Google cancella i dati della posizione relativi all’aborto: questo è uno dei passi presi dalla compagnia Big Tech.
A seguito della controversa decisione su Roe Vs Wade infatti il diritto all’aborto è sceso dal rango nazionale al rango federale. Rendendo possibile ai singoli stati legiferare, e alcuni hanno già una legislazione rigida al riguardo.
In 5 Stati è già illegale, con alcuni stati in cui è in corso un dibattito legislativo: sia pur non essendoci un divieto di aborto generalizzato, la situazione generale è un balcanizzazione con fortissimi attriti tra singoli Stati e società civile.
Gli USA sono un sistema in cui la sanità è privata. Diverse imprese, tra cui operatori del settore Big Tech hanno già dichiarato che copriranno le spese mediche relative all’aborto. Il che comprende trasferte verso stati in cui è consentito.
Questo è uno dei primi motivi di attrito, coi legislatori degli stati conservatori che già pensano a sanzioni e ritorsioni per le ditte.
Ma non solo. Proprio dal settore Big Tech deriva un’ulteriore minaccia.
I nostri cellulari sono miniere involontarie di dati. Dati relative alla nostra posizione, ai nostri interessi ed alla nostra vita sono a disposizione di tutti.
Non parliamo solo del dato offline, come foto e documenti. Ma parliamo del dato online: la nostra posizione su Google Maps ad esempio. Ma anche i dati conferiti sui nostri account social, o in questo caso, applicazioni come calendari mestruali, prenotazioni di viaggi su Uber o altri mezzi di trasporto e simili.
Specialmente negli stati in cui la legislazione contro l’aborto è stringente, non è peregrino pensare che una donna possa ritrovarsi non solo denunciata, ma costretta a fornire il proprio smartphone come prova.
Un procedimento penale in suo danno comporterebbe la possibilità per l’accusa di investigare a tutto tondo sulla vita della donna.
Un caso da manuale è stato descritto dalla Dottoressa Danielle Citron, docente di diritto in Virginia. Ipotizziamo che in uno degli stati conservatori della “Bible Belt” una donna sia stata accusata di abortire illegalmente, e l’accusa debba provare l’assunto.
Non sarebbe impossibile ipotizzare il sequestro del cellulare. Da questo si accederebbe ad uno dei tanti “calendari mestruali” online ottenendo quindi la data dell’ultimo mestruo e di quello successivo.
Avremmo così un intervallo di tempo. In quell’intervallo di tempo si potrà quindi esaminare la posizione su Google Maps e gli spostamenti sul cellulare.
Tra quegli spostamenti non sarebbe difficile identificare tempo di percorrenza e tempi di permanenza in strutture mediche o già sospettate di fornire l’ora illegale assistenza all’aborto.
E tra le strutture sensibili potrebbero rientrarvi anche obiettivi collaterali. Aprendo allo scenaro di una donna accusata di aborto che si ritrovi con un “buco” nel calendario mestruale e la frequentazione di rifugi contro la violenza domestica.
In tale scenario non sarebbe neppure necessaria l’acquisizione fisica dello smartphone. Basterebbe che ogni singola volta che una donna viene denunciata per sospetto aborto, lo stato di turno chieda accesso ai dati delle “Big Tech”.
A riprova si registra l’interpellanza di un gruppo di Senatori per cui esistono già “leak”, fughe di dati, accessibili previo pagamento, contenente posizioni e attività “sospette” legate all’aborto.
La soluzione scelta da Google è la stessa che ha scelto per la posizione dei profughi fuggiti dall’Ucraina in guerra.
Semplicemente Google ha annunciato che cancellerà la cronologia della localizzazione quando un utente visiterà una clinica per l’aborto, un rifugio contro la violenza domestica o altri posti ‘sensibili’.
Se simili dati non esistono, non potranno essere usati contro la donna.
Un’ulteriore contromisura includerà nuove restrizioni sull’accesso ai dati richiesti dalle singole app, con la necessità di fornire una dettagliata motivazione al riguardo.
Il problema del tracciamento è l’elefante dell’armadio di una società moderna, e come tale va affrontato.
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