La macabra morte di Carla Gruber e la storia di Luciano Luberti, il boia di Albenga
La mia adorata diletta si trova morta in via Francesco Pallavicini 52. Nell’interno troverete un’arma da guerra con la quale non me la sono sentita di vendicare e di colpire il responsabile del suicidio della mia donna. Fate attenzione e prendete le vostre precauzioni perché il corpo si trova in stato di avanzata putrefazione. Qualche ora dopo che avrete ricevuto questa lettera sarò espatriato.
Il 3 aprile 1970 alla Procura della Repubblica rileggono più volte il nome del mittente. Suona sinistro, e quella carta odora di morte. Di morte, infatti, è vissuto quell’uomo che quel giorno recapita in quegli uffici una missiva di poche parole, ma forti abbastanza da mobilitare la polizia e i vigili del fuoco verso quell’indirizzo.
Al civico 52 di via Pallavicini, nel quartiere Portuense di Roma, un cancello delimita il confine tra gli appartamenti e la strada. L’abitazione indicata è chiusa a chiave e per entrare è necessario sfondare la porta. Quando gli agenti infilano l’uscio fanno qualche passo indietro. Qualcuno di loro, probabilmente, si dimostra incapace di sopportare quel lezzo e preferisce uscire.
Nel 1898 lo scrittore Henry James pubblica il racconto Il Giro di Vite all’interno della raccolta Two Magics. Una storia di fantasmi che, per molti aspetti, viene collocata nel genere gotico. Nel 1961 il regista Jack Clayton ne trae un film dal titolo Suspense (The Innocents) con l’attrice Deborah Kerr nel ruolo di Miss Giddens. All’inizio di quel film un bambino intona O Willow Waly, un brano inquietante inciso da Isla Cameron. Ascoltiamo questa canzone, ora, mentre ci approssimiamo alla macabra scoperta.
Amore
Un’altra porta separa gli agenti e i vigili del fuoco da quello che la lettera ricevuta dalla Procura della Repubblica di Roma indica come il luogo in cui si trova l’amata diletta del mittente. I poliziotti irrompono e di fronte a loro c’è una donna.
È morta, quella donna. Il suo cadavere giace in quella stanza, su quel letto, ed è circondato da fiori secchi e boccette di lisoformio. Ci sono anche delle bacinelle che contengono deodorante. Le carni in decomposizione sono semi nascoste da un baby doll e sul cuscino, vistosa, c’è una c’è una macchia di sangue. Un proiettile 7.65 è ancora lì, come un suggello di una tragica fine.
La porta era sigillata per tamponare l’odore della putrefazione. Quella missiva diceva la verità. Il cadavere riposa in quella grande tomba dal 18 gennaio. È il 3 aprile, sono passati 3 mesi. Sulla porta di quel sepolcro gli agenti trovano un altro biglietto.
Chiudo la porta il 20 gennaio alle ore 16. Che potevo fare di meglio se non amarti sino alla fine dei tuoi giorni, mia diletta Regina? Dammi il tempo di compiere tutto il resto come mi hai ordinato.
L’autore di quel biglietto è lo stesso della lettera recapitata in Procura. Si tratta di Luciano Luberti. La sua “diletta Regina” è Carla Gruber, 32 anni. Lui è un ex collaboratore delle SS, conosciuto come il “boia di Albenga”. Lui stesso ammetterà, qualche anno dopo, di avere sulle spalle circa 200 esecuzioni tra partigiani e civili.
Carla Gruber
Carla Gruber e Luciano Luberti si incontrano per la prima volta nell’ufficio di lui. Lei è una profuga istriana e proprio per questo vive nei pressi del quartiere Giuliano Dalmata. Sta cercando lavoro, Carla, e Luciano cerca una segretaria. L’Organizzazione Editoriale Luberti è la nuova attività del Boia di Albenga, che dal 1953 è un uomo libero dopo esser scampato alla condanna a morte per i suoi crimini di guerra.
Dal loro incontro nasce una passione malata. Entrambi sposati, iniziano una relazione fatta di sesso violento e follia. Insieme vanno a convivere ad Ostia prima e nel quartiere Portuense poi.
Nel 1969 Carla si fa ricoverare all’ospedale di Montefiascone per guarire dalla tubercolosi e lì, durante i due mesi di degenza, scopre una passione per il professor Mario Muzzolini.
Pochi mesi dopo Carla Gruber muore con una dose massiccia del barbiturico Luminal in corpo e un colpo di arma da fuoco nel petto. No, non è stata la gelosia. I tradimenti di Carla Gruber sono sempre stati una parziale normalità. Il 20 gennaio 1970, come lo stesso Luciano Luberti scrive nel biglietto lasciato nella stanza, inizia la fuga del Boia di Albenga.
La cattura
Il 10 luglio 1972 le forze dell’ordine, grazie a una soffiata, fanno irruzione in un appartamento a Portici. Li accoglie una pioggia di proiettili e la voce alterata di un uomo che canta canzoni naziste e grida: “Amore per la morte!”. Lì si nasconde il Boia di Albenga. Intorno a lui un vero e proprio arsenale.
Fino a quel momento Luciano Luberti ha punzecchiato i giornali dicendo che Carla Gruber si è suicidata, spogliandosi dall’accusa di essere il suo assassino. Lo ha fatto con lunghe lettere, immagini e messaggi deliranti. Anche sua figlia Luciana Corinna Luberti, diversi anni dopo, sosterrà la sua innocenza.
Dopo due ore Luberti si arrende e viene trasferito a Poggioreale. Nel 1975, al processo, nega costantemente di essere l’assassino di Carla Gruber continuando a sostenere che la sua amante si sia suicidata. Nel 1976 viene condannato a ventidue anni di reclusione, ma una perizia psichiatrica del 1979 gli fa ottenere la seminfermità mentale. Nel 1981 il Boia di Albenga è di nuovo un uomo libero e si trasferisce a Padova, dalle sue figlie, dove morirà nel 2002.
Quella di Luciano Luberti è una storia di coperture dagli ambienti dell’estrema destra. Del resto il Boia di Albenga, dopo aver torturato civili e partigiani quando collaborava con le SS, si era fatto qualche amico. Il suo nome roteava anche intorno alla strage di Piazza Fontana e, si diceva, Carla Gruber forse sapeva qualcosa e per questo doveva essere eliminata.
Lui insisteva con il suicidio, ma la mano che avrebbe dovuto impugnare la pistola si trovava sotto il cuscino e Carla aveva assunto il barbiturico prima del colpo mortale.
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