Ci segnalano i nostri contatti l’ordinanza ordinanza 45986/2020 del tribunale di Roma, usata per dimostrare “l’illegittimità dei DPCM”.
Più che dimostrazione di illegittimità possiamo parlare di legittimo sollevarsi di un dubbio, dubbio che potrebbe diventare oggetto del diritto amministrativo.
Dubbi che peraltro l’avvocatessa Zeppilli, per studio Cataldi, già si poneva in Agosto (quindi, nei tipici “tempi non sospetti”) esponendo una tesi che ci sentiamo di sposare noi stessi
Nel corso dell’emergenza epidemiologica causata dal diffondersi del coronavirus, il Governo italiano ha fatto ampio ricorso allo strumento del d.p.c.m. per regolamentare la fase del lockdown e per definire i limiti e i divieti ai quali gli italiani sono stati sottoposti in risposta al dilagare della pandemia.
In tale occasione, sono stati sollevati molti dubbi circa la legittimità di tali decreti, che quasi sempre hanno posto degli argini a libertà fondamentali degli individui, come ad esempio quella di circolare senza limiti sul territorio della Repubblica. A essere contestata è stata, soprattutto, la frequenza con la quale si è fatto ricorso a tale strumento, da alcuni considerata eccessiva.
Formalmente, alla base dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri in materia covid-19 vi è stato dapprima il decreto legge n. 6/2020 (articoli 1 e 3) e poi il decreto legge n. 19/2020 (articoli 1 e 2), che, dopo aver elencato le misure di contenimento, ne hanno affidato l’attuazione a uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.
Va inoltre ricordata la sostanziale differenza tra legge e provvedimenti giudiziari (sentenze, ordinanze…): un provvedimento con forza di legge delibera sul caso generale ed erga omnes, una provvedimento giudiziario è un piccolo e sorprendente capolavoro di esattezza che dirime e disciplina una singola situazione.
In questo caso soccorrono i nostri cari amici di La legge per tutti, portale da cui traiamo con piacere conoscenza giuridica di livello avanzato, che ci offre una pratica sinossi dell’Ordinanza 45986/2020, che vi consigliamo di leggere.
La disamina del dottor Remer, magistrato ed ora consulente legale svela una serie di punti che è necessario esaminare per crearsi un concetto del caso di specie.
E il caso di specie è la causa di un inquilino moroso che eccepisce di doversi autopraticare riduzione dei canoni di locazione in quanto
il conduttore aveva chiesto una riduzione dell’importo dovuto al proprietario per i canoni scaduti, in considerazione della «grave crisi scaturita dalla pandemia», ma il tribunale ha respinto questa prospettazione.
La c.d. “parte motiva” è complessa e si poggia su diverse argomentazioni.
Una lunga argomentazione a metà tra l’obiter dicta e la parte motiva, quindi tra preambolo e motivo effettivamente tocca il tema dell’illegittimità dei DPCM, sempre però dal punto di vista del caso di specie.
La questione sulla legittimità del DPCM diventa una delle ragioni per cui il Tribunale ritiene di non aver dovuto essere adito e
“la parte avrebbe ben potuto (e anzi dovuto) impugnare tale atto”
Sostanzialmente, incolpando il DPCM e non la pandemia e agendo previa decisione di un tribunale e non in quella che il Tribunale sembra riconoscere come una sorta di, perdonateci l’improprietà “autotutela legalizzata”.
Vieppiù che, nel prosieguo del provvedimento il Tribunale rettamente cita altri esempi di ristori previsti dai DPCM per altri casi legati alla pandemia, come la sospensione per i canoni di locazione sportivi e i crediti di imposta.
In questo caso di specie, enfasi su questo caso particolare, il ricorrente avrebbe potuto quindi inquadrare la sua situazione come una funzione del DPCM, chiedendo alle corti di giustizia perché il DPCM non forniva ristori adeguati nel suo caso, se fosse legittimo o meno e come agire, non già ipotizzare un ristoro che il Tribunale non rinviene.
Naturalmente siamo ad un’ordinanza: seguirà un giudizio di merito, e confidiamo la faccenda sarà esaminata come merita.
Come ricorda il portale La Legge per tutti,
Inoltre, venendo al caso specifico degli affitti non pagati, secondo il tribunale non c’è nessuna possibilità di ottenere per via giudiziaria una riduzione del canone poiché «l’immobile è stato occupato anche durante la pandemia, e la prestazione corrispettiva, cioè il pagamento del canone, non può venire meno».
A tal proposito, l’ordinanza rileva che l’impossibilità parziale di adempiere non sarebbe comunque definitiva, perché, una volta superata l’emergenza sanitaria, «l’immobile sarà nuovamente e totalmente utilizzabile» e in ogni caso anche durante la pandemia la limitazione» non ha in realtà riguardato l’uso dell’immobile in sé».
[…]
Inoltre, il giudice romano sottolinea che la chiusura imposta dal lockdown di marzo riguardava il divieto temporaneo di esercizio dell’attività, ma ciò «non determina l’impossibilità per il conduttore di utilizzare l’immobile, che è la prestazione dovuta dalla controparte (locatore)».
E allora, in questa prospettiva, neppure la mancanza degli incassi dovuta alla chiusura forzata determina per il conduttore l’impossibilità di adempiere alla propria obbligazione, cioè di pagare il canone, «atteso che il periodo interessato non è tale da esulare dal c.d. rischio d’impresa».
Il tribunale ricorda, poi, che anche durante il periodo di emergenza Covid «l’immobile ha conservato il proprio valore locativo» ed evidenzia che l’eccessiva onerosità della prestazione «deve attenere ad aspetti obiettivi e non alle condizioni soggettive del conduttore», come ad esempio la perdita di reddito.
Il ristoro quindi, non si aveva da chiedere.
Siamo dinanzi a nuove questioni nella Giurisprudenza, e sempre il portale ha censito tutti i mutevoli orientamenti avutisi fino ad ora.
È una questione tecnica lo sappiamo, ma degna di ogni approfondimento.
E se e quando i nostri cari amici del portale “La Legge per Tutti” riterranno necessario esaminare i risvolti che ne seguiranno, saremo i primi a darne ampia pubblicità.
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