Ci chiedono i nostri contatti lumi su una notizia che gira ormai da anni sulla Rete, ed il parere ha assunto nella nostra casella di posta la seguente forma:
Vi scrivo più che per segnalarvi un link bufala o un link da verificare, per porvi una domanda.
Più volte per Facebook leggo persone, in questo caso campane, rimarcare il fatto che il dialetto napoletano sia considerato una lingua ufficialmente patrimonio dell’UNESCO.
La mia domanda è semplice: è qualcosa di reale o è una bufala diventata virale da un bel po’ di mesi a questa parte?
Mi piacerebbe avere delucidazioni.
Ringrazio anticipatamente e mi complimento per tutte le bufale che avete smascherato.
Anche in questo caso, la risposta è un doveroso… ni. Anzi, un no, ma con doverose precisazioni ed un lungo discorso da affrontare.
O meglio, la risposta data al nostro commentatore è una risposta brutalmente semplificata ad un parere enormemente complesso che, a dispetto delle intenzioni di chi ha diffuso la notizia non rende affatto giustizia al vernacolo Napoletano, anzi.
Innanzitutto, nell’elenco dei Patrimoni Orali e Immateriali dell’Umanità secondo UNESCO, settando la ricerca su “Patrimoni Italiani” non risulta esservi il Napoletano:
Che invece figura, ma in una forma diversa e più complessa dalla semplice menzione lingua napoletana, nell’elenco dei linguaggi, ovvero nel gruppo definito South Italian, Italiano del Sud.
Tale gruppo linguistico non comprende solo il vernacolo Napoletano, ma l’intera famiglia dei c.d. dialetti altomeridionali, ovvero:
Preso atto dunque che una parte della popolazione censita ed erroneamente attribuita al napoletano in realtà usa uno degli altri (non meno preziosi) dialetti altomeridionali, ovvero Marchigiano, Abruzzese, Molisano, Lucano, Pugliese (con tutte le sue varianti) e calabrese, possiamo passare ad altre considerazioni.
Ci uniamo alle perplessità del portale napoletanosinasce, che correttamente riporta
L’Unesco pubblica anche in rete un Atlante delle lingue in pericolo, che comporta alcuni equivoci. Trale 32 lingue segnalate per l’Italia figurano:
Siciliano, Piemontese,Italiano del Sud (comprendente Campano e Calabrese), Ligure, Lombardo, Emiliano, Romagnolo, Veneto, Friulano, Sassarese ecc.
In questa suddivisione visibile nel sito http://www.unesco.org/languages-atlas/ già è strano che manchi l’Italiano, che invece nel libro stampato c’è, ma come lingua della sola Italia Centrale. Alcune «etichette» linguistiche fanno poi sembrare uniformi aree molto diversificate al loro interno.Un altro problema è che l’Italiano del Sud o South Italian, inventato per l’occasione, è definito equivalente al Neapolitan: da ciò derivano le convinzioni ricordate all’inizio.
Negli studi linguistici si parla in verità di un Italiano di tipo meridionale, ma in riferimento a un italiano con un «accento» e con certe caratteristiche provenienti dai dialetti meridionali; insomma si tratta di un italiano regionale. Ma un italiano parlato con un «accento» non è certo una lingua diversa dall’italiano.
Di sicuro poi questo Italiano regionale meridionale non va confuso con il Napoletano, che infatti non è un italiano parlato in modo particolare, ma deriva direttamente dal latino.
Tutti i dialetti italiani del resto sono lingue derivate localmente dal latino,i tanti dialetti dell’Italia meridionale ovviamente non sono identici al Napoletano Insomma non possiamo fare di ogni erba un fascio, meno che mai negli studi linguistici che si fondano sull’osservazione delle differenze.
Per tornare all’Italiano del Sud che non esiste, non possiamo parlare di un Napoletano «seconda lingua d’Italia» perché dalle Marche meridionali al Salento e alla Calabria non c’è una sola e unica lingua tradizionale derivata localmente dal latino né, per dirla in breve, un solo dialetto. Infatti non possiamo davvero pensare seriamente che a Lecce, Reggio Calabria Teramo, Matera si parli in Napoletano.
Se affermassimo qualcosa del genere, otterremmo un risultato paradossale, perché, credendo di difendere tutte le lingue e le minoranze, cancelleremmo invece in un colpo solo tutte quelle che possiamo definire «Minimanze», cioè tante lingue (dall’Aquilano al Reggino fino a quelle minime dei piccoli paesi) che non sono mai sembrate ai rispettivi parlanti,né mai sonostate, identiche al Napoletano.
La realtà linguistica, che in Italia ha una sua ecologia fatta di unità e di molteplicità, non si può modificare «in nome della legge», né tramite accorpamentid all’alto, né attraverso patentini o riconoscimenti (nemmeno se fossero veri).
Il Mediano irrompe nel dibattito con una dotta analisi glottologica e filologica:
Il Napoletano purtroppo non è una lingua perché, come diceva il mio prof di glottologia all’università, ha perso una guerra, e mi riferisco a quella contro i Savoia. A Napoli, con l’avvento del Regno d’Italia, è stata imposta una nuova lingua, quella cosiddetta Toscana, la lingua scelta dal vincitore e che, col passare del tempo, si è sempre più diffusa influenzando notevolmente il Napoletano. Non ultimi i mezzi di comunicazione di massa, prima con uno stampo romanesco poi sempre più meneghino, hanno vinto là dove la scuola pubblica non era riuscita ad arrivare, annullando definitivamente ciò che di originale potesse avere ancora la lingua di Masaniello.
Il Napoletano non è disgraziatamente lingua perché nessun nativo la sa scrivere in modo unanimemente riconosciuto, né è capace di produrre documenti ufficiali in quest’idioma e, tranne in sporadici casi (ad es. il Monitore Napolitano, 1799), lo stesso accadeva anche in passato quando si prediligeva il latino o talune lingue straniere per gli atti ufficiali. Ovviamente c’è una vasta e importante letteratura che arriva fino ai giorni nostri ma siamo ben lungi da poterla insegnare nelle scuole o nelle università come accade ad esempio col Valencià in Spagna, dialetto del Catalano ma dall’equivalente prestigio locale; questo accade perché non c’è una grammatica condivisa o conosciuta ai più e senz’altro oggi, per strada non si parla il Napoletano del Cortese e del Basile ma purtroppo neanche quello di Eduardo e Totò.
Non è poi vero che l’UNESCO abbia ufficializzato il Napoletano come suo patrimonio ma è forse vero che sia stato inserito in una lista di lingue in pericolo, accomunandolo ad altre lingue meridionali e italiane e senza premiarlo con blasoni di presunta superiorità, in altre parole, come spesso accade nella rete è questa un’altra bufala o mezza verità spacciata per verbo assoluto e gioia per chi lucra con i banner pubblicitari. Sottolineo poi che la differenza tra lingua e dialetto è una distinzione meramente istituzionale e non scientificamente probabile (esistono tentativi non concordi a riguardo come ad esempio la vicinanza geografica al punto di irradiazione della lingua madre latina o l’isolamento linguistico ma la tesi predominante resta quella socio/politica).
La differenza tra vernacolo e lingua è sovente una mera differenza utilitaria: come riporta la Treccani, enciclopedia per ragazzi
Nemmeno gli studiosi trovano una risposta unica e condivisa sulle differenze tra una lingua e un dialetto. A ogni modo, si può dire che il dialetto potrebbe essere definito come una lingua utilizzata da un gruppo ristretto di persone, in un luogo specifico e che non ha usi ufficiali: si dice che una lingua ha usi ufficiali se è utilizzata nella scuola e nell’amministrazione, per esempio negli uffici pubblici e nei tribunali.
E se nemmeno gli studiosi sono riusciti a trovare una risposta, potete scommettere tutto quello che avete sul fatto che nessun portale, blog, circuito Internet o pagina Facebook ne avrà mai una soddisfacente.
Soffermandosi, come evidenziatl dal Mediano, sugli elementi adottati dalla Treccani per spiegare la differenza tra dialetti e lingua, abbiamo il fatto che nessuno dei ricchi dialetti dell’area Meridionale, pur ricordati dall’UNESCO per il loro valore storico, sia in grado di passare la linea di confine che rende un dialetto “lingua”: non vengono usati in atti ufficiali, neppure nei tribunali. Non hanno usi nella scuola e nell’amministrazione, e sono limitati ad un ambito territoriale specifico (in questo caso, la Campania e le plaghe di emigrazione per il Napoletano, i rispettivi ambiti territoriali per gli altri dialetti).
Ma questo non significa che il dialetto napoletano sia privo di pregio e storia. Anzi: ogni dialetto reca con sé una fetta consistente della storia e della produzione letteraria preunitaria, e sovente anche unitaria.
Nuovamente Il Mediano dà compiutamente voce al nostro pensiero:
Con questo voglio dire che, da napoletano, soffro per la mancanza di una lingua vera e propria da poter utilizzare come mia. Soffro perché nella sua entusiasmante eterogeneità e duttilità risulta talvolta incomprensibile come quando si mettono a confronto un puteolano e un vomerese o chi vive nell’entroterra partenopeo e uno del Vesuviano o della Penisola. Una lingua che ha, e per certi versi continua ad avere, una sua illustre storia ma da qui a definirla tale, alla stregua dell’Italiano o del Catalano o di altre lingue vive romanze universalmente accettate e comprese, mi sembra esagerato per la realtà dei fatti, e ipocrita per l’artificiosità degli intenti, […] ma senza riuscirci o spendere un euro per diffonderne lo studio e la corretta diffusione.
Non è con le vanterie a mezzo Facebook, diffondendo coscientemente bufale e disinformazione che si rende onore ad un linguaggio, lingua o dialetto che sia, ma con l’amore e lo studio quotidiano.
Se tutte le energie profuse a creare memes, link autoincensatori, condivisioni virali e flames nei confronti di chi non ha voluto “credere” nell’ipocrisia del Napoletano seconda lingua ufficiale di Italia patrimonio dell’UNESCO fosse stata usata per promuovere lo studio del dialetto Napoletano e della ricca cultura partenopea, studiare ed insegnarne la produzione teatrale e poetica, promuoverne la cultura e le arti dapprima in Campania, e poi nell’Italia tutta, avremmo valorizzato uno dei più importanti patrimoni.
Ed avremmo, davvero, reso onore ad una pagina gloriosa della storia di tutti.
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