I gruppi per le “cure domiciliari” e i danni dell’autodiagnosi: vi prego, contattate un medico
Spopolano su Facebook, Twitter, WhatsApp e Telegram i gruppi per le “cure domiciliari”. Rifacendosi ad una nutrita branca del complottismo per cui esiste una cura miracolosa per il COVID19 “manincielodicono”, tali gruppi riuniscono il peggio dell’autodiagnosi con una nociva Pandemia.
Abbiamo già visto in passato i gravi rischi dell’autodiagnosi. Persone curarsi forme tumorali gravissime col cianuro, cospargersi nei cancerosi di acidi vari rimanendo sfigurati a vita.
Ma anche, in tempi pandemici, persone uccidersi con improvvisati beveroni antiCOVID.
Purtroppo l’autodiagnosi continua a mietere vittime, e il noto medico e divulgatore Salvo Di Grazia (Medbunker) ha avuto modo di raccogliere una dolorosa testimonianza.
Ecco un esempio della setta delle “cure domiciliari”. Una donna ha il marito grave, desatura, sta male e invece di portarlo in ospedale chiede aiuto su Facebook dove ci sono i medici che guariscono “quasi tutti”. Povero marito ma sono scelte eh?
Altro che dittatura sanitaria. pic.twitter.com/o3G0jRWaD1— Salvo Di Grazia (@MedBunker) July 18, 2021
Confermata anche da altri “testimoni virtuali”.
Per chi non capisse il gergo scientifico, abbiamo un uomo che sta malissimo, letteralmente sta morendo.
“Desaturare” è un termine che abbiamo imparato a conoscere in questi lunghi mesi di pandemia. Significa che semplicemente non respiri più come dovresti, nel tuo sangue non c’è abbastanza ossigeno perché tu possa vivere, continui a respirare e ti senti di soffocare.
Ed abbiamo una moglie, probabile parte di un gruppo novax (sembra tenerci a precisare infatti di avere un figlio positivo non vaccinato ed un marito anziano ed a rischio, tra le categorie vaccinabili praticamente da Marzo/Aprile 2021 e non vaccinato) che anziché chiamare un medico chiede improbabili diagnosi online a sconosciuti.
Siamo alla versione 2.0 del congiunto del malato in epoca Classica che andava a chiedere consigli agli avventori dei templi sperando che la divinità li ascoltasse, o al tizio che ferma una trentina di persone davanti al diurno della stazione Termini chiedendo terapie.
I gruppi per le “cure domiciliari” e i danni dell’autodiagnosi: vi prego, contattate un medico
Partiamo da un problema: noi non abbiamo niente contro chi cade vittima di simili meccanismi. Ci dispiace anche. Perché credendo di poter sostituire la medicina coi gruppi per le “cure domiciliari” si muore.
Al momento le cure più promettenti che abbiamo per COVID19 sono le c.d. “Host Directed”: sostanzialmente in un ospedale abbiamo gli strumenti per aiutare un organismo debilitato a sopravvivere nel tempo della guarigione.
Possiamo dare loro ossigeno, limitare farmacologicamente gli eccessi della risposta immunitaria di un corpo che, non vaccinato, non ha la più pallida idea di come funzioni SARS-CoV-2 e letteralmente colpisce a caso.
Ma sono tutte cose che vanno fatte da un medico. E di persona, non per consulti telefonici con sconosciuti alla “Guido Tersilli”.
Sappiamo che FNOMCeO, l’Ordine dei Medici e Operatori Sanitari si è schierato contro la divulgazione improvvisata chiedendo ai loro iscritti che vogliano divulgare informazioni sulle malattie di indicare la propria qualifica, l’Ordine di appartenenza e il numero di iscrizione.
E non per cattiveria, ma per evitare la piaga del “presunto medico”, del “Io sono quasi medico perché studio e mi informo”, “mi mancano solo otto esami ma ho deciso che la Kasta non mi avrà vivo”, “non sono medico ma sono mamma e capisco”, e i suoi danni.
Perché, credetemi, storie come queste non finiscono mai bene.
E quando finiscono bene, è perché sono state inventate per irretire e simulare una superiorità inesistente di un fallimentare “Ghe pensi mi” rispetto alla medicina.
Anche perché, nel momento del bisogno, quando le cose si metteranno male, nessuno dei “gruppi chiusi” vi aiuterà mai.
Chiedetelo ai genitori di L.P., morta perché gli era stato consigliato di toglierle (da diabetica) l’insulina, condannati per omicidio colposo aggravato.
Proprio per aver “chiesto ad altri”.
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