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Il gioco della sedia nella politica estera turca

Dopo anni che hanno segnato molteplici eventi di tensione con la Turchia e altrettanti tentativi di riavvicinamento, il 6 aprile la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen e il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel si sono recati in visita ufficiale ad Ankara, per affrontare nuovamente i termini di dialogo con il presidente Erdoğan, tentando così di inaugurare una nuova stagione di cooperazione.

L’incontro si è reso celebre però a causa della sedia mancante che ha costretto la Von der Leyen ad accomodarsi sul divano, mentre il collega Michel si è sistemato accanto al presidente turco. Lo scandalo #sofagate è stato protagonista dei notiziari di tutto il mondo, alimentando un vero e proprio incidente diplomatico. Ma si è veramente trattato di un incidente? Proviamo a ripercorrere insieme gli eventi che hanno portato all’allontanamento tra Ue e Turchia e alla necessità di intraprendere la strada per un riavvicinamento.

L’interesse turco per l’Europa non è mai stato un segreto. Dalla richiesta di adesione all’Unione, all’inizio dei negoziati nel 2005 sono passati quasi 20 anni. Nonostante l’enlargement sia considerato un perno centrale nelle politiche europee, nel caso della Turchia il processo è sempre proceduto a rilento, fino a un congelamento a seguito delle risoluzioni più volte votate dal Parlamento Europeo per interrompere i negoziati. Il prerequisito fondamentale per far parte dell’Ue è il soddisfacimento dei criteri di Copenaghen: oltre a un’economia di mercato funzionante e l’assunzione degli obblighi risultanti dall’adesione, il paese interessato deve assicurare la stabilità delle proprie istituzioni democratiche, le quali siano garanti del rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze.

Di fatto, la Turchia… stato libero no, democratico ni. Da quando Erdoğan è salito al potere nel 2003, benvoluto da pressoché tutti i leader occidentali per la sua parvenza moderata e riformatrice, le cose sono cambiate molto. Durante gli anni ha fatto sì che tutti i poteri venissero accentrati nelle sue mani, esercitando un forte controllo su esercito, economia, fino alla giustizia, espellendo l’ala più liberale del suo partito e reprimendo il dissenso delle opposizioni. Allo stesso modo i media sono filogovernativi, le attività di Google e Facebook sono ridotte, e viene promossa una islamizzazione radicale. Le elezioni rappresentano l’unica forma di democrazia rimasta nel Paese, sebbene siano solo di facciata, dato che viene liberamente indetto un secondo round se i risultati non sono quelli desiderati. Il tentativo di colpo di stato del 2016 ha offerto poi l’occasione per aumentare la morsa sulle istituzioni democratiche ed attuare una stretta autoritaria nel Paese, con più pesanti repressioni.

In questa occasione la Turchia si è sentita isolata perché gli “alleati” occidentali non hanno appoggiato il governo di Erdoğan come questi si aspettava, anzi lo hanno fatto sospettare che avrebbero gioito della sua deposizione. Ma non è l’unico motivo che ha portato al raffreddamento delle relazioni. L’Europa ha più volte espresso la sua preoccupazione in merito al dossier turco per quanto riguarda l’ingerenza militare in Siria, la questione irrisolta sulla sovranità dell’isola di Cipro, la reintroduzione della pena di morte, le attività illegali di esplorazione del sottosuolo per la ricerca di idrocarburi nel Mediterraneo Orientale, l’invasione dello spazio aereo e marittimo ai danni della Grecia, l’intervento nella crisi libica e la compravendita di sistemi missilistici russi, da cui è derivata l’azione sanzionatoria della NATO verso Ankara, membro della stessa organizzazione.

Ultimo ma non meno importante, l’abbandono della Convenzione di Istanbul lo scorso 20 marzo, di cui nel 2011 la Turchia era stata uno dei primi firmatari. Il protocollo entrato in vigore nel 2014 è il primo trattato internazionale vincolante per garantire un’uguaglianza di diritti tra i sessi, prevenire e combattere la violenza sulle donne, imponendo ai governi di adottare un quadro normativo più stringente per la persecuzione di abusi e violenza domestica, nonché stupro e mutilazioni genitali femminili. Venendo incontro alle richieste del clero conservatore, le autorità turche hanno giustificato la loro decisione con la convinzione che il trattato danneggiasse la famiglia tradizionale incoraggiando il divorzio e fornisse elementi di possibile strumentalizzazione da parte della comunità LGBT.

Ciò si ricollega benissimo allo scandalo del divano. Attraverso questo atto di violenza tacita – per altro accompagnato dal non agire di Michel- nei confronti della Von der Leyen in quanto donna e in quanto rappresentante della massima istituzione europea promotrice dei diritti umani e delle donne, il presidente turco dimostra al mondo che non ha paura del gigante europeo e ci ricorda che il sessismo esiste anche tra le più alte cariche della politica. Se molti hanno condannato il trattamento riservato alla presidente della Commissione, il neo-nominato Draghi non si è fatto problemi ad appellare Erdoğan “dittatore” mandando in fumo il lungo lavoro diplomatico intrapreso per ammorbidire i rapporti con Ankara. Un dittatore sì, ma un dittatore di cui, tuttavia, si ha bisogno. Anche questa volta si correrà ai ripari, le dichiarazioni verranno ritirate e si chiederà scusa per aver dato voce a quello che è un pensiero condiviso. Perché gli interessi politici ed economici risultano essere, ancora una volta, predominanti rispetto alle ripetute violazioni dei diritti umani.

La visita delle due massime cariche europee in Turchia è stata infatti altamente simbolica, perché ha sottolineato il grande valore geopolitico di Ankara nel Mediterraneo, soprattutto per quanto riguarda la condotta adottata verso i migranti. Se dal 2016 Erdoğan aveva accettato di farsi carico, dietro lauto compenso, del compito di bloccare la rotta balcanica attraverso cui milioni di rifugiati siriani – e non solo- erano entrati illegalmente in Europa, a febbraio 2020 ha minacciato di riaprire il confine turco accusando l’Ue di non avere mantenuto le promesse fatte. Di qui la necessità di riaprire un dialogo, da un lato perché l’Europa possa continuare a tenere sotto controllo gli ingressi illegali dei migranti nello spazio Schengen e smantellare le attività dei trafficanti di esseri umani, dall’altro perché la Turchia metta fine alle attività ostili condotte nel Mediterraneo e implementi le azioni necessarie volte all’affermazione di uno stato di diritto, avvicinandosi così al fine ultimo della liberalizzazione dei visti per l’Europa, il miglioramento dell’unione doganale già esistente e, chissà, l’ingresso nell’Unione.

Da questa analisi sembra dunque che sarebbe la Turchia a rimetterci di più da una chiusura dei rapporti con l’Europa, eppure l’Ue continua a negoziare, cercando al contempo di bilanciare la linea dura auspicata da Francia e Grecia, con la posizione più morbida di Italia, Germania e Spagna per mantenere un minimo di influenza.

L’idea dietro una qualsiasi partnership è che ognuna delle parti dell’accordo sia necessaria per l’altra, che ognuna possa beneficiare dal mutuo scambio di interessi, ma in questo caso sembra più un affare unilaterale. Se accettiamo le loro condizioni, non saranno magicamente riconoscenti e accetteranno di aderire al nostro sistema di regole e valori, ma proveranno piuttosto un senso di vittoria sulla grande e unita Europa ed avranno la prova che il loro comportamento in fin dei conti può essere accettabile, e non esiteranno a calcare ancora di più la mano in futuro.

Le posizioni sembrano ancora più inconciliabili dopo l’uscita dalla Convenzione di Istanbul. “Gender equality” è il quinto tra gli obiettivi dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e in tutta Europa i piani di gender equality sono praticamente obbligatori, che sia nella scuola, nel lavoro, nello sport, o nelle istituzioni governative. Stiamo combattendo da anni perché sia riconosciuta questa parità di diritti e non possiamo chiudere un occhio, o entrambi gli occhi, solo per proteggere degli interessi economico-politici. Sui diritti non si negozia. Nel 2021 questo tipo di comportamento non è accettabile, in aggiunta se perpetrato da un paese che pretende di essere considerato uno “stato di diritto” con cui si intrattengono negoziati per l’ingresso nell’Ue.

Non ci resta che aspettare un tempo indefinitamente lungo per vedere per chi questi accordi saranno fruttuosi e chi, invece, sarà la parte soccombente. Continueremo ad accennare un timido “ehm” come quello della presidente Von der Leyen accettando la riserva di una posizione di secondo piano, o sceglieremo di far sentire la nostra voce?

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