Il ritornello preferito dagli operatori della disinformazione è il riferimento alla “stampa di regime”, quella che nasconde le prove delle ingiustizie, i veri dati su un determinato processo storico e via discorrendo. Se tu, lettore, pensi che questo motivetto sia peculiare di questo 2020-2021 dominato dalle notizie sulla pandemia potresti cadere in errore. Se hai memoria, ricorderai che anche negli anni delle bufale sui migranti chiunque subisse la ghigliottina della serrata di Facebook sui suoi profili pingui di fake news xenofobe, pubblicate con il preciso intento di spaventare i follower sulla presenza e l’arrivo di stranieri in Italia, lamentava in seguito una “censura di regime”. Il passo indietro, per questi soggetti, non è mai facile: è più semplice, piuttosto, passare per vittima del “pensiero unico” anziché ammettere che quella notizia fosse un falso, una bufala.
La semplificazione stuzzica la pancia, non di certo lo spirito critico. L’atteggiamento è quello del vittimismo, lo stesso operato da chi nega l’Olocausto che, dopo essersi trovato con gli occhi del mondo addosso che chiedeva spiegazioni sulle stragi nazifasciste, ha preferito dire che il genocidio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale fosse un’invenzione per creare un capro espiatorio. Facile, ma talmente debole e vigliacco da non reggere nemmeno con tanti sforzi.
Oggi, con un po’ di ritardo, parliamo dell’eccidio di Marzabotto, e non per ricostruirne le dinamiche. La strage ci serve per analizzare cosa accadde immediatamente dopo negli ambienti della stampa di regime, quella vera, quella nazifascista.
Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 la marcia della morte, dopo la strage di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto, continuò verso Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno alle pendici del Monte Sole in provincia di Bologna. Fautore di questa marcia era il feldmaresciallo Albert Kesselring che intendeva fermare le azioni della brigata Stella Rossa, gruppo partigiano che operava sulle montagne per sferrare attacchi strategici ai tedeschi e impediva, tra l’altro, l’arrivo dei rifornimenti al fronte.
Kesselring incaricò il maggiore Walter Reder della Panzeraufklärungsabteilung di condurre l’operazione. Era ovvio che stanare i partigiani della Stella Rossa sarebbe stato difficile se non impossibile, per questo Kesselring ordinò a Reder di sterminare i civili e di condurre una guerra, dunque, contro nemici disarmati. Così le SS e i soldati della Werhmacht si fecero guidare dai repubblichini – i fascisti, in sostanza – per accerchiare e rastrellare il territorio.
Senza entrare troppo nei dettagli, morirono 770 civili. I nazisti fecero strage di bambini, donne, anziani, e non ebbero pietà nemmeno delle donne incinte e dei sacerdoti – come don Ubaldo Marchioni – che tentarono di dare rifugio ai cittadini all’interno delle chiese. I tedeschi furono capaci di gettare bambini tra le fiamme e decapitare neonati strappati con violenza dalle braccia delle loro madri. 770 morti, dunque, fu il bollettino dopo 6 giorni di violenze feroci.
Nel blog Stoner, di proprietà di un nostro redattore, vengono ricostruiti fatti disturbanti, macabri, violenti e tutto ciò che appassiona gli amanti della cronaca nera. Tra gli articoli pubblicati c’è una ricostruzione di ciò che fece la stampa di regime dopo l’eccidio di Marzabotto.
L’11 ottobre 1944, dunque quasi una settimana dopo l’azione sanguinaria dei tedeschi a Marzabotto, Il Resto del Carlino dedicò all’episodio un trafiletto dal titolo Voci inconsistenti in cui sminuiva tutto ciò che si diceva su Monte Sole e sulla strage dei civili:
Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di una operazione di polizia contro una banda di fuorilegge, ben 150 tra donne, vecchi e bambini erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel Comune di Marzabotto.
Siamo in grado di smentire queste macabre voci e il fatto da esse propalato. Alla smentita ufficiale si aggiunge la constatazione compiuta durante un apposito sopralluogo. È vero che nella zona di Marzabotto è stata eseguita una operazione di polizia contro un nucleo di ribelli, il quale ha subito forti perdite anche nelle persone di pericolosi capibanda, ma fortunatamente non è affatto vero che il rastrellamento abbia prodotto la decimazione e il sacrificio nientemeno che di 150 elementi civili.
Siamo dunque di fronte a una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo, perché chiunque avesse voluto interpellare un qualsiasi onesto abitante di Marzabotto o quantomeno qualche persona reduce da quei luoghi avrebbe appreso l’autentica versione dei fatti.
Qualche anno dopo, specialmente dopo la Liberazione, la verità venne fuori. Nazario Sauro Onofri, giornalista ed ex partigiano, nel suo libro Marzabotto non dimentica Walter Reder (pp. 24-25), racconta dell’incontro con Giorgio Pini, direttore del Resto del Carlino nei giorni della strage. Onofri incalzò Pini per avere spiegazioni su quel trafiletto scritto con il preciso intento di sminuire la strage. Pini rispose: “Il contrasto tra quel comunicato e la realtà che si è saputa poi, è tale che la cosa mi mette a disagio”. Pini, infatti, raccontò di aver ricevuto informazioni da ambienti tedeschi che di certo non avrebbero mai riferito la vera entità del massacro.
Una stampa di regime fa proprio questo: cela l’evidenza, si dissocia e sminuisce, ma lo fa di fronte a situazioni di palese evidenza. Non è come la “stampa di regime” che molti dissidenti di oggi lamentano quando vogliono a tutti i costi che si parli di blocchi delle autostrade che non esistono, correlazioni tra morti e vaccini che non esistono, cadaveri nei container al porto di Trieste che non esistono.
La prova dell’eccidio di Marzabotto era in quei cadaveri ammassati all’interno del relitto delle abitazioni e dei casolari dati alle fiamme. Le prove di chi oggi grida alla “stampa di regime”, ancora una volta, non esistono, per questo è bene usare con parsimonia un’espressione così forte.
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