Approfondimento

“Il dipendente che rifiuta il vaccino in azienda può essere licenziato”, parere di Giuslavorista

Ci è stato segnalato un articolo molto interessante, per cui “Il dipendente che rifiuta il vaccino in azienda può essere licenziato”.

Non solo ci sembra tecnicamente corretto e ineccepibile (del resto, da un esperto giuslavorista come Giuliano Cazzola non potevamo immaginarci di meno), ma è perfettamente compatibile con alcune riflessioni che noi stessi ci eravamo posti, documentandole.

Seguiteci nel ragionamento.

Riassunto delle puntate precedenti

Abbiamo avuto modo di appurare, e vi preghiamo di cliccare sui link relativi man mano che li forniamo nell’analisi, diverse fattispecie.

Per prima cosa sappiamo per certo che in un numero crescente di lavorazioni la vaccinazione potrebbe essere causa di idoneità al lavoro.

Se la Privacy impedisce al datore di lavoro di conoscere direttamente dello stato di salute dei lavoratori, la legge gli impone di ottenere dal medico del lavoro una valutazione di idoneità.

Quindi il percorso diventa una c.d. “black box”: al datore di lavoro non arriva (detto banalmente) un “foglio con scritto chi è vaccinato o no”, ma il certificato di idoneità al lavoro o di mancata idoneità.

Abbiamo inoltre appurato che, anche in assenza di un obbligo di legge (ancora da venire) determinate categorie possono avere un obbligo deontologico (come medici e infermieri) e in ogni caso in un ospedale è stato sollevato all’INAIL il problema del trattamento dell'”infortunio del non vaccinato”.

Equiparato, di fatto, all’infortunio dell’inidoneo al lavoro che, in sfregio alla mancanza di requisiti per la sua idoneità o all’uso di idonei Dispositivi di Protezione Individuale, insista nel recarsi sul posto di lavoro.

Viste queste premesse, possiamo passare all’esperto

“Il dipendente che rifiuta il vaccino in azienda può essere licenziato”, parere di Giuslavorista

Il professor Cazzola è chiaro al riguardo

“Il dipendente che rifiuta il vaccino in azienda può essere licenziato”. Ne è convinto Giuliano Cazzola, giuslavorista ed esperto di relazioni industriali. “Credo che il datore di lavoro – spiega ad Adnkronos/Labitalia – abbia il diritto di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo, sia perché lui stesso risponderebbe dei danni e gravi e del decesso del renitente, sia perché ci sarebbe un problema di sicurezza per gli altri dipendenti”.

Precisando come, anche in assenza di un obbligo espresso di legge, si possa ritenere che le aziende potranno esigere che il dipendente si sottoponga a vaccinazione come adempimento ad un obbligo inerente al rapporto di lavoro”.

La chiave è tutta nel concetto di Infortunio sul Lavoro

“Mi spiego meglio: a mio avviso – dice Cazzola – tutto discende dall’aver voluto attribuire (nel decreto Cura Italia) al contagio da Covid-19 contratto ‘in occasione di lavoro’ (e quindi anche in itinere) la fattispecie dell’infortunio sul lavoro equiparando la ‘causa virulenta’ alla ‘causa violenta’ necessaria per qualificare l’infortunio stesso. È stata una forzatura aver esteso le tutele necessariamente riconosciute al personale sanitario agli appartenenti a tutti settori assicurati all’Inail. L’infortunio sul lavoro si porta appresso, in caso di gravi danni o di decessi, una responsabilità penale del datore se si accerta che non ha provveduto a mettere in sicurezza il proprio dipendente”.

Dunque in caso di dipendente non vaccinato, “ci troveremmo di fronte (salvo più gravi violazioni) – commenta Cazzola – ad un caso di inidoneità sopravvenuta. In teoria il lavoratore potrebbe chiedere di essere adibito ad altre mansioni. Ma l’azienda potrebbe avere a disposizione posti compatibili con un rischio così grave ed imprevedibile (si pensi solo alla peculiarità dell’infortunio in itinere)? Il problema degli infortuni da Covid non è irrilevante: siamo ormai a livello di quasi 150mila infortuni con più di 450 decessi”, ricorda.

Quindi riflettiamo: secondo il Cura Italia, il datore di lavoro si trova nell’imbarazzante situazione di dover essere responsabile della messa in sicurezza di lavoratori che a causa del clima di crescente infodemia presente in Italia potrebbero rifiutare di essere messi in sicurezza.

E potrebbero farlo in modo che provochi al datore di lavoro la piena responsabilità dei danni patiti e subiti.

Certo, assumendo come abbiamo precedentemente esaminato che la certificazione di inidoneità comporti l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni idonee comporta l’esistenza di mansioni idonee.

Dato non scontato, specie in questa economia, specie in tipo di imprese che ad esempio escludono in toto mansioni che non siano a diretto contatto col pubblico o con altri lavoratori in ambienti dove distanziamento sociale e misure simili sono tecnicamente impossibili.

Succede però che

il legislatore ha modificato il tiro (la preoccupazione per le possibili conseguenze era stata segnalata anche nel rapporto Colao) nel successivo decreto Liquidità stabilendo che i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure di tutela e prevenzione concordato con le parti sociali”. Tutto a posto allora? “Sì, ma questo è un modo di passare la palla alle parti sociali che, in presenza di un fatto nuovo, proprio perché le loro intese sono recepite dalla legge, hanno il dovere di fornire delle indicazioni precise”, risponde Cazzola.

Quindi esiste un protocollo condiviso di regolamentazione, che però si limita a spostare il problema di chi deve essere ritenuto responsabile delle inadempienze di fatto del rifiutante vaccini.

In ogni caso

“Perché l’imprenditore potrebbe sempre essere chiamato in causa ex articolo 2087 C.C. essendo l’obbligo della sicurezza tutto suo, dal quale non può sottrarsi dicendo che si è accordato così con i sindacati o che il lavoratore si è sottratto (ovviamente salvo giustificato motivo che dovrebbe essere definito nei protocolli). Le procure sono in agguato e gli imprenditori hanno ragione a non fidarsi”.

Il datore di lavoro si troverebbe quindi in un vero ginepraio dal quale avrebbe un solo modo per uscire: decidere nel modo più draconiano possibile e accettare l’inidoneità sopravvenuta come causa della risoluzione contrattuale ogni volta che non si può, oggettivamente, reperire una mansione tale da escludere i fattori di rischio.

Ed è una analisi che riteniamo ineccepibile.

 

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