Una storia che ha del macabro, quella delle 27 bare abbandonate in un capannone di Scurelle (Trento) e rinvenute dai Carabinieri dopo le ripetute segnalazioni per i forti odori che arrivavano dal fabbricato. La notizia, presa da un articolo del Fatto Quotidiano, sta ottenendo un certo numero di condivisioni in questi giorni, ma si tratta di una vicenda avvenuta nel 2019. Chi la condivide ignora la data e si convince che si tratti di salme di pazienti morti per COVID-19.
Il 18 aprile 2019 Il Fatto Quotidiano riportava che i Carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico (NOE) avevano ricevuto la segnalazione da alcuni dipendenti di un’azienda che si trovava nei pressi del capannone ex Samatec (come ricorda Alto Adige), infastiditi e insospettiti dal forte odore che proveniva dal fabbricato. I militari, giunti sul posto, avevano rinvenuto 27 bare, 24 delle quali contenevano le salme sigillate in sacchi di plastica e le restanti 3 erano aperte sul pavimento.
Le bare provenivano da varie zone del Veneto e le salme erano destinate ai forni crematori. Per questo i corpi venivano separati dalle bare, inseriti in sacchi di nylon e successivamente sigillati in scatole di cartone per poi essere destinati alla cremazione. Una destinazione che, tuttavia, non veniva raggiunta in quanto i corpi erano rimasti nel capannone, in mezzo ai rifiuti e ai secchi di vernice. Come riportava Il Dolomiti il 18 aprile 2019, una volta che i militari del NOE e la Polizia Locale si sono portati sul posto, all’interno del capannone avevano trovato 3 operai.
Dai primi accertamenti era emerso che la responsabile di quelle bare era una cooperativa sociale della Valsugana in possesso delle autorizzazioni per il trasporto delle salme presso le sedi di cremazione. Anziché assolvere il compito, però, la cooperativa separava le salme dalle bare, scomponeva le casse tra legno e zinco inviava i materiali ai centri di smaltimento della zona. Le salme, successivamente, venivano sigillate in sacchi di nylon, inserite in contenitori di cartone e inviate ai centri di cremazione.
Come riportava La Stampa il 18 aprile 2019, secondo gli investigatori: “Tale modalità di gestione avrebbe permesso di ottenere alla cooperativa dell’alta Valsugana un vantaggio economico dovuto dai minori costi di cremazione, stimato in circa 400 euro a salma”.
L’ipotesi di reato, al vaglio della Procura di Trento, era di vilipendio di cadavere e gestione illecita dei rifiuti.
Secondo l’avvocato della difesa del titolare della cooperativa (scriveva Il Dolomiti il 20 aprile 2019) le salme erano accompagnate da autorizzazioni e lo smaltimento dei rifiuti avveniva in maniera regolare:
I comuni dopo 20 anni chiedono ai famigliari l’estumulazione del defunto per fare spazio. A quel punto i feretri venivano prelevati, sempre su indicazione dell’amministrazione, e trasportati con regolare permesso a Scurelle. Poi i resti dei rifiuti speciali sarebbero stati sanificati e quindi inviati alle aziende, mentre i resti mortali sarebbero stati inseriti in contenitori di cellulosa, accompagnati da etichetta e inviati al centro di cremazione.
Ancora: “Sarebbero state le famiglie alle pompe funebri a scegliere tra la cremazione dei resti dei loro cari con la bara o la ‘traslazione’ che prevederebbe appunto la separazione delle spoglie da legno e zinco“.
Come approfondiva Il Fatto Quotidiano il 19 aprile 2019, un calcolo fatto dai carabinieri del NOE di Trento stimava che in quel capannone erano transitate circa 300 bare, una stima calcolata su un formulario in cui si parlava di 6000 chili di zinco. Le bare erano attese presso i forni crematori con sede a Padova e Alessandria, ma la cooperativa inviava i corpi senza le casse, che appunto venivano trattate con la separazione tra legno e metalli, metalli che – secondo gli investigatori – venivano rivenduti. La cremazione con cassa ha un costo di 800 euro – scriveva Il Fatto Quotidiano – mentre quella senza cassa costa 400 euro, la metà esatta.
Il luogotenente Iannicello, intervistato dal quotidiano, spiegava: “L’operazione riguardante i resti umani avviene solitamente in cimitero, in luoghi attrezzati, dove è assicurata una maggiore dignità. Abbiamo trovato resti per terra, in mezzo ai rifiuti“.
Il responsabile della cooperativa e il suo legale, nonostante tutto, respingevano le accuse e affermavano che tutto veniva svolto in maniera regolare.
La notizia delle 27 bare rinvenute in un capannone della provincia di Trento è vera, ma risale al 2019 e non ha nulla a che vedere con i defunti per COVID-19.
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