve nascere per divertire, non come dimostrazione educativa.
Nel 1958 il fisico William Highinbotham decise di creare un gioco del Tennis, Tennis for Two in grado di girare su un oscilloscopio con le racchette controllate da un paddle.
Lo scopo era evidentemente educativo: dimostrare che il progresso della scienza “ha ricadute nella vita di tutti i giorni” e che era possibile avere computer in grado di simulare leggi della fisica e attirare il pubblico ad esso con l’artificio di un gioco (che ora chiameremmo videogioco).
Tre anni dopo Steve Russel decise che no, avrebbe creato un gioco il cui scopo era divertire, punto e basta.
E lo fece creando un gioco per PDP-1 dove due giocatori si potessero sfidare con delle navicelle spaziali, spingendosi fino a creare dei primitivi joystick senza contatti rumorosi per giocare comodamente senza dare vantaggio all’altro giocatore, in un mondo virtuale a bassissima risoluzione dove però fosse possibile usare diverse armi e sfuggire a pianeti e buchi neri.
A parte il fatto che alcune meccaniche di gioco tracimarono in giochi successivi come Asteroids (la possibilità per la navetta di teletrasportarsi in modo casuale) e Space War per sala giochi, Spacewar! popolarizzò se non creò il concetto del videogioco come qualcosa che avrebbe potuto emozionare e divertire.
Space War! inventò di fatto se non il multiplayer le “garette a punteggio tra amici”, e con esso le basi degli eSports prima che ci fosse un vero multiplayer: già nel 1972 una competizione massiva di giocatori mise in paio una copia della rivista Rolling Stone ai primi giocatori.
Senza, probabilmente, questa rubrica non avrebbe avuto ragione di esistere.
Avrei potuto direttamente inserire la nascita dell’Apple I, retronimo per il primo Apple, evento che quasi mi vergogno di descrivere in questa rubrica e spiegare gli effetti che ha avuto nella comunità Retro.
Ma ci tengo a ricordare che esiste un evento, di cui ho parlato precedentemente, senza il quale l’evento creditato come l’alba degli Home Computer e di Apple non sarebbe mai esistito.
Ovvero la nascita del MOS 6502, il processore che cambiò il mondo dell’informatica.
Guardiamo in faccia la realtà: nel biennio 1975-1976, ovvero tra l’ideazione e la creazione dell’Apple I, Steve Wozniak e Steve Jobs erano quello che definiremmo in gergo “due poveracci scappati di casa” che non avrebbero mai potuto permettersi di cominciare la loro avventura strapagando processori Motorola.
Contemporanamente MOS Technology, ditta di integrati praticamente ridotta alla canna del gas, sognava il rilancio, e lo ebbe quando Peddle e Mensh si portarono via da Motorola Harry Bawcum, Ray Hirt, Terry Holdt, Mike James, Will Mathis e Rod Orgill e proposero a MOS di fare quello che la casa madre non gli consentiva: un processore più economico del Motorola 6800, destinato ad un pubblico di hobbysti.
Nacquero il 6501, compatibile con le mainboard per Motorola 6800 e il 6502: Motorola adì le vie legali per ottenere il ritiro del 6501 e rimase solo il 6502.
Grazie ad esso Steve Wozniak e Steve Jobs poterono tirare fuori dal cilindro l’Apple I e lanciare la loro avventura commerciale col successivo Apple II. Sempre grazie al MOS 6502 un certo Jack Tramiel, reduce dei campi di sterminio nazisti, si associò con Irvin Gould e con la sua Commodore comprò MOS Technology in modo da poter creare prima il Commodore PET, poi il Commodore VIC20 e il Commodore 64, idolo di un’era.
Sempre grazie al 6502 Motorola dovette addivenire a più miti consigli, realizzando finalmente processori più economici che trovarono il loro posto in home computer come i Tandy-Radioshack.
Ho già parlato nell’apposito articolo delle virtù del 6502, ma basti pensare questo.
Provate a immaginare un mondo senza l’Apple II e il Commodore 64. Praticamente un mondo dove l’informatica accessibile non sarebbe esistita per molto tempo, se non non esistita affatto.
Provate a immaginare l’enorme ovvietà dell’assenza sul mercato di Apple I e II, dell’assenza dei Commodore 64 nelle case di generazioni di ragazzini, Satoru Iwata che non riesce a permettersi il PET su cui ha imparato a programmare diventando una delle menti più brillanti di Nintendo e la sparizione di buona parte dell’informatica a basso costo che era il nerbo dell’esistenza stessa di quello che chiamiamo Retro.
Nulla togliendo all’importanza capitale di altri processori dell’epoca, come lo Zilog 80 e l’Intel 4004 (il primo microprocessore), MOS 6502 fu la base di quella che Tramiel chiamò “Informatica per le masse”. Computer per hobbisti e amatori, non solo professionisti, e tutta una serie di console di gioco a basso costo (o almeno tanto basso quanto l’epoca consentiva…) che portarono l’informatica da costoso strumento di lavoro e orpello per le case dei più abbienti a bene massificato.
Non necessariamente povero, vedi la parabola di Apple da oggetti per hobbysti a gran lusso accessibile o quasi, ma comunque di massa.
Di Zork ne abbiamo parlato assieme in un articolo dedicato. Siamo nel 1977, e i quattro “implementor” (“programmatori”, nome che i quattro diedero agli dei del loro gioco) Tim Anderson, Marc Blank, Bruce Daniels, e Dave Lebling, studenti e programmatori (tranne Lebling, ricercatore) al MIT avevano un enorme problema.
La noia.
Avevano giocato fino allo sfinimento a Colossal Cave Adventure, Santo Patrono di tutte le avventure testuali e il tedio impediva loro di abusare delle proprietà scolastiche per divertirsi.
Decisero così che se nessuno avrebbe dato loro un nuovo gioco, se lo sarebbero fatti da soli.
Uno scanzonato fantasy in un mondo incantato e ricco di “dungeon”, tunnel sotterranei, portato alla rovina dalla dinastina di Re Stoltonio Testapiatta e i suoi stupidi discendenti e dove un avventuriero (il giocatore) diventerà “Signore del Dungeon” e del Regno di Quendor, benedetto dai Quattro Dei chiamati gli Implementor.
Nel 1979 Anderson, Blank, Lebling e altri cinque membri del Dynamic Modelling Group decisero di fondare una casa editrice di videogames, Infocom, riprogettando il gioco perché girasse sulla Z-Machine, un “computer virtuale” emulabile da tutti i computer dell’epoca.
Decisero di vendere le loro creazioni, aggiungendo manuali, gadget, regalini e guide di gioco.
Di fatto Zork divenne il modello per le release commerciali. Quel modello per cui ancora oggi il fascino di possedere un gioco in “edizione limitata” non è tanto nel fascino del gioco stesso, quanto nel possedere e collezionare quei feelies che lo rendono unico, e che per Zork erano anche una primitiva forma di protezione.
Il concetto di “limited edition” piene di gadget da conservare, il gioco come possesso e oggetto del desiderio… tutto affonda le sue radici in Zork.
Anche questo è un evento di cui ho parlato e che potrete leggere cliccando qui.
Una sorta di lenta Apocalisse che cambiò il mondo dell’informatica. Parla con un “generalista disinformato” e ti dirà che il Great Atari Crash è nato perché “c’erano troppe cassette di ET nelle discariche, lol”.
Il Great Atari Crash fu una confluenza di fattori, sintetizzati da un’analisi di Goldman Sachs proprio in quegli anni.
Sostanzialmente la seconda generazione di console era ormai agli sgoccioli, tallonata dal “profeta della terza” (VIC20 e Commodore 64, computer ma con vocazione videoludica) e dalla Terza Generazione propriamente detta e pronta ai blocchetti di partenza se non già partita in Giappone (Nintendo FamiCom, il futuro NES e il SEGA Master System).
In tutto questo nel 1979 quattro impiegati e sviluppatori per Atari (David Crane, Larry Kaplan, Alan Miller e Bob Whitehead), la c.d. “banda dei quattro” si dichiararono stanchi di non ricevere riconoscimento e gratifiche (anche economiche) per il loro lavoro.
Non riuscendo ad ottenere soddisfazione in loco, aprirono una loro ditta per produrre cartucce di gioco per Atari alle loro condizioni, la Activision (ora divisione di Microsoft).
L’Atari VCS non aveva alcun chip di protezione: la seconda generazione di console fu la prima a supportare le cartucce, e l’unica difesa passava per i tribunali: Atari cercò di portare in giudizio la “banda dei quattro”, fallì perché non esistevano leggi o statuizioni contrattuali a impedirlo.
Atari era allora in posizione dominante, ma Goldman Sachs aveva previsto una fortissima sproporzione tra domanda e offerta. Atari sperava di colmarla col numero: l’improvviso influsso di concorrenti di terze parti pronti a rivendere giochi orrendi, derivativi e malfatti per una frazione del costo, unitamente alla consapevolezza che ormai il VCS/2600 era una console agli sgoccioli portò a scaffali pieni di zozzerie in conto vendita che venivano rimandate indietro e sostituite da altre zozzerie.
I tentativi di giocare la carta dei giochi tratti da proprietà di successo fallì: nello stesso 1983 in cui in Italia a Natale le TV mostravano bambini festanti urlare “Atari?!? Magari!” daventi alle vetrine agghindate a festa, la pressione di Commodore 64 e NES (seguiti due anni dopo dal Master System) arrivati in Occidente giusto in tempo per il calcio di avvio della Terza Generazione di console, l’impero Atari finì.
Qualsiasi riassunto di quello che accadde sarebbe parziale. Si fa prima a dire che tutto quello che è il mondo del retro e il mondo moderno nacque lì.
Il modello commerciale Nintendo? L’intero impianto di Nintendo in Occidente fu una reazione al crash Atari: un sistema di “seal of approval” per bloccare l’accesso a giochi e accessori di terze parti non autorizzati, console spesso anche inferiori per performance alla concorrenza ma spinte da esclusive al lancio con marchi “in house” forti, anzi fortissimi (Zelda, Mario, Metroid, Pokémon…), accessori innovativi (da ROB il Robot al JoyCon) e il Party Game come mezzo per vendere le console nascono di lì.
Nintendo voleva vendere ad un pubblico che aveva ormai associato il concetto stesso di console a giochi di pessima qualità per ragazzini troppo stupidi per meritare un computer il NES come un elettrodomestico dalle fattezze di un videoregistratore che regalasse intrattenimento di pregio a tutta la famiglia riunita intorno al focolare.
Il concetto di “Computer Gaming Master Race”?
Commodore tirò fuori i grossi calibri per popolarizzarlo esibendo William Shatner (il “Capitano Kirk” televisivo) ripetere la citata narrazione del computer come gioco intelligente che prepara ad una vita di successi accademici e la console come gioco stupido e costoso.
L’informatizzazione di massa? La martellante propaganda sul Computer come mezzo supremo rovesciò nel mercato Commodore, Apple e Tandy-RadioShack.
Col ritiro di Commodore dall’agone, lo scontro divenne un bilaterale tra cloni IBM (ora i “PC”) e computer Apple che ancora viviamo ogni giorno della nostra vita sulle nostre scrivanie.
Altro evento di cui abbiamo parlato è l’ascesa, sempre nei primi anni ottanta, dei “Dungeon Multi Utente”, o MUD.
Cosa c’è di meglio di esplorare mondi di fantasia come quello di Zork e CCA?
Esplorare la fantasia in compagnia, oseremmo dire, gareggiando con altri amici e sconosciuti per chi diventerà “stregone” o “signore del Dungeon” prima degli altri in MUD e MUD2.
Il concetto si estese presto a diversi giochi online con interfaccia grafica, circostanza descritta nell’articolo.
Sapete perché e come nacquero servizi come Ventrilo o ICQ?
Perché i giocatori dei MOBA, Multiplayer Online Battle Arena, avevano bisogno di una chat in tempo reale per organizzarsi, e le sfide a Warcraft – Defense of the Ancients (DOTA) non si sarebbero organizzate da sole.
Niente multiplayer, niente chat, niente chat, niente MSN poi evoluto in Live Messenger poi ripiegato in Skype e probabilmente il mondo delle chat, videochat e telelavoro ne sarebbe stato diverso.
Ma anche niente eSports, competizioni online già presenti dai tempi del citato
Nel 1992 Galoob Toys, produttore del Game Genie, decide di adire i tribunali per vedere accertato il suo diritto a vendere cartucce cheat per il NES e il SNES, naturalmente dietro l’opposizione di Nintendo.
Cheat e trucchi esistevano già praticamente dai tempi di Colossal Cave Adventure, ma lo scopo di Galoob era legalizzarli.
Nintendo addusse che solo esistendo GameGenie usava sue proprietà intellettuali per far profitto danneggiando quindi i guadagni di Nintendo e b. in un mondo in cui, ancora prima del gioco online, i ragazzini facevano già a gara per battere ogni record nei videogames, con Nintendo stessa pronta a raccogliere i record ed elargire premi e gadget ai giovani campioni, GameGenie e simili avrebbero “danneggiato la Cultura Nintendo”, screditando i risultati dei giocatori onesti.
Fu un nulla di fatto: il Nono Circuito della Corte di Appello di New York decise sostanzialmente che il danno non esisteva. I giocatori dovevano comprare le cartucce NES per avere qualcosa da hackerare, che Nintendo non aveva provato alcun danno economico e che la “cultura Nintendo” non era quindi misurabile come tale.
Almeno fino all’introduzione della moderna legislazione sul diritto di autore, come 2001/29/CE, DMCA e UCPA, i ragazzini di tutto il mondo continuarono a comprare i loro Game Genie, Action Replay, GameShark e simili, coi looro bravi libriccini pieni di codici per barare.
Fino all’introduzione degli eSport, ma eravamo già arrivati in epoca, barare non fu un peccato, ma per tutta l’era del retro un diritto fondamentale del gamer come quello del citato Spacewar! e ora elevate a tornei con enormi interessi economici in ballo non dissimili a quelli di competizioni sportive.
Se pensate alle killer app principali per il GameBoy vi verrà in mente sicuramente Tetris, e la frase apparsa nel film ad esso dedicato per cui Tetris avrebbe portato il GameBoy nelle mani non solo degli adulti ma dei bambini.
Ma quello che ha dato un senso ad un accessorio del GameBoy altrimenti negletto e dimenticato saltò fuori dalla mente di Satoshi Tajiri, classe 1965, ragazzino della periferia Giapponese fissato con gli insetti che, a causa dello sviluppo urbano del Giappone del dopoguerra che divorava campagne e luoghi brulicanti di vita animale (vedi Pom Poko, parabola naturalista di Isao Takahata a base di procioni ormai senza casa intenzionati a riprendersi, fallendo, la loro natura), dovette riconvertire le sue passioni nei videogames.
Cominciò quindi a rovesciare la passione che metteva nel riempire quaderni di dati sugli insetti trovati nei boschi nel riempire quaderni di dati suoi videogames, partendo da Space Invaders fino a cimentarsi nella creazione di suoi giochi.
La storia è lunga, e ne abbiamo parlato qui: basti pensare che ad un certo punto Satoshi decise che il Data Link Cable, il cavetto di collegamento per il multiplayer tra GameBoy, poteva essere usato per scambiarsi buffi animaletti virtuali che, come gli insetti che amava, avrebbero avuto ognuno caratteristiche speciali e la capacità di trasformarsi in diversi stadi della loro esistenza diventando sempre più potenti, alleati di un giocatore/allenatore in un Gioco di Ruolo sia fantasy che moderno in cui un ragazzino dei giorni nostri, in un mondo “popolato da strane creature chiamate Pokémon”, parte per il mondo per diventare un campione di lotte tra animaletti virtuali e per la strada salva il mondo da una gang malavitosa, il Team Rocket (cose tipiche del mondo dei “Giochi di Ruolo alla Giapponese”, dove un adolescente disoccupato si sveglia una bella mattina per “divenire un eroe” e ci riesce).
E scambiandosi animaletti virtuali via cavo, Satoshi sperava di liberare i ragazzini dall’isolamento virtuale obbligandoli a cooperare per “catturarli tutti”, inteso come i 150 animaletti di gioco più Mew, che all’epoca poteva essere ottenuto solo spedendo alla casa madre la cartuccia dopo aver vinto un apposito concorso (o con vari trucchi, incoraggiati però dagli autori).
Dobbiamo davvero ricordarlo? Nonostante le prime due generazioni di Pokémon, Blu/Rosso/Verde/Giallo e il loro sequel diretto Oro/Argento/Cristallo fossero improbabili collezioni di bug più che di insetti, stracariche di tutti i difetti che potremmo immaginare in giochi programmati da persone ancora alle prime armi, Pokémon divenne un successo epocale.
Lanciò una serie animata, durata 25 anni e con un personaggio a metà tra l’eroe del primo gioco e lo stesso Satoshi Tajiri da ragazzino, un giovane pieno di entusiasmo e animato dal desiderio di “vedere tutto, conoscere tutto, diventare amico di tutte le creature della Terra” per poi realizzare solo nel finale che l’unico modo possibile per realizzare tale sogno è continuare a viaggiare, imparare e studiare per il resto dei suoi giorni, ma col sorriso, un gioco di carte collezionabili e tornei di eSports con un giro economico enorme.
Pokémon entrò nell’Olimpo delle proprietà esclusive Nintendo, diventando il viatico per il gioco online: prima di Splatoon, prima di Mario Kart, prima di Smash Bros!, se chiedevi ad un ragazzino perché aveva comprato il Data Link Cable o perché gli piaceva andare online col Nintendo DS e 3DS, la risposta era “per scambiarsi Pokémon/lottare coi Pokemon”.
Un mondo senza Pokémon? Difficile da percepire, con tutti i prodotti derivativi creati sulla sua falsariga e la sua rilevanza nell’online.
Anche questo è un evento di cui abbiamo parlato, almeno un paio di volte per la sua enorme significanza
Siamo nel 1988, e durante lo sviluppo del SuperFamicom (SuperNES da noi) Nintendo cominciò a corteggia SONY, titano dell’industria audiovideo nato nel dopoguerra da umilissime origini per ottenere un chip audio per le console.
SONY all’epoca non aveva alcuna intenzione di entrare nel mercato videoludico, ma da cosa nasce cosa e le due ditte svilupparono un progetto per dare al mondo Nintendo l’ultima novità del momento, i dischi ottici.
Entro il 1991 una partnership Nintendo/SONY avrebbe dovuto tirare fuori un add-on, il “SuperCD”, simile al “MegaCD” del Mega Drive per dare al SuperNintendo supporto per giochi su CD e caratteristiche potenziate.
La citata tendenza di Nintendo all’accentramento ed al controllo totale rovinò l’accordo: Nintendo non era del tutto convinta di dover lasciare a SONY royalty e controllo sui dischi ottici, e cominciò un accordo di “riserva” con Philips, che avrebbe concesso condizioni favorevoli.
Nel 1991 Nintendo annunciò una partnership con Philips tagliando fuori SONY, che però conservò il diritto di costruire console compatibili col SNES, producendo 200 esemplari (di cui uno solo sopravvissuto) del SONY/Nintendo Play Station.
SONY stabilì in seguito di voler bruciare i ponti con Nintendo: nonostante alcune somiglianze col progetto passato (come il protocollo di comunicazione dei Joypad, simile ma non eguale), SONY lanciò la sua console, ora “PlayStation” tutto attaccato, non compatibile col SNES per non dover avere niente a che fare con Nintendo, e Nintendo abbandonò anche con Philips il progetto della sua console di quarta e quinta generazione su disco ottico.
Dobbiamo davvero spiegarvi quale terremoto fu la PlayStation? Se tutti desiderano la PS5 attualmente, un motivo ci sarà. SONY che ricordiamo non avrebbe mai voluto entrare nel mercato dei videogames, ci entrò letteralmente per sfregio, malanimo e vendetta diventando il principale attore e il rivale principale di Nintendo.
SEGA cessò presto di vendere sue console, producendo prodotti per altre console, Nintendo continuò nella sua nicchia e produsse una sola console a dischi ottici nella sua storia, il GameCube, mandando contro la rivale PlayStation il Nintendo 64 ancora legato a cartucce di gioco.
SONY ebbe un successo apocalittico e strappò esclusive a diverse case editrici un tempo legate a Nintendo, tra cui la Square di Final Fantasy (ora Square Enix) che pubblicò Final Fantasy VII come esclusiva PlayStation, lanciò brand come Tomb Raider e divenne presto il titano che è tutt’ora anche nel mondo videoludico.
Anche l’accordo con Philips fallì, e anche Philips decise di entrare nel mondo videoludico fornendo il suo CD-i, console per intrattenimento domestico, di videogames. Il “rimborso” che ebbe Philips fu la possibilità di usare personaggi di proprietà Nintendo per i suoi giochi: nacquero così i giochi di Zelda e Mario peggiori di ogni tempo e, sorprendentemente, il primo gioco di Legend of Zelda con Zelda protagonista trent’anni prima di Echoes of Wisdom.
Se il crollo di Atari ha creato le basi per il mondo videoludico come lo conosciamo, l’arrivo della PlayStation ha concluso definitivamente la pratica.
Siamo nel 1994, e Commodore, la storica Commodore, dichiara bancarotta, ponendo fine ad un’avventura cominciata nel 1955.
A dire il vero Commodore non se la passava benissimo da un bel po’, e l’abbandono di Tramiel (secondo la volgata, dovuto ad un dissidio in cui Gould rispose “Addio” alla minaccia di Tramiel che avrebbe mollato se il partner non avesse cambiato indirizzo economico) col suo passaggio alla nuova Atari contribuì a mettere un chiodo nella bara della Casa Madre.
Alcuni progetti, come il Commodore Plus/4, erano diventati un flop, secondo il libro The Story of Commodore 64 in Pixels il Commodore 64 era diventato sia lo strumento con cui Commodore continuava a far soldi che la sua dannazione.
Commodore continuò a vendere il 1541 (nella sua ultima incarnazione, il 1541-II) in perdita fino alla fine per gli utenti che rifiutavano di abbandonare il caro vecchio Commodore.
Aveva tentato la carta di una console basata sul Commodore 64, il 64GS, ma con scarno successo.
Se Commodore non fosse fallita, il posto del 64 sarebbe stato preso dal C65, versione evoluta del 64 che avrebbe dovuto aiutare la transizione dal mondo Commodore al mondo Commodore-Amiga, aiutando ulteriormente il successo degli Amiga.
Amiga adombrati dalle controversie legali proprio con l’Atari di Tramiel, che rallentarono la loro uscita in commercio.
Tutto questo, con la fine di Commodore, arrivà al termine.
Se Commodore fosse sopravvissuta fino al 1995, i piani aziendali avrebbero portato al ritiro del Commodore 64 e del 128 ed alla permanenza sul mercato degli Amiga e del Commodore 65.
Basandoci sul fatto che Amiga ha ancora una community vitale intorno a sé ed esiste ancora chi sviluppa nuove versioni di AmigaOS e aggiornamenti hardware per lo stesso, e che abbiamo visto più volte il Commodore 64 rifiuta ancora di morire, una Commodore vitale e pronta a resistere alla concorrenza avrebbe trasformato il trilatero Commodore-Apple-Tandy in un trilaterale Commodore-Apple-PC Compatibili.
Forse avremmo avuto nuovi Amiga nelle case e negli uffici, ma non ci è dato di saperlo, né ci è dato di sapere cosa sarebbe accaduto se Tramiel avesse risposto allo sprezzante “addio” di Gould restando e regolando i conti in Commodore anziché da Atari.
Peraltro abbiamo una traccia bonus: proprio il fatto che Tramiel abbia passato del tempo in un campo di concentramento ha provocato la possibilità contraria che Commodore non fosse mai esista.
Molti altri punti di svolta costituiscono un vero “What-if?” nel mondo del Retro.
Questi, e siamo già intorno alle 4000 parole, ben più di quanto siamo abituati in questa rubrica, sono i punti di svolta più forti.
Se una passione può essere governata da leggi universali, in questo momenti esse sono state scritte.
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