Il disastro delle Ande del 1972, sopravvivere mangiando i morti
Il film La Società della Neve ha riacceso i riflettori sul disastro delle Ande. L’opera di J. A. Barona disponibile su Netflix è ispirata all’omonimo romanzo pubblicato da Pablo Vierci. Entrambi raccontano la storia drammatica dei sopravvissuti delle Ande, i superstiti dell’incidente aereo del 13 ottobre 1972 che resistettero 73 giorni all’interno della fusoliera, dispersi in mezzo alla neve delle montagne con scorte di cibo irrisorie. La temperatura, inoltre, scendeva spesso sotto lo zero. Dei 45 occupanti, solo 16 fecero ritorno a casa.
Il disastro delle Ande
Veniamo da un aereo che è caduto nelle montagne. Siamo uruguaiani. Stiamo camminando da dieci giorni. Abbiamo un amico ferito. Nell’aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?
Questo è il biglietto che il mandriano Sergio Catalán riceve da Fernando Parrado. I due non si conoscono e stanno comunicando da due sponde opposte del Rio Azufre. Accanto a Parrado c’è Roberto Canessa. È il 21 dicembre 1972. Parrado e Canessa sono sopravvissuti insieme ad altri 14 ragazzi a un disastro aereo che li costringe sulle Ande dal 13 ottobre. Sono passati 73 giorni. Debilitati, feriti, affamati, infreddoliti ed emaciati, hanno finalmente trovato la salvezza.
Questa storia ha inizio il 12 ottobre 1972. Parrado e Canessa sono due giocatori di rugby della Old Christians Club, squadra legata alla capitale dell’Uruguay Montevideo. I giocatori dovranno sfidare gli inglesi dell’Old Boys Club a Santiago, nel Cile. Il loro presidente Daniel Juan organizza la trasferta con un volo charter a bordo di un Fairchild FH-227D della Fuerza Aérea Uruguaya. Il velivolo può trasportare 45 persone, per cui vi salgono 40 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio. Si tratta di un aereo di proprietà dell’aeronautica militare uruguayana, che noleggia alcuni elementi della propria flotta per recuperare una disastrosa situazione finanziaria.
Arrivati in Argentina, il colonnello Julio César Ferradas e il suo copilota, il tenente Dante Héctor Lagurara, decidono di fare scalo a Mendoza per via delle condizioni meteo avverse. In quel tempo l’aviazione argentina non consente una sosta maggiore di 24 ore agli aerei stranieri, quindi Ferradas e Lagurara devono prendere una decisione. Ripartiranno l’indomani, 13 ottobre, alle 14:18.
Il velivolo ha una quota di tangenza di 8540 metri, e attraversare le Ande può essere pericoloso in diversi punti. Per questo i piloti scelgono l’aerovia che porta a Malargüe (ancora in territorio argentino) per poi sorvolare le Ande attraverso avvallamenti che creerebbero una certa distanza tra l’aereo e la catena montuosa e giungere sul passo Planchón fino a Curicó, per poi proseguire in direzione nord verso l’aeroporto di Santiago.
Quella rotta, inoltre, è coperta dal VOR (Very high frequency Omnidirectional Range), il sistema di radionavigazione. Il volo procede regolarmente fino alle 15:24, quando Lagurara comunica alla torre di controllo di Santiago di essere sopra Curicó, così l’equipaggio riceve le istruzioni per l’atterraggio. Il velivolo vira verso nord in posizione di discesa, ma si ritrova in mezzo a una fitta coltre di nubi e inghiottito da una turbolenza che gli fa perdere quota.
L’aereo si ritrova al di sotto dello strato di nuvole, e l’equipaggio si accorge di trovarsi ad una distanza pericolosa dalle rocce. Il volo dell’Old Christian Club è ancora in territorio argentino, tra Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca. Lagurara tenta disperatamente di far riprendere quota al velivolo, ma inutilmente.
L’aereo colpisce la montagna e perde entrambe le ali, poi la coda. La fusoliera precipita per 725 metri fino a fermarsi su un ghiacciaio. A 3657 metri di altezza ci sono dodici morti e 33 sopravvissuti, destinati a diventare 16. “Abbiamo superato Curicò”, ripeterà Lagurara prima di morire, ma non è vero. Sono nel territorio di Malargüe. Sono ancora in Argentina.
73 giorni
Dei 33 sopravvissuti, 5 muoiono durante la prima notte. A quell’altitudine e con quelle condizioni atmosferiche, la temperatura può scendere fino a -30 gradi. La fusoliera è esposta a tutte le intemperie, per questo i presenti improvvisano una barriera con le valigie e alcuni interni del velivolo. Roberto Canessa e Gustavo Zerbino sono due studenti di medicina, sprovvisti di strumenti utili ma con le necessarie conoscenze per prestare i primi soccorsi ai feriti. Determinante sarà anche il ruolo di Marcelo Perez, capitano della squadra, specialmente per il razionamento delle esigue scorte di cibo.
Prima di partire, infatti, i ragazzi hanno acquistato pochi alimenti all’aeroporto di Mendoza. Le loro scorte prevedono:
- Tavolette di cioccolata, 8
- Barattolo di cozze, 1
- Vasetti di marmellata, 3
- Barattolo di mandorle, 1
- Datteri
- Caramelle
- Prugne secche
- Crackers, un pacchetto
- Bottiglie di vino
Inevitabilmente le scorte di cibo si esauriscono in pochissimo tempo, e i sopravvissuti si ritrovano senza viveri né acqua. Mangiare la neve congela la bocca, dunque il gruppo si serve di un frammento di lamiera sul quale dispone la neve incontaminata per farla sciogliere al sole e farla scolare all’interno di una bottiglia. Nel frattempo, sono attive le ricerche.
Un’ora dopo lo schianto il Servicio de Búsqueda y Salvamento Aéreo de Chile (SARS) e il Corpo di Soccorso Andino del Cile (CSA) avviano le ricerche. I media dell’Uruguay ricevono la notizia del disastro aereo alle 18 del 13 ottobre. A 21 km a est dell’incidente c’è l’Hotel Termas, un luogo di villeggiatura estiva abbandonato. Lì i sopravvissuti potrebbero trovare un riparo più confortevole, ma non lo verranno mai a sapere.
All’interno dell’aereo il gruppo trova una radio a transistor e grazie a Roy Harley riesce a costruire un’antenna. Il 21 ottobre i sopravvissuti apprendono che le autorità hanno perso le speranze e interrotto le ricerche. Oltre al freddo, la solitudine e la paura, c’è un altro nemico più feroce da combattere: la fame.
I corpi
Esaurite le scorte di cibo, alcuni cercano di rifocillarsi con pezzi di cuoio delle valigie, il cotone dei rivestimenti dell’aereo e le sigarette. All’esterno della fusoliera il gruppo ha allestito una sorta di cimitero dove hanno radunato i cadaveri dei passeggeri morti sia a seguito dello schianto che per causa delle precarie condizioni.
Tra i sopravvissuti inizia farsi strada l’idea di mangiare i morti, ma la proposta trova le prime resistenze dovute a convinzioni religiose, ragioni legate all’etica e il rifiuto dell’idea di mettere sotto i denti un proprio congiunto. Roberto Canessa improvvisa una mannaia ottenuta con un pezzo di vetro e inizia a sezionare i corpi dell’equipaggio e di alcuni amici caduti nella tragedia. Nel suo libro I Had to Survive: How a Plane Crash in the Andes Inspired My Calling to Save Lives, Canessa scrive: “Abbiamo messo da parte le sottili strisce di carne congelata su un pezzo di lamiera. Ognuno di noi alla fine ha consumato il proprio pezzo quando ha potuto sopportarlo”.
Le due valanghe e la prima spedizione
Verso le 18 del 29 ottobre una valanga colpisce la fusoliera e uccide otto sopravvissuti. Tra le vittime c’è il capitano Marcelo Perez, la cui scomparsa getta l’intero gruppo in un terribile sconforto. Per tre giorni i passeggeri sono costretti a restare all’interno della fusoliera seppellita dalla neve, espletando le loro deiezioni e nutrendosi con i corpi dei loro compagni morti.
Il 1° novembre un’alta valanga si abbatte sul gruppo, ma questa volta non ci saranno vittime. All’esterno della fusoliera è in corso una tormenta che costringe i sopravvissuti a rimandare il momento in cui risalire in superficie. Una volta tornato il sereno, la squadra decide che è il tempo di organizzare una spedizione per chiamare i soccorsi.
Il 15 novembre Roberto Canessa, Fernando Parrado e Antonio Vizintin partono portando con sé una discreta scorta di carne e indossando gli indumenti più caldi. Dopo due ore gli esploratori si imbattono casualmente nella coda dall’aereo, all’interno della quale trovano cibo, indumenti e sigarette. C’è dell’altro: nella coda è presente la batteria che potrebbe far funzionare la radio trasmittente presente nella cabina di pilotaggio della fusoliera. La batteria è troppo pesante e il percorso per tornare alla “base” è in salita, per cui i tre decidono di tornare alla fusoliera, prelevare la radio e tornare alla coda.
Ray Harley riparte insieme a loro dalla fusoliera per raggiungere la coda. Le sue mani hanno già fabbricato l’antenna della radio a transistor, ora possono permettere ai sopravvissuti di stabilire un contatto con le autorità. Non sarà così. La radio del velivolo richiede un voltaggio maggiore di quello di cui sono dotate le batterie. Ray Harley, divorato da frustrazione e rabbia, distrugge l’impianto. Il gruppo, vinto, ritorna alla fusoliera.
La seconda spedizione
I sopravvissuti non dimenticano le ultime parole pronunciate dal copilota Lagurara prima di morire: “Abbiamo superato Curicò”. Dunque la loro tragedia si sta consumando nel Cile? No, perché l’incidente è avvenuto proprio per un difetto di comunicazione. Il gruppo è convinto che oltre la vetta si trovino le vallate del Cile, mentre in realtà insistono le montagne.
Questo scopriranno il 15 dicembre Roberto Canessa, Fernando Parrado e Antonio Vizintin. Raggiunto il picco, si ritrovano di fronte ad altre vette. Canessa e Parrado decidono di rimandare indietro Vizintin per risparmiare sulle scorte di cibo, dunque iniziano la discesa. Dopo sette giorni giungono ad una valle e al Rio Azufre, e il paesaggio nevoso cede il posto alle rocce. Canessa e Parrado proseguono lungo la riva sinistra del fiume. Improvvisamente notano tre uomini a cavallo dall’altra parte del Rio Azufre e inizio ad agitare le braccia e a urlare.
Il salvataggio
Uno dei tre, Sergio Catalán, scrive un biglietto e lo lega ad un sasso per poi lanciarlo dall’altra parte del fiume, dove si trovano quei due sconosciuti: “Cosa desiderate?”. Roberto Parrado risponde:
Veniamo da un aereo che è caduto nelle montagne. Siamo uruguaiani. Stiamo camminando da dieci giorni. Abbiamo un amico ferito. Nell’aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?
Sergio Catalán non crede ai suoi occhi. Conosce la storia del disastro aereo delle Ande e non ha mai immaginato che qualcuno fosse sopravvissuto. Si mette in marcia verso ovest e lascia lì, sulla riva del fiume, i suoi figli. Sulla strada incontra un altro allevatore e gli dice di raggiungere i suoi figli e i due sopravvissuti, e di trasportarli a Los Maitenes. Catalán raggiunge la stazione di polizia di Puente Negro e avverte le autorità. Immediatamente l’esercito cileno avverte le autorità uruguayane. È finita, finalmente.
Il pomeriggio del 22 dicembre 1972 tre elicotteri Bell UH-1 dell’aeronautica cilena raggiungono il luogo del disastro. Troveranno i sopravvissuti fuori dalla fusoliera, felici, intenti ad agitare le braccia per salutare i soccorritori. I 16 superstiti vengono portati all’ospedale di Santiago. Mediamente, dal giorno dell’incidente, hanno perso 40 chili.
La stampa
Il 28 dicembre il gruppo tiene una conferenza stampa e per la prima volta parla del ricorso all’antropofagia. Uno dei sopravvissuti, l’allora 19enne Carlos Paez, l’11 ottobre 2002 spiegherà a Repubblica:
Era terribile, non potete immaginare le domande. La morbosità . La volgarità. Una rivista brasiliana scrisse: “Adesso possiamo perdonare i nostri calciatori che hanno perso la finale mondiale contro l’Uruguay perché sappiamo come sono gli uruguayani: sono cannibali“. Volevano sapere che sapore avesse la carne umana e che cosa avevo pensato mentre mangiavo il polpaccio del mio migliore amico. Non lo so, non pensavo. Inghiottivo, inghiottivo e basta“.
Roberto Canessa specifica che il loro non è stato cannibalismo, perché “l’espressione cannibalismo è spesso usata per casi in cui si uccide per mangiare, cosa che dissero di non aver mai fatto”.
Le vittime dell’incidente, su decisione congiunta delle famiglie e delle autorità, riposano in una fossa comune poco distante dal luogo del disastro. Dei 16 sopravvissuti, nel 2015 è morto Javier Methol e nel 2023 José Luis Nicolás Inciarte, entrambi uccisi da un tumore.
Nel 2020, a 91 anni, è morto Sergio Catalán.
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