I guai dell’AI: impiegati Samsung usano ChatGPT, rilasciano dati riservati: questa una notizia che interviene nel dibattito scatenato dalla decisione del Garante Privacy Italiano relativa a ChatGPT.
Decisione immediatamente presa in considerazione da altri stati Europei, come Francia, Germania e Irlanda, nonché dal Canada.
Già a febbraio il Professor Uri Gal, dell’Università di Sidney, aveva definito ChatGPT un incubo per la privacy.
Qualsiasi cosa tu abbia mai scritto fino al 2021 su articoli, siti e post online pubblici potrebbe essere diventata un pezzo di ChatGPT, compresi testi sottoposti a copyright (il professor Gal ha provato a chiedere all’AI un paragrafo di un testo in pubblicazione, ottenendo risposta positiva).
Resta il problema dell’integrità testuale, parte integrante del provvedimento attuale del Garante Italiano: quello che “confido” a ChatGPT dove va?
Problema che si stanno ponendo ora in Samsung.
La nota ditta del settore informatico ha infatti per un certo periodo consentito ai suoi impiegarsi di aiutarsi con ChatGPT. Abbiamo quindi un problema: in almeno tre casi registrati in un mese, gli impiegati hanno usato ChatGPT per farsi scrivere presentazioni di progetti ancora non pronti per la divulgazione e procedure per il controllo di qualità di componentistica proprietaria.
Dati riservati che al momento sono finiti nel database di OpenAI alla mercé di ulteriori leak come quelli avvenuti in passato.
È di poca consolazione il fatto che i dati di ChatGPT vengono usati per il progresso dell’AI “dopo che i dati personali sono stati rimossi”: un leak riguardante dati aziendali non strettamente personali potrebbe cagionare un danno esiziale.
Danno che Samsung ha deciso di tamponare sviluppando una propria AI ad uso interno per gli impiegati.
Il che ci riporta a noi.
Questo getta un’ombra sulla principale eccezione social. Ovvero “ci hanno tolto uno strumento di lavoro, medioevo! È come se il governo avesse tolto a Gutenberg la stampante per favorire gli Amanuensi!”
Il caso Samsung dimostra che abbiamo un problema. Potenzialmente, la teoria del “Io voglio usare ChatGPT per il lavoro” si infrange sul fatto che, così come stanno le cose, un “caso Samsung” in cui qualcuno, per eccessiva fiducia nel mezzo, ha fornito ad un ente terzo informazioni confidenziali e riservate relative alla propria attività lavorativa esponendole al rischio aumentato di un data breach c’è ed è evidente.
E la responsabilità ricadrebbe integralmente sull’utente.
Sarebbe più che altro come se, appena scoperte le stampanti, Paul Revere si fosse recato in una stamperia inglese per farsi duplicare proclami e piani di battaglia dell’esercito Rivoluzionario Americano e quella avesse mandato tutti i dati alla Corona Inglese.
Oggi Re Carlo regnerebbe sugli USA.
Ipotizzate ora lo scenario in cui un duro e puro del “Io esigo che ChatGPT mi aiuti nel mio lavoro perché sono nel 2023” si ritrovi e getti la ditta dove lavora in uno “scenario Samsung”.
Potete immaginare le sue responsabilità.
Ignorare il problema della Privacy in nome del “Giocattolo nuovo” o ipotizzare una “rivolta delle macchine” sono due scenari altrettanto nocivi e deleteri.
Come qualcuno più saggio di noi ha fatto notare che il problema esiste. E che il “blocco” in realtà è termine gergale e atecnico per la “limitazione del trattamento dei dati”.
Il fatto che ChatGPT abbia bloccato l’accesso in Italia significa che un problema c’è, ammesso e la ditta si è presa tempo per risolverlo.
E fino a quel momento sia ignorare il problema che partire con “La privacy cattiva ci toglie i prodigi della tecnologia” sono due errori fatali.
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