Il complottista ha paura del fact checking e su questa paura fonda il suo nuovo diktat. Si tratta di un messaggio in cui il debunker, il fact-checker e qualsiasi persona interessata a lavorare sullo spirito critico del popolo di Facebook diventa una “spia professionale” che ricorderebbe la psicopolizia orwelliana delegata proprio dall’azienda di Mark Zuckerberg.
Questo il messaggio che circola su Facebook:
Forse non sapete ancora che ci sono spie professionali su FB, una sorta di psicopolizia orwelliana. Sono i cosiddetti ‘fact checkers’, quelli che FB delega a controllare cosa sia giusto o sbagliato tu scriva o posti.
Fatelo di tanto in tanto perché cambiano:
1 Andate nelle impostazioni del vostro profilo Facebook
2 Sezione: Blocco
3 Nella riga Blocco persone scrivete: fact check. Usciranno i vostri controllori personali!BLOCCATELI pazientemente tutti, uno per uno…
Rifate questo ogni due giorni circa… Escono anche sotto i nomi: Debunker, controllore, controller, fact check
Una piccola rinfrescata alla memoria: quando digitiamo un nome nella sezione “Bloccare qualcuno”, premendo su “Blocca” uscirà un elenco di profili corrispondenti alle parole digitate. Persone che esistono a prescindere da noi, non persone che visitano il nostro profilo, non i nostri “controllori personali”. La guida al blocco degli utenti è disponibile a questo indirizzo.
La tecnica di comunicazione è quella della paura o del “parlare difficile”. Di quest’ultimo aspetto abbiamo un ottimo esempio nella pellicola Nerone di Alessandro Blasetti (1930) in cui Ettore Petrolini interpretava l’imperatore romano. “Il popolo, quando sente le parole difficili, si affeziona” recitava Petrolini in una famosa scena. Nerone, infatti, ha appena ricevuto un “Bravo!” dopo aver pronunciato lo slogan: “Domani Roma rinascerà più bella e più superba che pria“.
Diverse sono le teorie secondo le quali Ettore Petrolini sarebbe stato fascista (qui un articolo di Repubblica), anche se c’è chi ricorda che l’attore tenesse in realtà un atteggiamento sbeffeggiante nei confronti della dittatura. Quando Mussolini gli consegnò una medaglia, per esempio, Petrolini rispose con “Me ne fregio!”, parodizzando il motto dannunziano “Me ne frego” adottato poi dal regime fascista. Ora torniamo a noi.
Mettiamoci nei panni di chi non è ancora entrato nei meccanismi mentali dei social, di chi sente per la prima volta la parola “psicopolizia orwelliana” e di chi non ha ancora uno spirito critico allenato. Cosa succede? Dopo aver letto questo genere di messaggi si precipita nelle impostazioni del suo profilo e inizia a bloccare persone a caso, convinto di essere realmente spiato da qualcuno.
Soprattutto questa persona si convincerà, d’ora in poi, che parole come fact-checking o debunking nascondano un pericolo per la propria libertà espressiva. A questo tipo di utente oggi diciamo che non è così e non lo è mai stato. Prima di tutto fact checking e debunking possono tradursi nell’italiano verifica dei fatti e sbufalamento, e sono operazioni di verifica delle notizie seguite dalla pubblicazione di un’analisi che servirà a leggere la notizia nella sua oggettività, senza prese di posizione.
Chi scrive questi messaggi di certo fa uso di parole forti (“controllore personale” fa paura, se chi legge non ha dimestichezza coi social) proprio per suscitare paura. Ancora, chi pubblica questi post è per dote innaturale in malafede, perché incapace di accettare di sbagliare, di mettersi in discussione e di considerare un tipo di verità oggettiva. La loro mania di protagonismo e la loro ossessione per i complotti portano a escludere qualsiasi possibilità di dialogo, dunque alla pubblicazione di contenuti falsi, scritti con il linguaggio della paura e che puntano a individuare un nemico. I fact checkers e i debunkers, in questo caso, che danno loro fastidio in quanto sono spesso usati come strumento per la verifica delle notizie.
Chi pubblica questi post, infine, annulla il pensiero razionale e stimola quello irrazionale di chi legge: la semplificazione in atto diventa la verità unica e santa, inattaccabile, per diffondere un verbo sbagliato e indicare al lettore la strada dell’odio. Accade anche quando il parente più fidato ci dice di non comprare il pane sotto casa perché “ho saputo che hanno i topi nel laboratorio”. Noi non lo sappiamo, non lo abbiamo visto ma ci fidiamo, dunque evitiamo di tornare da quel fornaio. Se oltre alla paura abbiamo la malafede, addirittura, arriviamo a diffondere quel messaggio. Non abbiamo mai verificato, ma lo diciamo lo stesso.
Il nostro parente lo ha saputo da “non si sa chi”, noi lo aiutiamo a diffondere il verbo e dopo qualche mese quel fornaio chiude perché ha perso tutti i clienti. Si scoprirà che era tutto in regola e noi, perché ci siamo fidati del parente, abbiamo contribuito a quel fallimento.
Il fact checking è questo: verificare ogni informazione prima di sviluppare un pensiero. Se non lo facciamo stiamo indirettamente facendo del male a qualcuno. Chi fa fact checking non è pagato da Facebook. Non esiste alcuna fonte che lo dimostri. Chi fa fact checking non è il controllore ingaggiato da Zuckerberg per sorvegliare qualche profilo. Non è mai successo.
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