La Limousine delle Console anni ’80 nasce dalla pelletteria: parliamo del ColecoVision. Il soprannome che sembra pretenzioso non lo è: concordiamo con l’analisi che nel 2020 ormai lontano ne fece Alex di SalaGiochi80.
ColecoVision fu una delle console più performanti della sua epoca. Per consentirci un paragone, se non la PS5 almeno lo SteamDeck della sua epoca, surclassando anche il più diffuso Atari VCS.
Cose che al momento non vi diranno niente: del resto il giocatore Italiano medio vive in un derby a due tra Sony e Nintendo escludendo la console di Valve dal suo orizzonte. Come all’epoca Co.Le.Co. mise sul mercato una bomba di console di stralusso in un mondo dove “Atari” era sinonimo di Console. E riuscì a sfondare.
Dovremmo però partire da lontano. Da molto lontano.
The Connecticut Leather Company ha una storia affine a quella di un titano dell’industria videoludica, Nintendo. Ma una storia che prende una derivazione ancora più remota.
Laddove Nintendo nacque nel 1889 come “Nintendo Koppai”, produttrice di carte da gioco (Nintendo significa “Lasciare la sorte al cielo”: in breve, giocare d’azzardo), Connecticut Leather Company nacque nel 1932 come produttrice di ricambi per scarpe (suole, stringhe, occhielli…) per poi mettersi “in proprio” e cominciare ad assemblare calzature intere.
Giusto in tempo perché la seconda Guerra Mondiale causasse un incremento della domanda interna da destinarsi ai militari. The Connecticut Leather Company potè così permettersi di espandersi nel settore di produzione di scarpe, stivali, arnesi per la cura delle scarpe e cappelli, tutti beni necessari ai militari all’estero.
Leonard Greenberg, figlio del fondatore e imprenditore di seconda generazione, si imbatté per caso e abilità in un nuovo mercato: negli anni ’50, finita la guerra, ebbe l’ottima notizia che un kit per la lavorazione del pellame aveva vinto un premio come giocattolo educativo alla Fiera del Giocattolo di New York.
Ebbe così l’illuminazione: il futuro del commercio era nel gioco: finiti gli orrori del Secondo Conflitto Mondiale, c’era una generazione pronta a mettere su famiglia e bambini da educare, istruire e divertire.
The Connecticut Leather Company divenne così Coleco Industries, e cominciò a dismettere il settore-padre del pellame investendo tutto in una nuova tecnologia: i giocattoli in plastica formata sottovuoto, per poi espandersi nel mercato del vinile e dei giochi da spiaggia gonfiabili.
Tra un netto trend di crescita e qualche passo falso, Coleco scoprì, come molti, il mondo dei videogames.
Siamo così arrivati nel 1972, e Atari produce la prima console di massa, Pong, creando una serie di cloni. Coleco entra nell’agone tre anni dopo. Nel 1975 il Coleco Telstar è pronto, nel 1976 può arrivare sugli scaffali.
Le differenze tra il Telstar e gli altri cloni di Pong raffigurano la storia di Coleco: senza dimenticarsi di essere nata come ditta di giochi educativi, Coleco vende il Telstar non come una console di prima generazione e basta, ma come un kit da montare.
Ovviamente non si poteva immaginarsi il ragazzino medio con saldatore e cacciaviti come uno Steve Jobs alle prese con l’Apple I: il Telstar arrivava come una mainboard già pronta, in un case privo di adesivi e manopole. I ragazzini avrebbero dovuto mettere assieme tutti gli elementi, raggiungendo una “primitiva personalizzazione” e capendo le parti di cui era fatto il Telstar.
Con ovvio risparmio anche sul costo di produzione.
Il Telstar era inoltre costruito intorno al chip AY-3-8500, tipico di diversi cloni di quella generazione con sei giochi diversi ma assai simili tra loro: calcio, squash, ping pong e due varianti del tiro a segno più una modalità di attrazione del pubblico.
Alla fine tutto tornava a muovere una racchetta/rettangolo su uno schermo usando dei “paddles”, delle manopole.
Ma anche la Prima Generazione di Console arrivò alla fine, e con essa i grandi guadagni di Coleco. Coleco aveva solo una scelta: adattarsi o perire.
La prima generazione di console era morta, i Telstar invenduti venivano rottamati (oggi hanno un grande valore collezionistico, come tutta la “bolla del Retro”, spesso a prezzi artificialmente gonfiati).
Nel 1981 il costo delle memorie RAM cominciava a scendere, la Seconda Generazione di console aveva il vento in poppa (vedi Atari VCS) e il costo diminuito della produzione consentì a Coleco di progettare una piattaforma che avesse lo Zilog 80 al suo centro, sufficiente memoria per un caricamento fluido e una grafica superiore a quella della concorrenza.
E, soprattutto, una rete di accordi commerciali.
Nonché Mario Mario, l’idraulico più famoso del cinema moderno e dei videogiochi di sempre, simbolo della Nintendo ma non solo.
Eric Bromley, ingegnere e ricercatore per Coleco, si rese conto che ora poteva permettersi di creare la limousine delle Console, ma doveva portarci programmi.
I giochi più belli dell’epoca erano ovviamente quelli per sale giochi.
Solo una sala giochi aveva le disponibilità economiche per permettersi piattaforme altamente specializzate, dedicate ad un singolo gioco ma fatto bene, mentre il videogame domestico su cartuccia muoveva i primi passi, ma era generalmente considerato inferiore all’esperienza “arcade”.
Bromley volò così in Giappone, allo scooo di ottenere da Hiroshi Yamauchi, presidente Nintendo, i diritti per la diffusione di Donkey Kong, gioco famoso per aver introdotto al mondo il personaggio di “Jumpman”, l’idraulico baffuto che sarebbe diventato Mario.
Non fu una negoziazione facile: Bromley ha sempre raccontato che Yamauchi era un abile negoziatore, in grado di usare tutti i trucchi del mestiere compreso far finta di non capire l’inglese per controllare il traffico della discussione.
Ulteriori complicazioni si ebbero quando al Consumers Electronics Show Bromley scoprì che i diritti di Donkey Kong sarebbero finiti invece alla rivale Atari: poco professionalmente forse ma in modo efficace, Bromley telefonò due volte alle 11 di sera ora locale alla figlia di Yamaguchi chiedendole di buttare giù il padre dal letto e trascinarlo al telefono per farsi dire quanto importante era Donkey Kong per Coleco e quanto la superiorità del ColecoVision sull’Atari VCS avrebbe reso Donkey Kong un’esclusiva migliore sul prodotto Coleco che non sulla concorrenza.
Al termine della seconda chiamata, Yoko Yamaguchi anziché chiudere il telefono in faccia a Bromley come nella prima gli chiese di arrivare “entro quindici minuti”, perorando la causa di Coleco col padre.
Alla fine Coleco ebbe il ColecoVision, ed ebbe Donkey Kong come gioco esclusivo al lancio. Atari ci arriverà solo un anno dopo.
Il ColecoVision nacque così sotto i migliori auspici. La “Limousine delle console” arrivava con un processore Z80A a 3,58 MHz, 8K RAM, 16K Video RAM, risoluzione video di 256×192 pixel con 16 colori e 32 sprites contemporaneamente, tre canali di suono più un canale di rumore e cartucce ROM da 8, 16, 24 o 32K.
Per capirci, il blasonato Commodore 64 aveva un processore 6510 (derivazione custom del 6502) a 1Mhz, l’Atari VCS 2600 audio mono a doppio canale e video a 128 colori (128 su schermo, massimo 4 per linea).
Ma non solo aveva un hardware di eccellenza ed esclusive da sala giochi: il ColecoVision aveva da sua l’estrema espandibilità. Il punto di vendita forte del ColecoVision era la possibilità di usare non uno, ma tre “moduli di espansione”.
Il Modulo di espansione 1 era di fatto un clone del rivale Atari VCS costruito con parti reperibili sul mercato, riproduzioni dell’unico chip custom (il TIA, il chip grafico) che prendeva alimentazione e clock dal ColecoVision. Atari cercò di impedirne la vendita per vie giudiziarie, fallendo. Nonostante il Modulo #1 di fatto dava al ColecoVision la più vasta gamma di giochi esistita all’epoca rendendolo compatibile con tutte le esclusive Coleco più i giochi usciti per Atari VCS, come vedremo questa fu una delle cause del crollo del mercato delle console negli anni ’80.
Il Modulo di espansione 2 in realtà non era un modulo di espansione, ma un controller con volante. Uno dei primi per l’uso domestico: ovviamente un Paddle attaccato ad un volante dalla forma realistica ed un bottoncino al posto dell’acceleratore. Premevi l’acceleratore e quello schiacciava sul bottone, senza riconoscere la differenza di pressione. Nonostante questo, il fascino di giochi come la versione videoludica del telefilm Hazzard aveva il suo fascino da sala giochi.
Il Modulo di espansione 3 fu il tentativo di competere con chi un giorno molto vicino avrebbe distrutto il mercato delle console: la Commodore del VIC-20 e il Commodore 64, consentendo di “convertire” il ColecoVision nel Coleco Adam, computer della compagnia integrando le parti mancanti. Un computer potente ma ancora primitivo: insufficiente schermatura significava dover sopportare un adesivo che ti imponeva di non lasciare floppy disk nel drive all’accensione perché si sarebbero smagnetizzati, e gli Adam completi ebbero problemi di qualità.
Oltre una serie di controller e accessori di ogni tipo.
Non è nostra intenzione riassumere in un articolo già diventato ben più lungo di quanto intendessimo la fine di ColecoVision. Che arrivò col Grande Crash delle Console degli anni ’80.
Ricorderete come Atari non era riuscita a fermare la vendita del Modulo di Espansione 1.
Allo stesso modo Atari aveva affidato ai soli tribunali, fallendo, la difesa delle sue esclusive. In breve tempo la seconda generazione di Console si ritrovò inondata di giochi scadenti venduti in conto vendita presso i negozi, perlopiù mirati sulle console Atari e Intellivision.
A questo si aggiunsero una lunga serie di fattori, già esaminati nel nostro articolo sul SOL20 e la nascita dei microcomputer per uso domestico: il mercato videoludico si trovò presto inflazionato, in cerca di idee che semplicemente non arrivavano e costretto a inseguire la chimera del “gioco tratto da film e telefilm di grido entro Natale”.
Aggiungendo a questo l’aggressiva campagna di concorrenti come Commodore ed Apple, il cui punto di forza era esattamente quello che un tempo appparteneva a Coleco, ovvero il computer domestico come mezzo di educazione oltre che di gioco contrapposto alle console come solo mezzo videoludico dalla qualità altalenante, il mercato Americano divenne ostile per le console e favorevole ai computer.
Coleco incassò il fiasco dell’Adam e si rese conto che il tempo del ColecoVision era finito: tornò al mercato dei giochi in plastica popolarizzando I bamboli del Campo Incantato (Cabbage Patch Kids), iconiche bamboline vendute a generazioni di bambine americane e non solo con veri e propri “certificati di adozione” ed una loro storia, parodiata dagli Sgorbions (Garbage Pail Kids), la loro versione politicamente scorretta per i maschietti venduta sottoforma di carte collezionabili con bambini mostruosi, maleducati e rozzi.
Quando Nintendo decise che i tempi erano maturi per entrare nel mercato delle console col Famicom (il “Family Computer” diventato poi in occidente il NES, Nintendo Entertainment System) fu proprio al ColecoVision che guardò, in termini di prestazioni e accessori, altresì inaugurando il modello commerciale Coleco di lanciare una nuova console con esclusive forti al lancio.
Il ColecoVision è stato la dodicesima miglior console di ogni tempo, unendo caratteristiche tecniche e commerciali di pregio in un prodotto lussuoso ed esclusivo.
Al contrario di Quaker Oats, ditta di cereali che entrò nel mercato videoludico con giochi di infima qualità che contribuirono a vilificare il mercato del gioco su cartuccia, Coleco riuscì a saltare dal mercato della pelletteria al mercato del gioco e del videogioco con un forte successo.
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