La leggenda metropolitana della matita dei cosmonauti contro la biro americana
Uno dei miti che avrete sentito più spesso è la storiella/apologo della matita dei cosmonauti. Storia onnipresente che contrappone, come ultimo residuo della Guerra Fredda, la potente macchina della ricerca Americana a quella forse più scalcinata ma pragmatica macchina sovietica.
L’apologo recita così:
Si racconta che la NASA, alle prese col problema di scrivere nello spazio in assenza di peso, abbia speso milioni di dollari per realizzare una biro col serbatoio d’inchiostro pressurizzato. Senza la pressurizzazione e senza la gravità a farlo scendere, infatti, l’inchiostro non scorreva verso la punta e quindi la biro non scriveva.
Gli ingegneri sovietici, dovendo risolvere lo stesso problema, usarono la loro proverbiale semplicità.
Diedero ai cosmonauti una matita.
Storia intrigante, divertente, ma del tutto falsa.
La leggenda metropolitana della matita dei cosmonauti contro la biro americana
L’aneddoto comincia ad apparire intorno al 2000 come “bufala da mailing list” attribuita al “Moscow Times”, diventando presto una credenza radicata. La sua morale da post-Guerra Fredda divenne presto altro, ovvero una specie di apologo su come spesso ci siano soluzioni economiche, pragmatiche e low tech che risolviamo con spese e impegno maggiori, e soluzioni tecnologicamente avanzate ma eccessive.
Ma in alcuni casi semplicemente le soluzioni tecniche sono le uniche praticabili.
Come spiegò il cosmonauta sovietico Anatoly Solovyev
“pencil lead breaks…and is not good in space capsule; very dangerous to have metal lead particles in zero gravity”
“le mine delle matite si spezzano… questo non è bene in una capsula spaziale; è assai pericoloso avere particelle di mina a gravità zero”
Dopo l’incendio nel programma Apollo 1 nel 1967 gli USA avevano cercato di evitare infatti di portare materiali infiammabili, e sia i Russi che gli Americani sapevano quanto fosse fastidiosa una matita. Le mine si spezzano, la grafite va in giro e se vuoi evitare di avere rifiuti infiammabili, trucioli di legno e pezzetti di mina sono esattamente quello che nessuno vuole.
Paul C. Fisher della Fisher Pen Co., vide in tutto questo un’opportunità: alcune versioni della bufala parlano di migliaia se non milioni di dollari spesi dagli americani: Fisher invece si presentò dalla NASA col suo prodottino, la Space Pen AG-7, penna dalle cartucce pressurizzate in grado di scrivere in ogni condizione e dalla durata maggiore delle penne a sfera convenzionali, proponendone l’acquisto a normali prezzi d’appalto.
L’operazione portò vantaggi ad entrambe le parti: la NASA ebbe un buon fornitore di penne a prezzo di mercato, Fisher ebbe un eccellente traino promozionale per il suo prodotto che se forse avrebbe già venduto molto come “Penna Pressurizzata Fisher” come “Penna Spaziale Fisher” divenne un simbolo di lusso accessibile per molti.
Puoi comprare ancora oggi a dodici dollari circa una “Penna Spaziale”, a 7 una ricarica e per meno una penna usa e getta con la distinzione di poter dire “queste penne le ha scelte la NASA”, oppure salire un po’ di prezzo per prodotti più esteticamente gradevoli “dalla ditta andata nello spazio”, fino ad avere a 130 Euro un modello commemorativo dall’aspetto e dall’heritage (la storia e il brand) pregevoli.
Per lo stesso motivo per cui per una ventina di euro puoi comprare una stilografica LAMY Safari, nata per gli scolari che volevano imparare la calligrafia ma diventata la penna del magnate e supereroe Tony Stark in Iron Man.
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