Parlando di controller retro, ci sono molte cose da dire e molte le abbiamo già dette. Vi abbiamo parlato della storia del joystick e di come i controller dei cabinati arcade spesso erano un abisso di follia.
Ma a casa, con un po’ di sfortuna, non vi aspettavano oggetti meno bizzarri: alcuni utili, altri anche apprezzati, altri assai meno.
Il primo controller arrivato nelle case era il Magnavox Odyssey del 1972. Se immaginate che il suo primo controller sia stato un joystick, ripensateci. Ma neppure un paddle in senso tradizionale (ne parleremo brevemente).
L’Odyssey arrivava con gli iconici “tostapane”. Due scatoloni di plasticaccia con un grosso spesso cavo, il tasto di reset (molti controller in futuro avranno la pausa o il reset piazzati tra i tasti per comodità) e due manopole per controller, una per controllare la direzione verticale e una per la direzione orizzontale.
Quando l’apice del videogame era Pong e l’occasionale gioco da tavolo “portato sul monitor”, giocare con una scomodissima lavagnetta magnetica digitale nello stile delle Etch A Sketch era del resto il massimo della novità e della comodità: nessuno aveva un vero termine di paragone, che sarebbe arrivato dopo.
Un modello successivo del Magnavox ebbe joystick “convenzionali”, ma la stranezza non finì.
Il Fairchild F, prima console di seconda generazione (la generazione che introdusse i giochi su cartuccia, quindi il concetto di gioco su medium esterno) ha molti record.
La prima cartuccia, come abbiamo visto, anche se la sua storia viene spesso brutalmente semplificata, ma anche un controller con alcune innovazioni.
Ad esempio, il Jet Stick fu il primo ad avere un cavo lungo e sottile, consentendo ai ragazzini di giocare lontani dalla TV, ma era ancora molto parente dei paddle, avendo un controllo stick rotante come quello del simile Bally Astrocade, ancorché piagato da cavi interni sin troppo sottili e fragili.
Sostanzialmente il Jet Stick era un bastoncino con un pomello rotante piazzato in cima che poteva essere usato come un joystick/Thumbstick a quattro posizioni, tirato e schiacciato o ruotato.
Ergonomico? Non tanto, ma sicuramente più innovativo del precedente tostapane e un Jet Stick nuovo non aveva i problemi di fragilità di un esemplare datato, ancorché romperlo era un problema: i Jet Stick erano saldati alla scheda madre del Fairchild F.
Con Atari arriva il c.d. “standard ATARI”, croce e delizia di tutti i retrocollezionisti. I controller possono ora essere staccati, anzi, lo standard ATARI prevede sei pin attivi, quattro per le direzioni, uno per la messa a terra in comune ed uno per il tasto di sparo.
Più due pin per i paddle, rispettivamente per il Paddle 1 e Paddle 2. Parliamo ovviamente di un residuato dei tempi di Pong (come dimostra il nome), che era solo una generazione fa, ma per molti era il controller principale.
Un semplice potenziometro, da mezzo Ohm per Atari, un Ohm completo per Commodore, che controllava il movimento da destra a sinistra, diventando quindi sia strumento di gioco che rudimentale volante.
Fu in seguito sostituito dai joystick: incidentalmente come abbiamo visto il concetto stesso di joystick removibile diede origine alla moltiplicazione dei joystick di terze parti, spesso a sostituzione dei deludenti accessori “di marca”.
Il resto della seconda Generazione adottò la porta stile Atari, ma decise di migliorare il design aggiungendo bottoni.
Letteralmente. Il ColecoVision aveva un controller con dodici tasti stile telefono e uno scomodo thumbstick, più la possibilità di appoggiarci sopra un foglio acetato con indicazioni del gioco, mentre l’Intellivision era assai simile ma con un disco a sedici direzioni più i dodici tasti.
Entrambi i controller erano poco ergonomici e adatti a sessioni prolungate: ma contando che il joystick Atari era una fabbrica per calli e il concetto di ergonomia sarebbe arrivato subito dopo, in fondo il giocatore medio non aveva termini di paragone che gli consentissero di capire che esiste un limite ai tasti che si possa ragionevolmente usare.
Una variante assurda del già bizzarro controller ColecoVision fu il SAC (Super Action Controller), distribuito con il gioco Super Action Baseball.
Ovvero il tentativo di incastrare nel già ipertrofico controller Coleco un Joystick Arcade stile Giapponese, un selettore per cambiare al volo il numero del giocatore e una rotella per “regolare la velocità”.
Avresti dovuto avere degli arti sovrannumerari per usarlo.
Ironicamente, anche Atari col 5200, la generazione successiva al 2600, cercò di saltare sul treno del “più tasti a telecomando attireranno i giovani”. Con scarso successo.
La possibilità di usare controller particolari nello standard Atari creò diversi tipi di controller: tra i gimmick più particolari abbiamo il Lip-Stick, compatibile solo con Echelon, gioco del 1987 in cui controlli una navicella in combattimento sul “Decimo Pianeta” del sistema Solare.
Il Lip-Stick era sostanzialmente un piccolo microfono impostato per attivare il tasto sparo: urlando “fire! Fire! Fire!” a ripetizione, o facendo altri rumori forti, si sarebbe riusciti quindi a sparare.
Fine del gimmick. Alla fine, potevi anche soffiare sul Lip-Stick e attivarlo. Oppure fare finta di niente e comprare un joystick migliore e una delle varie copie bootleg “legali ma non troppo” di Echelon.
In una scena del noto film “Il piccolo grande mago dei videogames” del 1989 il cattivone, indossando fiero il suo costoso Power Glove esclama la frase nel titolo, in lingua originale arricchita da un mellifluo “It’s so bad!”, traducibile con “è così da fighi”.
Da fighi in realtà nel Power Glove c’era ben poco: a parte l’aspetto, che lo rese un successo di vendita seguito dall’abbandono sugli scaffali.
Versione economica del concetto del Dataglove, usava sensori a ultrasuoni per percepire la posizione delle dita e della mano. Più una serie di tasti per programmarlo o per usarlo come controller: l’idea dietro il Power Glove era prendere un progetto da 100mila dollari e metterlo in vendita per cento, ottenndo qualcosa che il mellifluo cattivone del Piccolo grande mago potesse usare puntando la mano dritta davanti alla console e usando una delle impostazioni programmate.
Ad esempio muovendo la mano nelle quattro direzioni e sollevando le dita per simulare la pressione dei tasti sparo A e B.
Con soli due giochi creati per il Power Glove (un bizzarro picchiaduro con gorilla, circensi e citazioni motivazionali e un clone di Breakout, ironicamente gioco nato per il Paddle) e gli altri difficili da usare con un controller non proprio ergonomico, scomodo, bello da vedersi ma non da usarsi, il Power Glove divenne quel tipico oggetto di culto celebrato per la sua bellezza ma che nessuno avrebbe mai usato.
I ragazzini tornarono ad usare il controller tradizionale: e lo fecero fino all’arrivo della Nintendo Wii.
Il Power Glove si limitò ad essere oggetto di culto per i ragazzi che volevano “Sentirsi veramente cattivi” e riapparve nella serie “Ash vs Evil Dead”, denudato dei suoi complessi meccanismi esterni, come guscio/copertura per la mano artificiale articolata del protagonista, lo spericolato e sconclusionato cacciatore di mostri Ash Williams.
Più assurdo del Power Glove c’è solo il Broderbund U-Force, di cui abbiamo parlato qui e che ricorderemo. Eppure Broderbund, ditta dietro titoli come Karateka e Prince of Persia non era una ditta composta da ultimi arrivati.
Eppure con lo U-Force riuscirono a sbagliare tutto: produssero una valigetta che, aprendosi, mostrava una lavagnetta ricca di sensori a infrarossi. L’idea era avere un WiiMote prima del WiiMote: un affare che registrasse i movimenti di dita e mani sostituendo il controller.
Di fatto, come il Power Glove, era un affare pesante, impreciso, inutile, assurdo. Ma anche così era migliore dell’alternativa Nintendo e cotnemporanemente, peggiore di qualsiasi cosa avreste potuto comprare.
Tranne forse…
Credeteci o meno, ad un certo punto Nintendo si pose il problema dei diversamente abili. Giustamente: oggi ad esempio Nintendo Switch offre la possibilità di “rimappare”, ovvero cambiare la posizione relativa dei tasti e ci sono controller di terze parti con gli SCUF modificabili, ovvero tasti addizionali a spalletta in modo che sia il gamer estremo che il giocatore incapace di muovere agilmente le dita possa usare tasti posteriori.
Avere per un diversamente abile la possibilità di giocare era un obiettivo commendevole, farlo vendendo la grottesca parodia dei controlli di una sedia a rotelle per tetraplegici sapeva di presa in giro.
Perché NES Hands Free era esattamente questo: un arnese da legarsi al petto del ragazzino con una cannuccia da infilare in bocca: muovendo la testa e la cannuccia si sarebbe potuto muovere il personaggio a schermo, soffiando o succhiando nella cannuccia si sarebbero usati i tasti A e B.
Naturalmente la formula ipotetica era d’obbligo: ottimo concetto, pessima, pessima esecuzione.
Nonostante questi esperimenti, il pad del NES era abbastanza usabile. Anzi, per molti ancora il favorito. Del resto la croce dimensionale creata da Gunpei Yokoi per il Game&Watch e per il GameBoy era ergonomica.
Ci pensò Triax a peggiorarla, sostituendo la semplice ed efficiente crociera made in Gunpei con un piccolo touchpad che, con la tecnologia dell’epoca, semplicemente non funzionava.
Se avete provato l’emozione di giocare ad un gioco che richiede joystick o tastiera cercando di usare il touchpad di una tastierina portatile, immaginate che quel touchpad registri un tocco ogni sei e siete arrivati al motivo per cui forse era meglio restare sui controller standard.
Questo nonostante una bizzarra pubblicità in cui due uomini-cartellone travestiti da joypad decantavano le incredibili proprietà di un trackpad malamente adattato in joypad per “seguire le diagonali”.
E, ovviamente, il “joypad tradizionale” era un ometto buffo, goffo e calvo mentre il “nuovo prodotto” era un giovanotto belloccio e attraente.
Vi abbiamo già parlato dell’Atari Jaguar e di come negli anni ’90 Sam Tramiel, figlio del celebre Jack Tramiel, decise di sfidare SONY lanciando l’Atari Jaguar e di come sia stato sconfitto clamorosamente.
L’idea di sconfiggere il controller originale SONY e il suo immediato successore, il primo DualShock, eredi diretti degli eccellenti controller Nintendo semplicemente aggiungendo tasti al proprio controller fu contemporaneamente una mossa tragicomica e un tentativo di tornare agli anni ’70 in cui COLECO e Intellivision cercarono di sconfiggere Atari proprio aggiungendo tasti al controller.
Atari decise di appiccicare quindici tasti, oltre “Pausa” e “Opzioni” nello stesso controller, e quando l’operazione fallì, decise che se con quindici il Jaguar non era stato apprezzato con diciotto tasti sarebbe andato meglio
“Stranamente”, i giovani dell’epoca preferirono gli otto tasti, di cui quattro “a spalletta” della PlayStation, diventati poi dieci col primo DualShock (potevi premere gli Analogici, come si usa anche adesso in tutti i controller moderni) e dimostrarono di non gradire giocare con una specie di telecomando.
Evidentemente, l’esperienza del 5200 non aveva insegnato ad Atari poi molto.
Se abbiamo già più volte parlato di quale colossale fallimento sia stato il CD-i, e di quanto giocare alla “Triforza Sconsacrata” di Zelda per CD-i e alla saga di Hotel Mario sia un’esperienza da incubo, pensate al fatto che nelle intenzioni di Philips avreste dovuto giocare con un telecomando da DVD.
Controller che Limited Run ha cercato di rivendere come riproduzione per i PC moderni.
Una specie di tastone unico per le direzioni, i tasti play, rewind e fast forward riciclati in modo creativo, e l’esperienza di gioco oltre che disturbante e afflitta da scenette disegnate male o recitate da attori non professionisti, ma nel senso di segretarie e stagisti, si infrangeva sul doversi arrabattare con un vero telecomando.
Siamo nel 1996, e Nintendo decide di creare un controller ergonomico. Ma nel senso di “con più ergonomie e tutte contrastanti tra loro”. Nasce il controller del Nintendo 64, sostituito dal superiore controller del GameCube e che avrà un revival negli ultimi anni grazie a Nitnendo Switch.
Un affare con tre impugnature, un controllo analogico e tasti sotto ogni cornino.
L’idea non è avere tre mani, ma spostare le due mani in diverse modalità di gioco, anche contemporaneamente. A sinistra, la croce direzionale, a destra i tasti sparo A e B, i “più usati” e quattro tasti programmabili, o usati per le direzioni o funzioni diverse in diversi giochi, chiamati “Tasti C”
Al centro un singolo stick analogico e un tasto Z che denunciano le sue origini: Nintendo 64 avrebbe dovuto essere la console dell’era 3D, e i tasti C avrebbero dovuto controllare la telecamera.
Si finì ad alternarli con l’uso al tasto analogico, analogico che però era sin troppo alto e fragile, e così scomodo che Nintendo si ritrovò come parte di un accordo extragiudiziale a fornire guanti da palestra gratis ai ragazzini che si erano lesi le mani giocando a Mario Party.
Nintendo imparò dall’esperienza e col successore del Nintendo 64 creò l’iconico controller del GameCube, la cui vendita non è mai cessata da allora, viene ancora usato per giochi come Smash Bros. e di cui copie di terze parti sono vendute ad esempio da Nyxi come pad ergonomici.
Il Pad del Nintendo 64, compreso lo scomodissimo sensore di vibrazione piazzato sul davanti (un tempo da comprare a parte, ora incorporato) è tornato recentemente sullo Store Nintendo come accessorio opzionale per la Switch per giocare ai giochi del Nintendo 64 in vero stile anni ’90.
Solo che ora i guanti anticalli devi comprarteli da solo
Pensate che non ci fosse nulla di peggio del pad che avete appena visto?
Incrociatelo col Power Glove e riprovate.
Se non eri un mancino, se potevi sopportare il fatto che i sensori di movimento sembravano avere solo la modalità “troppo in là” e “non si muove manco con le preghiere”, se eri resistente al tunnel carpale, se fossi riuscito a tollerare il fatto che la bizzarra posizione dei tasti del pad Nintendo 64 era enormemente peggiorata dal trovarsi sul palmo della mano, forse sarebbe stata una innovazione.
Alcune recensioni lo descrivono come particolarmente adatto ad un ipotetico giocatore disabile con movimento limitato nelle mani.
Un disabile che, ricordiamo, avrebbe dovuto essere destrimane, capace di precisi movimenti dell’avambraccio e in grado di torcere il braccio in modo da raggiungere i tasti già creati per essere difficoltosi da usare sul pad convenzionale.
Vi fu una versione del Reality Glove per PlayStation, ma non ebbe maggior fortuna.
Siamo ancora negli anni ’90, anzi nel 1998. Per motivi ignoti, dato che già all’epoca potevi comprare un volante per la tua PlayStation, Namco decide di fornire con Ridge Racer 4 il JogCon, ovvero un normalissimo joystick con uno jog shuttle, una rotellina nel mezzo.
L’idea era tornare tutti assieme al 1970 e far finta di avere un paddle in mano facendo finta che fosse un vero volante quando il tuo vicino di casa più ricco aveva un vero volante e ti avrebbe deriso perché stavi girando un affare di plastica incastrato in un controller.
Siamo nel 2002, esattamente al confine di quello che è retro e quello che non lo è.
Vi abbiamo parlato dell’eccellente controller GameCube e di come non sia considerabile retro perché ancora usatissimo. Ma esiste un’altra variante dello stesso, a parte i suoi cloni di terze parti privi degli standard di qualità Nintendo e quindi inclini alla rottura che non è sopravvissuta.
L’ASCII Keyboard Controller, progettato per la saga di Phantasy Star Online, gioco in cui gruppi di utenti si incontravano per esplorare un pianeta lontano.
Oggi un paio di cuffie con microfono da Gaming sono parte essenziale del compendio del Giocatore. In mancanza, tutte le console, compresa Nintendo Switch, supportano la possibilità di collegare una tastiera USB, cosa ovviamente sempre possibile su un PC.
Nintendo decise di concedere il suo prezioso Seal of Approval a SAMMY, ditta Giapponese che creò una tastiera con attaccati ai lati i due monconi di un controller GameCube, di fatto un controller GameCube grosso come una tastiera con tanto di grip laterali che avresti dovuto, in qualche modo, usare per combattere e scrivere messaggi al resto dei tuoi amici.
Come Tenkeyless Keyboard, tastiera senza tastierino numerico sarebbe stata una onesta tastiera economica con caratteri occidentali e Giapponesi.
Appaiata ad un controller… beh, provate a comprare un Nyxi Wizard (i Joycon ispirati al controller GameCube), incollare i singoli Joycon ai bordi della vostra tastiera e provare a usarla.
A meno che di cominciare a scrivere col naso impugnando la tastiera, o poggiarla sulle ginocchia usando una mano sola per scrivere mentre decidete se usare i tasti direzione o azione perché entrambi non potete, capirete perché non ha mai avuto successo all’estero.
E lo dico in senso letterale.
Siamo tornati ora agli anni ’80: la scarsa qualità dei Joystick originali di Atari e Commodore abbiamo già detto aveva stimolato un ricchissimo mercato di eccellenti prodotti di terze parti. Alcuni di buona qualità, ma con dei gimmick un po’ strani.
Come il Terminator, fatto a forma di bomba a mano e venduto in un tubo di cartone ad evocare atmosfere militari.
Per tutta una serie di motivi probabilmente nessuno venderebbe un joystick fatto a forma di bomba a mano iperrealistica. Nessuno a parte i Danesi di SuperSoft Aps, ovviamente.
A onor del vero il Terminator non era il massimo dell’ergonomia: certo, una bomba a mano è facile da impugnare, ma la leva di controllo era di fatto il pin che fuoriusciva dalla testa della bomba, e il tasto sparo la maniglia collegata alla finta sicura a strappo (che ne diventava la cerniera).
Di fatto avresti dovuto giocare col pollice premuto su un sottile pezzo di metallo o usando due dita per evitare di lasciarti un forello sul pollice: a parte questo, la Rete è piena di commenti entusiastici che definiscono il Terminator solido, ben bilanciato e fatto di componenti di buona qualità.
Leggende metropolitane vogliono il Terminator fuori commercio perché “non si rompeva mai” e i “Poteri Forti dei videogiochi” non avrebbero venduto più joystick a nessuno una volta venduto un Terminator ad ogni giocatore: ma in realtà molti joystick dell’epoca avevano fama di indistruttibilità, ed ognuno aveva il suo favorito.
È pacifico ritenere che, semplicemente, nel mondo attuale non c’è più mercato per controller a forma di armi iperrealistiche.
Oltre al Terminator esisteva un altro “Joystick Terminator”. Prodotto però da Cheetah Ltd, produttori su licenza dell’infame Joystick doppio tasto del Commodore 64GS, oggetto fragile e incline al malfunzionamento, ma primo joystick per il Commodore 64 a supportare la presenza del doppio tasto.
Cheetah Ltd non era però avulsa dal creare joystick di forme strane, per il mero gusto del gimmick. Come il “Terminator”, questa volta con uno scomodissimo teschio del T-800 al posto dello stick.
Seguito da simili Joystick dove ti trovavi ad afferrare il capoccione di Bart Simpsons, il corpo di Batman e altre action figure belle forse da vedersi, ma scomodissime da impugnare.
Demon Gunn non è un errore di battitura. È un errore ed anche abbastanza grave la sua esistenza, ma si chiama “Demon Gunn” di suo.
È una pistola che non è una pistola.
Uno scomodossimo controller per PC con un piccolo Thumbstick piazzato al posto del calcio e lo sparo, ovviamente, sul grilletto, che secondo TAC Systems avrebbe dovuto essere il controller ideale per giocare a Doom, Heretic e tutti gli FPS dell’epoca.
Col risultato di provocarti una orribile tendinite e trovarti a puntare una pistola di plastica su un monitor sapendo che non sparerà mai.
Per 100 dollari del 1995, potevi avere un oggetto stroncato dalle principali riviste, e questo è quanto.
Se leggevate Topolino negli anni ’90, si sarete imbattuti nell’oggetto del desiderio degli anni ’90, l’Aura Interactor.
L’Interactor non era esattamente un controller, ma la prima Tuta Tattile della storia.
Di fatto una specie di zaino-pancera vibranti, l’equivalente dell’attaccarti il motore di una lavatrice addosso per sentire, ad esempio, le pallottole dei giochi di sparo o, grazie ad una partnership con la Akklaim di Mortal Kombat, sentire una legnata virtuale nella schiena ogni volta che i “kombattenti”, i personaggi di Mortal Kombat ti massacravano di legnate.
Per la tecnologia del 1994 era un oggetto bellissimo, rivoluzionario, lodato.
Oggi lo definiremmo un po’ ingenuo, espressione dello spirito di quei tempi in cui tutto doveva essere “estremo” e senza limite.
Non abbiamo volutamente parlato tra i controller scomparsi delle Light Gun. L’abbiamo fatto altrove, e in fondo per quanto la tecnologia del CRT sia scomparsa rendendo impossibile usare oggi una Pistola Ottica su un monitor moderno, ci sono strumenti che consentono di usare i Joycon allo scopo.
Le Light Gun erano di fatto sensori ottici che, quando in determinati giochi appariva un bersaglio da sparare, riconoscevano un flash localizzato, istantaneo in una piccola sezione del monitor, la “hit box”.
Le più iconiche erano la Light Phaser di SEGA, immortalata nella serie di videogiochi e di animazione “Zillion” come la futuristica “Zillion Gun”, arma degli eroi dagli enormi poteri e la NES Zapper di Nintendo, arma immortalata dalla serie Capitan N: The Gamemaster (Un videogioco per Kevin) come l’arma di Capitan N, ovvero Kevin Keene.
La serie racconava infatti le avventure di ragazzo del nostro mondo proiettato nel mondo degli amati videogiochi per combattere al fianco degli eroi dei più importanti giochi Nintendo dell’epoca e conquistare il cuore della Principessa Lana di Videoland, santa protettrice di ogni “gamer” salvando il suo regno dai Metroid (nemici dell’omonimo videogioco: probabilmente Samus Aran, eroina del gioco stesso, era impegnata in altre vicende).
Semplicemente ad un certo punto, esattamente nel 1992, Nintendo decise che gli aspiranti Kevin meritavano di più di una sgargiante pistola rossa.
Avrebbero dovuto avere un bazooka.
Così grosso che se fosse stato un’arma vera avrebbero dovuto legarselo alle bretelle per non essere portati via dal rinculo.
Arrivò il SuperScope, arma per il SNES, un enorme bazooka dall’aria spaziale col quale il giocatore poteva annientare talpe e mattoncini del Tetris grazie al gioco in omaggio.
Kevin Keene avrebbe approvato.
OdeonTV negli anni ’90 trasmise una serie del celebrato autore di telefilm, fumetti e serie animate Straczynski, Capitan Power e i Combattenti del Futuro.
La serie ad un certo punto di ogni puntata invitava i piccoli spettatori a prendere parte al combattimento, e gli scontri tra gli eroici combattenti in un modo futuro governato da macchine letali e assassine e i possenti robot virava in prima persona.
Quello che molti bambini Italiani non sapevano è che i loro più fortunati coetanei americani avrebbero potuto comprare un apposito controller/videogame, una pistola ottica con luci e suoni incoporati che, se avessero centrato le “hitbox” che apparivano brevemente sui mostri (invisibli a occhio nudo: avrebbero solo dovuto puntare i mostri e sparare) con una futuristica arma laser simile a quelle dei loro eroi, dalla forma di un jet spaziale con un’action figure nella cabina, sarebbero stati premiati da luci colorate.
In caso di sconfitta, per soli 35$, l’action figure sarebbe stata sparata incerimoniosamente fuori dall’abitacolo.
Fu proprio il fatto che, nei mercati ove era venduto, il gioco divenne un oggetto del desiderio a stroncare entrambi.
Nelle parole di J.M. Straczynski, marketing e merchandising segnarono la fine del progetto.
La serie divenne col passare del tempo sempre più cupa e matura, anche troppo per ragazzini, presentando la morte di parte del cast di eroi e nemici allegorici del nazismo e delle Grandi Dittature del Ventesimo Secolo incrociati col mondo di Terminator.
Le associazioni dei genitori ebbero da recriminare sia per i temi che per il giocattolo stesso, percependo l’intera serie come una pubblicità sleale per costringere le famiglie a imbarcarsi la spesa di almeno una pistola/fantoccio/navetta per pargolo.
Dopo 22 episodi, una VHS a cartoni animati e un film riassuntivo giocattolo e serie animata sparirono.
Ricordate l’articolo sugli strani controller per i cabinati?
Fino sostanzialmente ad un paio di decadi fa, il rapporto tra console e cabinati da sala giochi era di forte simbiosi, e quello che avresti trovato in Sala Giochi, pagando l’avresti avuto in casa.
Canne da pesca? Spade? Tamburelli?
Se potevi permetterlo, potevi avere la sala giochi in casa.
Compresa una piccola plancia da shinkansen, l’equivalente dei nostri LeFrecce per giocare a simulatori di treno per PlayStation, un paio di maracas e una motosega non funzionante appiccicata ad un controller da PlayStation per entrare nell’umore del cacciatore di mostri.
Oggetto così strano da meritare una menzione a parte.
Una motosega di plastica, dipinta con schizzi di sangue, e coi tasti di un normalissimo controller PS2 applicati in modo così random, così assurdo, che l’unica giustificazione per la loro posizione era evitare di far passare i fori dalle mondanature e dalle componenti della motosega senza rovinarne l’aspetto.
Perché come tutte le action figure era molto bella da vedersi, ma praticamente impossibile da usare senza provocarsi continui crampi.
Prodotta per PS2 e GameCube, fu venduta in 5000 esemplari, che ora hanno un enorme valore collezionistico. Purché, ovviamente, vengano chiusi in una teca di plastica, esibiti ma mai toccati.
Si pensò a farne un’edizione aggiornata per le console moderne: fortunatamente, ci ripensarono.
Vi abbiamo detto che negli anni ’80 l’introduzione dello standard Atari aveva creato una fame di controller di terze parti per sostituire i non sempre ottimali controller di prima produzione (con Atari e Commodore tra i principali produttori di pessima merce).
Vi abbiamo parlato qui del TAC-2: ecco un ripasso.
Suncom depositò nel 1982 il Brevetto #4.439.649, concesso nel Maggio del 1984 a nome dell’inventore Marino Cecchi di Itasca.
Brevetto che comincia con un attacco frontale alla tecnologia dei joystick di prima parte, a lamelle e microswitch
“Una problematicità di simili tecniche costruttive per i joystick è che nel tentativo di renderli economici ed alla portata del consumatore medio, il risultato è fragile e incline a rompersi, specialmente tra le mani dei bambini. Per di più, simili realizzazioni tecniche sono poco responsive, e l’operatore non ha alcuna risposta tattile sul gioco. Allo stesso tempo, la reazione delle immagini a video rispetto alla manipolazione del joystick si presenta lenta e poco accurata.
una realizzazione tecnica per il joystick che sia semplice e duratura, economica e che fornisca una sensibilità tattile all’operatore in grado da renderlo un rimpiazzo per un joystick convenzionale
Se state pensando che la soluzione migliore per realizzare questo brevetto sia stata comprare valvole da pneumatici per camioni difettate e usarle come leva per un joystick ottenuto da contatti di bronzo che si cortocircuitavano a vicenda, complimenti, avete indovinato l’idea più assurda ma insieme perfetta della storia.
Il TAC-2, e i suoi fratelli minori come lo Slickstick (sempre Suncom, ma minori per dimensioni) erano composti da una valvola Schrader con avvitata e incollata una palla metallica stile joystick arcade al posto del tappo (le valvole “difettate” comprate non erano state ancora filettate, quindi venivano filettate con un diametro maggiore) e una palla metallica sul fondo.
Approfittando del fatto che lo standard Atari, come visto, si basava su contatti “normalmente aperti”, ovvero cortocircuitando le direzioni alla messa a terra, il TAC-2 con ogni movimento premeva una sfera conduttiva, collegata “a terra” a dei piccoli contatti di bronzo incastrati in un solido guscio plastico.
I due tasti sparo (uno sullo Slickstick) erano in realtà collegati allo stesso cavetto, ed un disco di bronzo premeva sui contatti, venendo poi “rilasciato” da una molla.
Il TAC-2 divenne presto uno dei più apprezzati sostituti del joystick Atari originale, anche nella sua versione “economica” con molle al posto delle bronzine (riconoscibile dal colore bianco e dai tasti arancione, anche se esistono TAC-2 con le bronzine coi tasti rossi e il colore bianco, ma abbastanza consumati dal sudore da sembrare il loro fratello povero).
Anche qui come per il “Terminator” nacque la leggenda del “Joystick troppo buono, e sparito dal mercato perché bisognava far guadagnare i poteri forti”: di fatto, la semplicità dello standard Atari era ciò che rendeva concetti come il TAC-2 possibili.
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