Il 2% per la spesa militare secoondo NATO è l’argomento caldo, anzi, caldissimo dei social di questo periodo. La spiegazione e la giustificazione è l’adesione alla NATO, ovviamente.
Ma esiste un obbligo del 2%?
Partiamo da un presupposto essenziale: il diritto internazionale, è, per sua natura, eminentemente pattizio.
Più simile ad un club che ad una collettività come ad esempio uno Stato. In uno stato, ci sono cittadini tenuti al rispetto di una serie di norme ed uno Stato che esercita il potere legislativo (potere di creare quelle norme) e il potere giudiziario, ovvero il potere di far valere le sue norme.
In un’associazione, in un sistema pattizio i consociati si danno delle regole, si impegnano a gestirle senza che vi sia un vero e proprio potere cogente.
È più un accordo: ci possono essere dei “tira e molla”, degli stiracchiamenti, delle decisioni e si perviene ad una posizione di accordo.
Sostanzialmente, nessuno verrà “a pignorarti la Sardegna”, è più come decidere se è opportuno presentarsi al Golf club in giacca e cravatta, monopolizzare il buffet o lanciare il ponch o meno in faccia a qualcuno.
Ciò posto, tra tutte le analisi che ci sono capitate, la migliore è quella di Pagella Politica, non a caso aderente ai criteri di Fact Checking di EDMO e IFCN come e anche meglio di noi.
Come ci ricorda Pagella Politica:
La Nato, un’alleanza militare tra 30 Paesi, riceve i fondi dai suoi membri attraverso contributi diretti e indiretti. I primi servono per finanziare le operazioni comuni della Nato, come i sistemi di difesa aerea o di comando e controllo. In questo caso i costi sono sostenuti collettivamente e ogni Paese contribuisce in base al proprio reddito nazionale lordo (Rnl), un parametro si calcola aggiungendo o sottraendo al Pil i redditi guadagnati da o pagati a persone o aziende estere.
Oggi il bilancio della Nato è pari a circa 2,5 miliardi di euro, una cifra piuttosto ridotta rispetto alla grandezza dell’organizzazione. Questi sono suddivisi in un fondo per le operazioni civili da circa 290 milioni di euro, uno per le operazioni militari (1,6 miliardi di euro) e un programma di investimenti (790 milioni di euro). Gli Stati Uniti e la Germania, i Paesi più ricchi tra i membri Nato, contribuiscono entrambi coprendo il 16,3 per cento dei finanziamenti diretti. Seguono il Regno Unito (11,2 per cento), la Francia (10,5 per cento), l’Italia (8,3 per cento) e gli altri Paesi a scendere.
Abbiamo quindi un’alleanza militare che, ovviamente, non si sostiene solo con la presenza fisica ma con la “vil pecunia”. In proporzione, un bilancio che se in generale è da considerarsi alquanto vasto, va riletto in prospettiva rispetto all’attuale estensione del Patto Atlantico.
Ma il problema non è solo sui contributi diretti, ma sui contributi indiretti.
Dicesi contributi indiretti il contributo volontario pari a quanto, in caso di necessità, ogni stato possa mettere sul tavolo. Non parliamo solo di soldi, ma di mezzi.
Soldati, mezzi militari, ma anche medici e supporto umanitario.
Torniamo ora alla metafora del diritto internazionale come pattizio e non cogente. Come quindi accordo e trattato ancor prima che vincolo.
Quando più persone si consociano in un club, lo scopo è evitare il “Portoghese”.
Non tutti potranno portare le stesse cose ad una festa, ma alla fine qualcuno dovrà portare qualcosa.
Puoi portare i dischi, puoi portare le patatine, puoi portare le bibite.
Ma immaginate se qualcuno si presenti a mani vuote, o con la sottomarca del chinotto. Probabilmente il suo ruolo all’interno del circolo ne finirebbe decisamente criticato, se non mutilato.
Nel 2006 si decise di “famo a capisse”, sostanzialmente. Un “Famo a capisse” in cui se uno stato membro mette una certa disponibilità del suo PIL nel bilancio militare si presuppone che, in caso di necessità, le sue risorse saranno all’altezza.
Sostanzialmente, se ti impegni a spendere almeno 1,6 euro a bottiglia per le bibite, gli altri potranno presumere gli porterai la Coca Cola e non il chinotto del discount.
Non un impegno a fornire il 2%, ma un impegno “a lavorarci”, tradotto letteralmente.
Un primo cambiamento c’è stato nel 2014: proprio con l’Invasione della Crimea. Ahinoi, una guerra cambia molte cose.
Nel 2014 si decise che se uno stato non avesse avuto il 2% delle spese militari non avrebbe dovuto ulteriormente ridurle, impegnandosi nei 10 anni successivi, quindi entro il 2024, a raggiungere quell’obiettivo.
Ancora una volta come impegno, tensione verso l’obiettivo.
Un impegno non vincolante, ma considerato come indice di funzionamento. Al di sotto, in una misurazione che potremmo definire “spannometrica”, si considera un’eventuale risposta militare più credibile se ogni stato ha “qualcosa da mettere nel piatto”.
E stabilire un confine, pattizio ancorché non vigente diventa una petizione di principio. Un po’ come in un club può capitare ti sia chiesto di saldare una quota non perché al club serva, ma per provare che ci sei sul serio.
Come indicato nell’articolo di Pagella Politica, non tutti gli stati hanno raggiunto quel 2%, anzi, e non tutti nelle percentuali richieste.
L’Italia è ancora lontana da quel 2%, ma sull’1,4% al 2012 il 20% era destinato ad acquisto, ricerca e sviluppo, cosa non garantita in tutti gli stati.
Il bilancio è la definizione di “coperta corta” per eccellenza. Per prendere da qualche parte dovrai togliere da qualche parte. Ogni singola fonte di spesa viene presa con apprensione: nel 2014 l’attuale Governo Renzi aveva definito l’obiettivo del Il 2% per la spesa militare secondo NATO raggiungibile solo con uno scostamento dai vincoli di bilancio.
Nel 2019 era definito ancora un obiettivo chimerico.
Il 2022 ci ha portato in dono una guerra che nessuno ha richiesto e nessuno ha voluto ma che rimette tutto in discussione.
Non siamo i soli a parlare di aumento di bilancio: anche la Germania ha deciso di muoversi in tal senso e poco fuori dal nostro orticello la Danimarca parla di aumento delle spese Militari.
Possiamo parlare non già di obbligo, ma dell’equivalente di stipulare una polizza assicurativa quando vivi nella percezione che un disastro ti colpirà presto.
Tempi di guerra spingono a decisioni terribili: ci si arma, speriamo, per non dover usare quelle armi.
Un vincolo, possiamo concordare coi colleghi, non c’è.
La paura? L’orologio dell’Apocalisse, il calcolo ipotetico di una distruzione apocalittica dell’umanità resta inchiodato a 100 secondi figurati dalla fine su una timeline di 24 ore per il genere umano.
Il che non significa che l’allarme sia rimasto lo stesso.
Il mondo non ha mai avuto tanta paura: possiamo sentirlo.
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