Per tantissimi utenti diffamare sui social è routine. Da quando è nato il nostro servizio abbiamo più volte esaminato casi di persone costrette a ritirare il proprio profilo perché sommerse da valanghe d’odio arrivate da uno o più utenti con il preciso intento di distruggere la loro morale e il loro onore, molto spesso a causa di una bufala. Ricordiamo, ad esempio, il caso di Alfredo Mascheroni che i social indicarono come un mostro pedofilo a seguito di una bufala che circolava sul suo conto. Mascheroni era ovviamente innocente, ma passò delle giornate decisamente da incubo.
In molti casi, come la nostra esperienza insegna, la diffamazione arriva da profili fake creati da persone convinte che l’anonimato garantisca impunità, ma le tecnologie attualmente in uso non lasciano scampo a nessuno. Addirittura, il concorso nel reato della diffamazione può essere attribuito anche a coloro che mettono il like ai loro post e ai loro commenti. Approfondiamo insieme.
Definizione più che semplice: sto diffamando qualcuno sui social se pubblico post, commenti o recensioni raccontando cose non vere, con il preciso scopo di minare la sua reputazione. La Legge Per Tutti parla proprio di “offendere consapevolmente“. La diffamazione è punita dalla legge, come ben si sa, e si fa riferimento principalmente all’art. 595 del Codice Penale:
Chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
In poche parole: se dico in giro che Tizio è un disonesto rischio anche un anno di reclusione; se a Tizio attribuisco un fatto grave non vero (es: avermi rubato dei soldi), rischio fino a due anni di reclusione. Sui social possiamo dire che ogni giorni abbiamo davanti agli occhi esempi di diffamazione. Se facciamo un giro sulle pagine Facebook dei quotidiani, dei politici, degli artisti e dei personaggi famosi troviamo tantissimi esempi, specialmente in quest’ultimo anno costellato da odiatori schiumanti in tempi di pandemia.
Chi usa WhatsApp non è certo esente dall’accusa di diffamazione: anche nelle chat private, se si diffonde un messaggio offensivo verso una terza persona almeno in presenza di due o tre persone, tale reato si configura. Circostanza importantissima, infatti, è che il messaggio diffamatorio raggiunga almeno 3 persone. I tempi di diffusione di un’offesa sui social, come ben sappiamo, sono velocissimi.
Chi mette il like al post diffamatorio potrebbe far scattare il concorso in reato, e troviamo esempio in un caso avvenuto a Parma nel 2014 (qui un articolo dettagliato):
Ne sa qualcosa anche quel signore di Parma che nei mesi scorsi aveva letto, presumibilmente con molta partecipazione, la lite furibonda avvenuta, sempre su Fb, tra due donne infuriate, militanti nello stesso movimento, in disaccordo su questioni organizzative. Quando dalla discussione si è passati alle ingiurie, e una di esse ha fatto volare un insulto all’altra e anche a suo figlio, il signore non si è trattenuto e ha marcato il suo convinto “mi piace” sotto il post. Risultato: l’insultata ha denunciato la sua rivale.
Il pm ha aperto un fascicolo e le indagini della polizia hanno portato – alla fine dello scorso mese di gennaio – al rinvio a giudizio, da parte della Procura, per diffamazione aggravata non solo di chi aveva espresso i giudizi offensivi ma anche a chi li aveva condivisi. E ora tutti rischiano una condanna da 3 mesi a 3 anni o a una multa di 516 annui. Codice penale.
La vittima della diffamazione deve presentare querela entro 3 mesi dalla pubblicazione del post. Il querelante deve fornire il commento/post/la recensione diffamatoria, l’autore e l’intero profilo social da cui è arrivata l’offesa. Contestualmente, deve provvedere a segnalare quel contenuto ai moderatori dei social e fornire uno screenshot di quel contenuto, purché quest’ultimo sia validato da un notaio.
Alla querela seguirà un risarcimento qualora la querela passi in processo penale, durante il quale la vittima dovrà costituirsi parte civile.
Diffamare qualcuno sui social è dunque un reato che può essere riconosciuto in concorso anche verso gli utenti che mettono il like al contenuto diffamatorio.
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