Le console più bizzarre di ogni tempo (per essere gentili)
Non tutte le ciambelle riescono col buco, non tutte le console sono successi commerciali. Alcune sono parte di un collettivo momento di “ma cosa ca**o stavano pensando”?
Di alcune, come il Dendy, ne abbiamo parlato in un apposito articolo: ma se il Dendy come abbiamo visto aveva un motivo per esistere, ci sono console che non lo hanno mai avuto.
Lo Zeebo, la console che non avete mai visto e che avrebbe anticipato i BRICS
Ad Agosto 2023 una notizia ha scosso il mondo del gioco su console: lo Zeebo, console di settima generazione avrebbe ricevuto un emulatore.
Certo, tecnicamente non siamo nel mondo del retro, ma quasi. Siamo nel mondo di una console nata vecchia: il parto della stessa TecToy che abbiamo visto avere in Sudamerica le licenze per mantenere in vendita le console di terza e quarta generazione SEGA, sotto le vesti di cloni autorizzati del Master System e del Mega Drive.
TecToy che ad un certo punto si chiese se non fosse il caso di lanciare una propria console sul mercato Brasiliano, liberandosi così dalla “maledizione” non solo TecToy, ma anche di altre ditte del mercato, vedi Gradiente, nel riprodurre vecchie console di terza generazione.
O meglio, non TecToy, ma Reynaldo Normand, dirigente per Tectoy Mobile e Mike Yuen per Qualcomm, principale produttore di apparati per telefonia mobile decisero di rirunirsi per creare qualcosa di innovativo. Nacque lo Zeebo: tutto quello che poteva andare storto in una console rinchiuso in un solo pacchetto.
Siamo nel 2008, e l’idea era creare la console perfetta per le economie emergenti: niente gioco su cartuccia per esempio, tutto sarebbe stato scaricato via Digital Delivery come le console moderne per intenderci.
La connettività sarebbe stata offerta dall’uso della tecnologia radiomobile 3G, basandosi sulla consapevolezza che nelle economie emergenti non ci sono molte abitazioni toccate dalla rete a banda larga e la connettività cellulare è tutto quello che può essere usato.
Col supporto per email e social Zeebo sarebbe stato una console, un ausilio didattico e un mezzo per consentire a ragazzi privi altrimenti di mezzi di tenersi connessi nel mondo virtuale.
E per i primi 18 mesi circa Zeebo fu un successo, e la stampa specializzato lo lodò come tale.
Eravamo dinanzi però ad un bizzarro miscuglio di novità e anticaglie. Ad esempio Zeebo aveva un controller “boomerang” affine ad un WiiMote fatto in casa, il 3G e firmware aggiornabile via USB, ma nessuna uscita HDMI e neppure S-Video: ci si accontentava delle connessioni videocomposite come il più miserabile dei Famiclone.
Gli utenti delle prime release di Zeebo potevano ottenere gratis i joypad e gli accessori delle relase successive, e l’investimento massiccio iniziale portò ad una serie di porting interessanti delle più blasonate console occidentali e piani per inondare Cina, Russia e India di Zeebo.
Ma qualcosa impedì allo Zeebo di diventare la console ufficiale dei BRICS.
Ad esempio la scelta di usare come interfaccia BREW, lo “pseudosistema operativo” che Qualcomm aveva spinto per i cellulari non smart portò ad un’interfaccia che laggava ancora prima di far partire i giochi.
E in un mercato come quello sudamericano abituato a comprare tutt’ora per un centinaio di dollari console di terza generazione e “farsele bastare” avere una “quasi settima generazione” per 300 dollari circa era semplicemente troppo, specialmente contando il fatto che il 3G avrebbe evitato sì di ricorrere alla banda larga, ma la scarsa diffusione di ripetitori e la congestione delle Reti rendeva il gioco online e l’uso social improbabile come cercare di giocare a Splatoon in un albergo durante il Lucca Comics usando il proprio cellulare come hotspot.
Lo Zeebo crollò di prezzo, dimezzato, ma a quel punto era troppo tardi: Zeebo Inc. quantomeno accompagnò l’uscita di scena (nel 2011) con giochi scontati e gratis, la promessa di mantenere il servizio assistenza e la solita serie di titoli basati sulla nota serie “La gang di Monica” amata dai Brasiliani.
Lo Zeebo aveva tre tipi di controller: uno quadrato, uno in stile PlayStation (con una variante prodotta da Logitech) e il citato Boomerang: dopo la fine del servizio online però, a parte l’emulatore, l’unico modo per caricare nuovi giochi su uno Zeebo è craccarlo, arte nota ad un singolo uomo in Brasile con un complesso procedimento.
A parte questo, i porting erano migliori di quanto si potesse pensare: era il resto della console ad avere problemi.
VirtualBoy: anche i titani sbagliano
In piena quinta generazione, nel 1995, Nintendo volle baloccarsi col concetto che poi sarebbe diventato il 3DS, eseguendolo nel modo peggiore possibile.
Era il 1995, e in quegli anni la saga del Tagliaerbe aveva popolarizzato la realtà virtuale così tanto da spingere Gunpei Yokoi, il padre del Game&Watch e del GameBoy a lanciarsi a capofitto in un’avventura virtuale.
Molte console portatili avevano promesso il supporto al 3D, un giorno il 3DS in piena ottava generazione ci sarebbe riuscito, salvo poi vedere tale traguardo abbandonato per sempre con 2DS e Switch.
Gunpei Yokoi combinò la tecnologia del “Private Eye” di Reflection Technology, in grado di simulare il 3D grazie ad uno specchietto vibrante e dei display a LED monocromatici creando l’illusione di qualcosa che segua i movimenti della testa, e li schiaffò in un elmetto pesante e fastidioso, così tanto da richiedere un treppiedi.
Nonostante la tecnologia originale del Private Eye risalisse al 1989, Nintendo decise che non avrebbe cercato di lanciare un VirtualBoy a colori: un display monocromatico avrebbe mascherato ogni magagna di un 3D nascente e fornito l’immagine della profondità mediante immagini rosse su sfondo nero perfetto.
Nonostante questo, l’esperimento fallì: non è mai esisista una release PAL, quindi occidentale del bizzarro congegno, al quale Nintendo staccò la spina dopo soli 22 giochi.
2 giochi da giocarsi buciando sei pile alcaline ogni quattro ore, oppure tenendo il visore su un tavolo connesso ad un alimentatore comprato a parte mentre sfidavi il mal di testa e i bruciori oculari di un 3D ancora imperfetto manipolando alla cieca un joypad dalla forma buffa: quando la tua console portatile richiede un trespolo per essere usata, probabilmente hai sbagliato qualcosa nella vita.
Certo, avevi la possibilità di rivedere vecchie glorie della quarta generaione in pseudo 3D, e c’è anche stato un seguito di giochi amatoriali: la console restò sullo scaffale per meno di un anno, salvo poi sparire.
Il Nokia N-Gage: sa soltanto quello che non è
In piena sesta generazione Nokia decise di competere col GameBoy Advance di Nintendo tirando fuori un “qualcosa” col suo stesso fattore di forma.
Formalmente un Nokia Serie 60, munito di SymbianOS, parte della famiglia del Nokia 3600 , di fatto il tentativo di competere con Nintendo, fallendo.
L’N-Gage fu battuto 1:100 dalla console portatile di Nintendo nelle vendite, e del resto era scomodissimo sia come telefonino che come console. Come console cambiare cartuccia nei primi modelli costringeva a smontarlo fino ad arrivare alla pila, usarlo come telefono significava abituarsi ad un affare più corpulento della media da usarsi si traverso col display nel mezzo tradendo le sue origini.
Non era la mancanza di titoli di pregio a dannare l’N-Gage, del resto aveva saghe “pesanti” come FIFA e spin-off mobili di Metar Gear Solid e Principe di Persia.
Ma a quel punto, per circa 400 Euro potevi comodamente comprare un cellulare Nokia e un GameBoy Advance, console con la stessa ergonomia ma che non dovevi schiacciarti in faccia in modi strani per telefonare.
Ma ora possiamo tornare comodamente nel mondo del retro propriamente detto (anche se ricordiamo, il GameBoy Advance può essere considerato comodamente l’ultima retroconsole prima del semplice “vintage”).
Il Commodore 64GS: Commodore alla canna del gas
Vi abbiamo già ricordato come tecnicamente il Commodore 64 è stato il calcio di inizio della terza generazione di Console senza essere una console, né volendo esserlo, almeno in Occidente (in Giappone è stato il FamiCom, ovvero il NES a cominciare le danze).
La forza del Commodore 64 e della sua versione aggiornata/ridotta nei costi C64C era nell’essere un computer con caratteristiche legate alle console di gioco. Abbiamo già visto come sul finire della seconda generazione di console fu proprio questo a premiare Commodore 64 e NES: un computer con velleità da console ed una console che non sembrava affatto una console vendevano meglio di un prodotto (l’Atari 2600) ormai legato a qualcosa di stantio, datato ed a giochi di qualità non più eccelsa.
Quando nel 1990 la quarta generazione stava lavorando la terza alle costole, Commodore decise improvvisamente che il modo migliore per continuare a vendere nuovi Commodore 64 (bestseller anche in piena era Amiga) era vendere un Commodore 64 in forma di console.
Ricorderete gli spot dei primi anni ’80 con William Shatner incline a lodare la superiorità del VIC20 rispetto alle console di gioco in quanto più versatile ed educativo.
Immaginate dopo quasi dieci anni di supremazia ostentata dell’Home Computing sulla console cosa possa comportare per il pubblico trovarsi, mentre già i C64C venivano venduti a prezzi fortemente ribassati, un C64C mutilato con due joystick a doppio tasto, privo della tastiera e col solo supporto per le cartucce.
Una partnership col famoso produttore di videogames Ocean (seguito da Codemasters, System 3, Microprose e Domark) avrebbe fornito i giochi più iconici degli ultimi anni del Commodore 64 in un formato rapido da caricare, esente dai tempi di caricamento lenti di cassette e floppy.
Problema: erano comunque una goccia nel mare di dieci anni o quasi di titoli, i joystick a doppio tasto erano supportati solo da pochissimi giochi in totale, si adattavano anche al Commodore 64 normale ed erano di fattura orribile e inclini all’autodistruzione.
L’assenza di tastiera era una barriera fisica insormontabile all’uso di molti giochi, e l’assenza del connettore floppy poneva una pieta tombale al resto: tra comprare un Commodore 64 usato o in sconto per giocare ai giochi su cartuccia e floppy e comprare un Commodore 64GS che usciva con le ossa rotte dallo scontro coi semplici NES e Master System e doveva competere col SNES e il Mega Drive, la scelta era scontata.
Così scontata che Commodore vendette il GS (“Game System”) solo in Europa, e presto cessò la vendita riutilizzando le mainboard (munite del Kernel originario e con le porte ricomposte) nei Commodore 64C e vendendo cartucce e joystick “potenziati” in bundle come “Playful Intelligence”.
Tandy Memorex VIS: “Virtually Impossible to Sell”
Il Tandy Memorex Video Information System (VIS) era una console di quinta generazione, costruita in piena mania del CD.
Un 286 venduto fuori tempo massimo per l’equivalente di un milioncino e mezzo di euro (contando l’inflazione e il tasso di cambio) con una versione embedded di Windows 3.11, prototipo delle future versioni di Windows embedded per terminali, ATM e altri dispositivi datati, che nelle intenzioni di Tandy avrebbe aperto a videogames e programmi educativi.
Ma spendere 699 dollari per giocare ad un gioco di golf e vedere programmi educativi non era esattamente quello che il pubblico medio si aspettava, ed il VIS era a tutti gli effetti un computer datato reinscatolato con la forma del CD-i e dell’Amiga CDTV, ed altre “console multimediali” dell’epoca.
Contiamo che all’epoca potevi ancora comprare un Super Nintendo per 100 dollari e un PC multimediale con 386 e tutti gli accessori per 500$ circa.
Unito a politiche aziendali per cui ogni negozio della catena RadioShack aveva un solo VIS usato per mostrare i video di demo e l’utente doveva prenotarne uno e farselo arrivare in negozio, l’assenza di giochi e il fatto che collegandolo alla TV di casa la qualità video ne soffriva, il VIS fu un tonfo.
E il CD-i?
Il tragicomico disastro del CD-i
Simile sorte ebbe un’altra delle due console multimediali citate (il CDTV aveva comunque il parco applicazioni Amiga alle spalle), il Philips CD-i.
Il senso del CD-i era avere una console audiovideo domestica con supporto per i formati CD-i (un formato Philips da 744 Mb di Dati e 72 minuti di audiovideo), CD Audio, CD+G, CD karaoke e Video CD, ancorché con una scheda opzionale.
Nei fatti il CD-i aveva, sia come console che come formato, l’appoggio di titani dell’Industria e un parco di applicativi tali da trascinare nel ridicolo anche i marchi più affermati.
Ricorderete come abbiamo parlato di una partnership tra Nintendo e Philips per creare il SNES CD, qualcosa che poi sarebbe diventato, in casa SONY, la famosa PlayStation: alla fine non nacque una nuova console, ma Philips ottenne accesso a due proprietà intellettuali iconiche e gloriose della grande N: Mario e Zelda.
Facedone un meme: animazioni assolutamente fognarie trasformarono l’epica saga di Legend of Zelda in un cartone animato disegnato malissimo con trame banali e personaggi assurdi.
Alcune intuizioni erano geniali e sarebbero ironicamente state usate meglio dalla Grande N nei giorni a venire: la figura di un Re Padre di Zelda attivo nella storia, presente nella serie animata del 1989, in Wind Waker e nei due capitoli per Switch diviene qui un bizzarro e deforme personaggio incline al riso ed alle frasi di sapienza buttate a casaccio, come anche la figura di una Zelda vestita di azzurro ed eroina della sua storia.
Il problema era l’esecuzione: nei primi due giochi della saga doppiaggi assurdi e disegni deformi trasformavano la storia in una collezione di Meme, mentre nel terzo Annie Ward e Diane Burns (segretaria della compagnia che si occupò del gioco) si alternavano nel ruolo di una Zelda eroica ma interpretata con una improbabile parrucca da cosplay Lucchese e una tunichetta blu da personaggio di Miyazaki in un mondo di strani personaggi a “Tolemac”, “Camelot” scritto al contrario e proveniente dall’area Palco di Lucca Comics&Games, di fronte allo stand di Feudalesimo e Libertà.
Interpretazione peraltro macchiata dalla curiosa scelta di creare un gioco basato su immagini campionate di Diane Burns nella sua tunichetta da principessa alla Miyazaki scontornata malissimo su sfondi statici con vista dall’alto.
E diciamo, l’introduzione con uno pseudo Merlino che parola per parola dichiara che non essendo disponibile l’eroico Link (catturato da Ganon), dovrà accontentarsi di una “fanciulla coraggiosa” ad oggi non capiamo se sia una battuta fortemente insensibile o un atto di autocritica che sfonda la quarta parete ricordandoci che se i tre giochi sono noti come la “Unholy Trilogy” è anche per essersi ridotti a truccare una segretaria come cosplay di Wish di Clarisse la Duchessa di Cagliostro nel film di Lupin III diretto e sceneggiato da Miyazaki.
Non andò meglio con “Hotel Mario”, miglior gioco per vendite della console (il che dice tutto) ambientato in una serie di resort posseduti dal malvagio Bowser tra improbabili giochi di parole (come un hotel sempre in blackout a causa di una “stanza di tostapane che tostano toast”), animazioni a livello di scarabocchi infantili e un gameplay legnoso e sottotono.
Il CD-i, concetto troppo avveniristico, fallì come console, come computer e come elettrodomestico: trionfò come fabbrica assoluta del meme.
Apple Bandai Pippin: quando anche Apple fallisce
Il Pippin fu il tentativo di Apple di entrare nel mondo delle Console di Quinta Generazione, per competere direttamente con la PlayStation. Nasceva sotto le stelle migliori: il colosso informatico Apple e il titano dell’intrattenimento Bandai, proprietario di marchi come Gundam, di diversi giochi arcade e, successivamente al Pippin, del rivale Giapponese del GameBoy Advance il WonderSwan.
Il Pippin era di fatto un Power Mac reimpacchettato in forma di console. Nella pratica però divenne uno tra i venticinque peggiori prodotti informatici di ogni tempo.
Non lo salvò una piattaforma online per giochi e online (non salvò lo Zeebo, figurarsi il Pippin), non lo salvò un controller di forma estrosa, cosa che avrà successo solo parzialmente e solo col Wii Nintendo.
Non lo salvò l’accesso alle proprietà intellettuali di Bandai: con una ventina scarsa di giochi non vai lontano, anche se tra quei giochi ti ritrovi titoli ispirati a Gundam e Dragonball Z.
Il Pippin non riuscì a competere con la PlayStation, e quando fu venduto come “set top box” per l’accesso ad Internet non riuscì a comptere coi computer.
Durò sugli scaffali per due anni, poi sparì mestamente.
Brutti ma per scelta: le “console carcerarie Americane”
La tecnologia carceraria in America ha creato un suo piccolo ecosistema. Non puoi dare ad un prigioniero una PlayStation 5, una console moderna o un dispositivo connesso ad Internet, renderebbe il concetto stesso di detenzione quantomeno assurdo.
Non potresti dargli neppure una TV e una Radio, eppure in America gliene vengono date di trasparenti.
Il motivo è evidente: una TV normale può essere smontata per nascondere droga e armi improprie, una TV e una radio trasparenti sono a prova di manomissioni, e i loro altoparlanti vengono rimossi o limitati per evitare che i prigonieri litighino per il volume o usino l’audio per coprire qualcosa che andrebbe nascosto.
Lo stesso meccanismo si applica alle console: un prigioniero americano può comprare una ClearTunes HG-501 o il modello perfezionato HG-503.
Miniconsole a batterie, con precaricati giochi originali dell’orientale JungleTac, versioni reimmaginate di giochi classici perché ai prigionieri non si applicano le libertà di “stiracchiare” le norme che consentono ad un uomo libero di comprare ad esempio un Miyoo Mini Plus e trovarci copie pirata delle cartucce di Pokemon per il GameBoy Color, Sonic per il Master System ed il Mega Drive e il celebre “clone Russo-Cinese Somario”, ibrido tra Sonic e Mario.
Quindi se io, libero cittadino, volendo potrei andare al mercatino rionale e violare diverse proprietà intellettuali Nintendo comprando un Sup! 400-in-1 per una somma variabile dai 5 ai 9 euro con 200 giochi circa ripetuti più volte tra quelli per NES, al carcerato americano non è consentito neppure questo piccolo lusso e deve accontentarsi di giochini imitazione su una console qualitativamente affine al Sup!, compreso un cavetto sottile come i capelli di un’odalisca vergine per collegarlo ai desueti ingressi videocompositi della TV carceraria e avere qualcosa di più grande del monitorino incorporato (o continuare a giocare se gli è caduta la console per terra rompendolo), almeno finché il sottile filo di rame non si spezza interropendo il contatto.
E forse questo è parte della pena.
Il che ci porta all’incubo di molti.
Menzione di onore tutta italiana, la PolyStation: dalla Cina con Shanzhai
Shanzai è un termine cinese veramente intraducibile. Nel senso che il significato letterale è del tutto diverso dal significato reale, e se il buon giorno si vede dal mattino, capirete in quale disastro ferroviario ci stiamo incastrando.
La parola Shanzai deriva dal romanzo cinese “I briganti o le Paludi del Monte Liang”, e descrive un accampamento montano. Accampamento che nella storia è il luogo di ritrovo di 108 spietati briganti, spietati ma non crudeli, degli antichi “Robin Hood” che combattevano senza sosta contro il Governo corrotto senza chiedere nulla in cambio che l’onore e il benessere del popolo.
Gli “shanzai” per l’effetto sono quei tarocchi così brutalmente evidenti come tali da essere percepiti come una rivolta verso il capitalismo stesso: desideri un oggetto del desiderio? Un abusivo ti mostrerà qualcosa di così assurdo che, desiderandolo solo di riflesso, rifletterai sulla vanità del capitalismo stesso e ti sentirai prima preso in giro e poi divertito.
Un paio di scarpe “abibas” o “mike” ti faranno vergognare di giravi per strada, ma potresti usarle sulla spiaggia. I “finti iPhone”, ovvero Android phone truccati con qualche telecamera finta incollata sul retro ti stimoleranno a riflettere sul fatto che c’è chi attacca finte fotocamere adesive sul retro del suo dispositivo per farlo sembrare più nuovo.
La Polystation è lo Shanzai più famoso del pianeta.
Intorno agli anni ’90 con l’arrivo della PlayStation arrivarono le prime PolyStation. Aggiornate periodicamente, ad esempio nel 2000, quando SONY aveva deciso di vendere una versione “compatta” della PlayStation originale come alternativa economica alla PlayStation 2 la PSOne.
Un FamiClone, ovvero un clone hardware del Nintendo NES imballato in un case costruito a imitazione quasi perfetta della PSOne oggetto del desiderio.
L’anonimo autore non aveva inventato niente di nuovo: come visto col Dendy cloni del NES e del FamiCom sono sempre esistiti, e l’unica aggiunta era la sfacciata componente Shanzai.
Spot anche Italiani magnificarono le qualità della PolyStation, riassumibili nel basso costo e nelle cartucce “4000 giochi in uno” tipiche dei cloni precedenti come il citato Dendy.
Ovviamente parliamo di spot sulle emittenti locali, essendo la PolyStation materia di mercatini come il citato Sup 400in1.
E parliamo di cartucce plurime con miscugli di titoli NES vintage e NES vintage taroccati come un “Master Fighter” che ovviamente era Street Fighter ri-ri-ritradotto, Duck Hunt e Super Mario, il tutto ripetuto diverse volte per dare l’illusione di una libreria giochi più vasta di quella totale dello stesso FamiCom.
Lo slot cartuccia era, naturalmente, occultato al di sotto del finto vano CD, tanto per deludere il ragazzino che dopo aver chiesto al nonno poco pratico la PlayStation si trovava una console di terza generazione fuori tempo massimo tarocca.
Qualcuno provò senza successo a registrare il marchio “PolyStation”, aggiungendo alla tragedia la farsa. Ma per anni la PolyStation fu la responsabile di pianti a dirotto sotto l’albero, e tutt’ora per gli occidentali è quello che è il Dendy per i Russi: il simbolo stesso del “NES tarocco”.
Le origini di console di Terza Generazione clonata rendevano l’esperienza di gioco ancora più assurda: tecnicamente la PolyStation era compatibile con le cartucce originali del NES, ma NES e FamiCom differivano per il numero di Pin usati, richiedendo un adattatore e alcune PolyStation usavano il formato Giapponese, più difficile da reperire.
Inoltre come abbiamo avuto modo di vedere in passato giochi come Duck Hunt e tutti quelli con la Light Gun richiedevano una TV a Tubo Catodico, e dal 2000 in poi si diffusero invece le TV LCD.
Ad oggi la PolyStation è un’icona del Trash mondiale.
Conclusione
L’elenco non pretende di essere esaustivo: abbiamo infatti saltato casi di bruttezza percepita come il Soulja Game Console, ovvero semplici console da emulazione Anbernic rimarchiate dando l’illusione di un prodotto innovativo che di fatto avresti potuto comprare altrove e con un marchio meno noto (almeno all’epoca, adesso Anbernic è un marchio rispettato nel mondo dell’emulazione) rispetto al nome di grido del rapper Soulja Boy che aveva lanciato l’iniziativa e altri casi moderni.
L’universo delle ciambelle senza buco è vasto e magmatico: spero che questo piccolo elenco vi abbia mostrato come non si vende una console.
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