Il gergo di Internet ha un padre nobile. Ha una sua storia. E talune sue parole possono costarvi caro.
E parliamo della parola “bimbominkia”, nella sua formulazione originale “bimbominchia”. Crasi della parolaccia vernacolare “minchia” (fallo, nerchia, pene) e della parola di uso comune e dal significato ovvio “bimbo”.
A seconda del contesto (escludendi quindi i contesti chiaramente giocosi) bimbominkia è un peggiorativo di n00b, ovvero “nabbo”.
Laddove il nabbo è lo sprovveduto, utente spesso giovane (ma a volte no), platealmente ignaro dei codici di condotta e delle regole di un forum, il bimbominkia è la forma peggiore di esso.
Dicesi “bimbominkia” un utente spesso giovanissimo. Ragazzino viziato e sciocco, maleducato e poco colto, che porta nell’universo virtuale la stolida maleducazione cui è pervaso nella vita. Abbastanza viziato da potersi permettere tempo infinito sulla rete e denaro per primeggiare nei giochi “pay to win” (dove puoi comprare bonus con soldi veri), il bimbominkia è sostanzialmene il “bamboccio viziato 2.0”.
Una persona solitamente arrogante, che malpadroneggia il gergo “l337” (il miscuglio di inglese e termini tecnici) usato nella Rete, ma si illude di poterlo scimmiottare con anglicismi e maleducazione, ostentando la sua ricchezza e le presunte qualità di cui non dispone.
E, come per la parola “bamboccio” o “bamboccione”, la Cassazione ha dovuto pronunciarsi al riguardo.
Nel caso di specie, Cassazione Penale 12826/2022, assistiamo ad un incrocio di risse tipico della Rete di tutti i giorni, purtroppo.
All’indomani della morte dell’Orsa Daniza scatta una sarabanda di reciproche accuse e diffamazioni. Un utente della Rete viene condannato per aver offeso la memoria del Presidente del Consiglio Regionale, 60 mila euro di danni morali per aver definito “vigliacco” e “infame” dopo la sua morte, ricordando le sue posizioni sulla morte di Daniza.
Ma insulto tira insulto, una amica del Presidente del Consiglio Regionale viene condannata per aver definito l’utente, pubblicamente, un “bimbominkia”.
Dimostrando che, a prescindere dalle ragioni, non bisognerebbe mai passare dall’insulto ma dal far valere le proprie ragioni nelle sedi adeguate.
Ma l’analisi del Sole 24 si spinge oltre: scopriamo che la “sanguinosa ingiuria” nel gergo di Internet ha un padre nobile.
Dall’improbabile quanto epico e mitologico nome di “El Bandido Lord Phobos”, il cui castello virtuale, reliquia degli anni ’90 sulla Rete, è ancora online ad oggi.
Se le enciclopedie cartacee andassero ancora di moda, “El Bandido Lord Phobos” avrebbe guadagnato una voce in esse sorpassando a sinistra il bambino di Petaloso e incassando l’accertamento di una delle principali testate economiche e giuridiche della nazione.
La sua autobiografia lo definisce come un prodotto dell’era “eroica” della Rete, un Far West ormai irripetibile e senza regole che lo vede artista della flame, camper supremo (utente dei giochi di ruolo pronto a parcheggiare il suo sedere virtuale per ore nell’area di “spawn”, di prima apparizione degli avatar sulla mappa per dargli addosso…) e pronto a redarguire con autoconfessa e compiaciuta violenza verbale chi rende le sue gesta oggetto di discussione.
Proprio nel padroneggiare l’eristica virtuale chiamata “flame” come Arte, la ricostruzione del Sole 24 Ore attribuisce a Lord Phobos la creazione (o quantomeno la popolarizzazione nel gergo virtuale italiano) del termine oggetto di discussione.
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