Vi abbiamo già parlato del Dendy, il surreale clone del NES che in quell’Isola di Tortuga della pirateria informatica vintage che era la Russia degli anni ’90 ereditò decenni di finti CASIO, Game&Watch tarocchi e bootleg musicali stampati su lastre radiografiche con spot surreali e austeri come la propaganda Staliana, improbabili mash-up di Super Mario e Sonic presentati da svogliati presentatori pronti a gambizzare i sogni di infanzia dei bambini in diretta.
Ma adesso è il turno di un altro probabile ma anche no “FamiClone” d’epoca, il Brasiliano Gradiente Phantom. Se la storia del Dendy era la tipica storia del corsaro che, in una Russia tagliata fuori dai “Lussi dell’Occidente”, il Phantom deve le sue origini ad una bizzarra gestione legislativa e normativa del protezionismo.
Se il problema dell’ecosistema Sovietico era la chiusura all’Occidente, il problema fondamentale del mercato sudamericano era un fortissimo probizionismo.
Allo scopo di favorire il mercato interno diversi paesi del Sud America, tra cui Messico e Argentina adottarono una politica fortemente protezionista: importare era assai costoso, produrre in loco non lo era.
I beni tecnologici erano particolarmente falcidiati, particolarmente in Argentina ma come vedremo con effetti anche in Messico, che cominciò assai presto a produrre in serie il proprio Apple II, l’Unitron.
Ovviamente uno dei mille cloni dell’Apple II, cosa resa possibile dall’essere prodotto all’epoca con parti tutt’altro che proprietarie. Alcuni produttori interni scelsero però un approccio del tutto diverso.
Sostanzialmente anche in un sistema economico improntato al protezionismo più sfacciato era possibile per i produttori americani “fare legge e trovare l’inganno”.
Laddove Apple vide semplicemente il suo prodotto clonato, Commodore agì invece con una certa astuzia: se le norme protezionistiche consentivano di importare computer interi solo pagandovi forti tasse, niente impediva di assemblare computer ed elettronica in Sud America e niente impediva di comprare parti di ricambio.
Presto l’Argentina (e il Messico seguì) comincio a produrre il “Drean 64”, assemblato negli stabilimenti Drean (ditta locale di elettrodomestici ed elettronica di consumo) usando componenti forniti da Commodore.
Non poteva essere altrettanto: a differenza di altri prodotti, le macchine Commodore erano composte di sole parti proprietarie. L’unico modo per ottenere i preziosi chip necessari a costruire un Commodore 64, un 128, un Commodore 16 o un Amiga era chiedere a MOS Technology, poi Commodore Semiconductor Group, situazione che si è prolungata fino al 2023.
La combine andò benissimo finché, secondo riferimenti locali Drean non “divenne avara” cercando la fuga in avanti rispetto a Commodore: non volendo aspettare il C64C, il “nuovo modello” con un case in stile Amiga e un nuovo processo produttivo, decisero di farselo in casa usando le mainboard già inviate da Commodore in case-imitazione prodotto da loro (riconoscibile per il led tondo “vecchio stile” usato) con tastiere-imitazione e un bundle con GEOS tradotto.
Commodore a questo punto cessò l’invio dei “ricambi”.
In Messico la situazione era simile ancorché non del tutto sovrapponibile: SIGMA, produttore di elettronica di consumo ed elettrodomestici, produsse i suoi Commodore 64 e 128, e poi comprò pallet di Commodore 16 invenduti ma già pronti a causa del fallimento commerciale dell’intera linea basata sul chipset TED (che sarà una storia per un’altra volta) e li rimarchiò.
Questa premessa storica vi serve per comprendere un fenomeno: in Sud America esisteva, al contrario dell’ecosistema Russo degli anni ’90, una produzione parallela ma del tutto legale per ragioni fiscali. Se importare un computer fatto e finito comportava un esborso fiscale in dazi, questo svaniva magicamente assemblandolo in patria.
Ciò posto, il fervente ecosistema sudamericano ci ha donato un posto dove ancora oggi è possibile reperire con facilità un Master System se non nuovo di pacca prodotto negli ultimi venti anni.
Parliamo di una console a otto bit di terza generazione, ma Segata Sanshiro stesso, o quantomeno il suo figliolo Sega Shiro, molto meno manesco ma amante del retrocollezionismo (vedi precedente articolo) sarebbe orgoglioso di sapere quanto una console così datata sia ancora supportata.
La chiave è tutta in TecToy, ditta fondata in Brasile nel 1987 da un ingegnere argentino e due fratelli tedeschi con lo scopo di occupare il settore videoludico in un mercato “limitato” dal protezionismo e dove Nintendo (tranne per il Gradiente Phantom che sarà la sorpresa di questo articolo) non aveva ancora messo piede.
Le avventure di TecToy cominciarono con la Zillion una pistola da laser tag chiaramente somigliante alla “Light Phaser” del Master System. La somiglianza non è casuale: “Zillion” era anche il titolo di un anime (serie di animazione giapponese) basato su un gioco del Laser Tag creato da SEGA.
Per i “diversamente anziani” ricordiamo che nel 1980 il Laser Tag era considerato l’airsoft del futuro, il gioco per i “ragazzini fighi”: ovvero si girava con delle pistole a infrarossi che interagivano con sensori attaccati alle pettorine dell’avversario, le quali “registravano” il colpo e ti dichiaravano eliminati.
SEGA cercò di popolarizzare il Laser Tag mettendoci su una storia: in “Zillion” tre giovani ragazzi (il tipico team da anime con l’eroe coraggioso e spavaldo e il ragazzo “ligio alle regole” e pronto a farlo pesare al leader che si contendono le attenzioni della bella ragazza del gruppo…) usavano infatti le loro brave pistole laser sospettosamente simili a versioni “senza cavo” dei giocattoli in vendita (e presentate come l’ultimo ritrovato della scienza del futuro, alimentate dal raro cristallo di “zillionium” anziché dalle batterie alcaline o dal SEGA Master System via cavo) ed armature sospettosamente simili ai “sensori zillionici” per rilevare punteggi e colpi andati a segno per menare alcuni alieni cattivi, coi modelli di “Light Gun” successivi introdotti come upgrade creati dal trio di eroi e installati sulla struttura delle Zillion Gun originali per “migliorarne le prestazioni” (e spingere i ragazzini all’acquisto di tutti gli accessori e modelli di pistole da Laser Tag e console).
TecToy strinse il solito patto che abbiamo visto anche con SEGA per vendere le pistole Zillion, per poi passare alle console SEGA.
A differenza di molti importatori/assemblatori TecToy non ha mai davvero smesso.
Tutt’ora in Brasile il SEGA Master System, che per noi è poco più che un sottovalutato ricordo di infanzia è ancora apprezzatissimo, una via di mezzo tra i “cloni del NES” da bancarella e le “retroconsole” più blasonate vendute su Amazon per un buon centone, ma più verso le seconde.
Un ecosistema ancora vitale basato sulla nostalgia del passato e su creatori di giochi dal sapore retro che si aspettano un hardware retro, o una buona riproduzione di esso.
Se durante la vita del Master System TecToy ottenne l’80% del mercato videoludico locale, fu dopo il passaggio alla terza e quarta generazione di giochi che TecToy diede il suo meglio in creatività, tirando fuori il Master System Super Compact (1994), unità “senza fili” in grado di sintonizzarsi alle TV emettendo il proprio segnale radiotelevisivo, il Master System III Compact (1994), erede del Master System II come lo conosciamo con a scelta Alex Kidd o Sonic precaricati in ROM, il Master System III Collection (2007), con un finto slot cartucce e giochi precaricati in memoria e altre soluzioni “su chip singolo” per emulare l’hardware dell’amata console.
Oltre ad una lunghissima serie di giochi originali, basati su proprietà intellettuali locali come “La banda di Monica” e una serie di porting dal Game Gear (console portatile SEGA d’epoca) e altre creazioni TecToy basate su altri personaggi conosciuti ai bambini Brasiliani.
Tutto questo fu reso possibile dal fatto che se in Occidente SEGA era insidiata da Nintendo, se in Russia Steepler col Dendy si era mangiata tutto il mercato possibile, l’avversario brasiliano del Master System non era mai arrivato. Se non sottoforma di un assurdo mostro di Frankenstein, una chimera di diverse console.
Entra in scena il Gradiente Phantom
Abbiamo quindi il quadro della situazione degli anni ’80 Brasiliani e Argentini. Dove se eri un produttore di tecnologia “straniero” avevi sostanzialmente due soluzioni: restavi fuori dal mercato per non farti pelare in tasse oppure ti procuravi “un Santo in Paradiso” che ti smerciava la roba.
SEGA e Commodore si cercarono il santo, Nintendo orgogliosamente rifiutò, lasciando un enorme buco.
L’esperienza del Dendy ci ha dimostrato che è sempre possibile replicare un NES dal nulla, essendo composto di parti facilmente ottenibili sul mercato col processore MOS 6502 prodotto su licenza da altre (il Gradiente Phantom usò una versione della Ricoh).
Gradiente, ditta Brasiliana, aveva già pronto in canna un clone autorizzato (sempre con le modalità di cui sopra) dell’Atari 7800, il successore dell’Atari 5200.
Ma a quel punto l’era degli Atari era al declino per una lunghissima serie di ragioni che partono da un mercato ormai non più ricettivo, l’invasione di giochi di terze parti venduti in conto vendita di qualità altalenante e che finiscono alle “cartucce di ET nella discarica”, Nintendo era la fabbrica dei desideri e SEGA, come il Pistolero nella Torre Nera, la seguiva.
Gradiente decise che delle linee produttive non si getta mai niente: sapendo che la litigiosa e iperprotettiva delle sue proprietà intellettuali Nintendo al momento si teneva lontana dal Brasile, creò una stravagante chimera di pezzi di console.
La carrozzeria di un Atari 7800 ospitò un clone della mainboard del Nintendo NES, costruito però con slot a “carica dall’alto” come il FamiCom Giapponese o il NES Control Deck “Toploader”.
Slot che ospitava però le cartucce del NES Occidentale (le cartucce giapponesi avevano un diverso “pettine”), ma con la possibilità di usare un adattatore per inserire anche le cartucce nipponiche.
Per quanto riguarda gli accessori, ricorderete che l’80% del mercato videoludico Brasiliano era TecToy, ergo SEGA. Il Gradiente Phantom ti arrivava in casa con due joypad a imitazione di quelli del Mega Drive (usati da TecToy sul Master System nonostante il terzo tasto fosse inutilizzato per la disponibilità maggiore delle mainboard SEGA) e una Light Gun costruita con l’aspetto della Zillion Gun, aka Light Phaser.
Nel 1988 poteva quindi capitare che un ragazzino Brasiliano, se volesse provare i giochi Nintendo e non il “TecToy” come tutti i suoi amici, si trovasse in casa un bizzarro Golem dall’aspetto di un Atari, coi pad di un Mega Drive, la Zillion Gun di un’arena di Laser Tag, per giocarci a Ghostbusters e altri giochi su licenza Activision e Tengen rilasciati (come Ghostbusters) ma in livree nere per simulare una forma di legittimità che il Phantom non deteneva tecnicamente.
Evitando ovviamente i giochi su licenza Nintendo che, comunque poteva procurarsi “in altro modo” e sul Phantom avrebbero girato comunque.
Oppurer fregarsene o giocare a Super Irmãos (“I Super Fratelli” in portoghese) per quella logica già vista in Russia per cui se eviti di chiamare per nome Mario e Luigi va bene uguale, e se riesci a disegnare un Mario particolarmente brutto e con lo sguardo vacuo sulla boxart, nonché più somaticamente affine al Dinamite Bla buzzurro disneyano che ad un idraulico, ancora meglio.
A questo punto la storia di Gradiente diventa un po’ come quella di Steepler, ma più fortunata e meno assurda: nel 1993 Gradiente ed Estrela si uniscono in Playtronic Industrial Ltda, che diventa importatore ufficiale delle console Nintendo in Brasile fino al 2003 (con Estrela che lasciò il mercato qualche anno prima), lasciando qualche strascico nell’import per cui, per dire, se la Switch è arrivata nel mondo nel 2017, nel 2020 Nintendo prometteva che sarebbe “presto arrivata anche in Brasile”, almeno nel mercato ufficiale e non di importazione parallela.
In ogni caso, i Gradiente Phantom non furono messi fuori dal mercato a colpi di carte bollate, ma non lasciarono mai i confini della patria, e molti di voi che leggete non ne hanno mai sentito parlare fin’ora (ma scommetto che se siete arrivati a questo numero della rubrica senza annoiarvi, siete degli affezionati di retrocomputing e ne avete letto in pubblicazioni specialistiche).
Vi dicevamo giusto una settimana fa che il valore di un reperto retro non è dato dalla sua anzianità (parliamo di roba creata in piena era della produzione industriale moderna, in enormi numero di esemplari) ma dalla reperibilità locale e dal numero di esemplari prodotti prima della fine produzione.
Il Phantom per ovvi motivi è esistito solo in Sudamerica e solo nel 1989, probabilmente non oltre il 1993 quando Nintendo entrò nel mercato ufficiale. Parliamo di esemplari di un numero non maggiore di 50mila prodotti per un singolo mercato e mai destinati all’esportazione.
Moli di voi nella vita non vedranno mai un Phantom acceso di persona, e se vorranno averne uno lo pagheranno prezzi da Playstation 5 con la singola cartuccia tra i 60 ed i 70 euro, dovendosi altresì premurare di procurarsi gli accessori “originali”, in quanto a differenza del NES originale la pseudo Zillon Gun/Light Phaser e i presunti controller usano lo stesso connettore DB9 del Master System e non le porte di comunicazione Nintendo, le cui differenze abbiamo descritto in un precedente articolo relativo alla storia dei controller.
Probabilmente, ammesso che riusciate a procurarvi un Phantom e farlo funzionare, avreste inoltre enormi problemi a procurarvi tutte le cartucce marca Gradiente nere e coi giochi “locali”: potreste però ricorrere ad un Everdrive, multicartuccia prodotta in Ucraina pienamente funzionante anche su cloni NES come Dendy, Gradiente Phantom e simili (purché muniti di slot cartuccia), di cui abbiamo ampiamente parlato in un precedente articolo.
Ma sinceramente, un pezzo raro (quantomeno fuori dal Brasile) come il Phantom non lo useremmo come “console per tutti i giorni”, preferendo (in assenza di un NES reale, che dovrebbe essere comunque funzionante) copie moderne del NES come il Retron 3 o un Generation NEX per l’uso con le nostre cartucce o il NES Mini su licenza Nintendo per una semplice “botta di nostalgia”
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