Il capitolo di Shadow’s Play di questa settimana parte da Lucca Comics, dove è possibile leggere in lingua originale Replay, fumetto sulla storia di Jordan Mechner in Inglese e Francese.
Fumetto che consiglio di recuperare, ma nel frattempo, potremo rivedere assieme delle note antologiche su quello che sappiamo.
Esiste una costante nella storia dell’informatica retro: il concetto del “ragazzo prodigio” che si fa le ossa e la gavetta partendo dal creare prodotti derivativi e poco ispirati fino a raggiungere la perfezione, e il bisogno di trovare qualcuno che gli dia fiducia.
Jordan Mechner, classe 1964, era uno di quei prodigi, un po’ come Satoshi Tajiri, passato dall’andare a caccia di insetti a diventare il creatore del franchise multimiliardario di Pokémon, anche esso presente a Lucca Comics.
Figlio di una programmatrice e di uno psicologo, Mechner scoprì la sua passione per l’informatica all’Università, quando negli anni ’80 infuriava lo scontro tra i “Grandi Tre”, Apple, Commodore e Tandy.
Mechner scoprì l’Apple II al college, e provò con scarso successo a riscrivere Asteroids. Due volte.
Il secondo prodotto, Deathbounce in realtà non era male. Era Asteroids, ma con la fisica migliorata. Mechner provò a mandarlo alla Broderbund, con quell’arrogante coraggio tipico della gioventù.
Doug Carlston, CEO di Broderbund, a questo punto della storia avrebbe potuto ignorare la spedizione, oppure scrivere al giovane Mechner ordinandogli di smetterla di mandargli giochi scopiazzati.
Decise di mandargli una copia gratis di “Choplifter”, best seller della casa dell’epoca, facendogli capire che chi vuole voleva davvero sfondare nel mondo dell’informatica avrebbe dovuto creare concetti originali e non scopiazzare.
Decise di creare un suo concetto, qualcosa in cui c’è molto, molto del Principe di Persia: Karateka del 1984.
Karateka fu un lavoro corale: riuscì a convincere suo padre, il celebre psicologo Francis Mechner, a fornire le colonne sonore, e creò una fantasmagoria che nella sua mente avrebbe ovviato le limitazioni tecniche dell’Apple II creando una vera e propria storia di azione sulla falsariga dei wuxia, i film orientali dove le arti marziali diventano il mezzo con cui raccontare una storia, dipinta su un Ukiyo-e, l’arte tradizionale della pittura su tavolette di legno, stilizzata ma attraente, coi tratti fiabeschi di un manga.
Proprio dalle origini di “manga a 8 bit” troviamo la scelta dei curiosi protagonisti per un wuxia: il biondo “Karateka” nessun nome e la biondissima principessa Mariko, insidiata e catturata dal malvagio Akuma (nome che significa letteralmente “Demone malvagio”, usato nel folklore giapponese per descrivere l’achetipo satanico).
Karateka in un certo senso è sia tematicamente che nelle origini il prototipo del Principe di Persia e dei mezzi usati. Jordan Mechner creò un intero storyboard, usando il rotoscope per catturare le movenze del suo istruttore di Karate intento a mostrare kata e mosse.
La storia era in realtà, nonostante il tentativo di usare le arti marziali come strumento per la narrazione, un canovaccio: il malvagio Akuma rinchiude la bella Mariko nel suo castello, e il Karateka corre a salvarla.
Durante la corsa egli incontrerà diversi ostacoli, come porte che si chiudono a comando e terreni franosi (simili a quelli del Principe di Persia) e diversi malvagi servi di Akuma, da sconfiggere con un minigioco istantaneo in cui, passando ad una modalità di lotta, bisogna sconfiggerli mandando la loro barra della salute a zero.
Essere sconfitti, come in molti giochi dell’epoca, significava dover ricominciare il gioco dall’inizio. Tra gli ostacoli del gioco comparivano inoltre delle aquile (che vedremo torneranno nell’immaginario di Mechner), inviate da Akuma e che possono essere sconfitte con un calcio rotante ben piazzato.
Una serie di easter egg rendevano personale il gioco: inserendo il floppy di Karateka nel lato B, si sarebbe potuta giocare una versione del gioco “a testa in giù”, in modo da consentire a chiunque chiamasse Broderbund per lamentare uno strano difetto di sentirsi dire “Ma hai provato a girare il floppy al contrario?”
Un altro easter egg prevede entrare nella prigione di Mariko mantenendo però la “posa di battaglia”: Mariko avrebbe sconfitto il suo amato, scambiandolo per un nemico, con un singolo calcio ben piazzato rivelando di essere segretamente più forte di tutti i suoi aguzzini.
Solo entrando in “posa pacifica” si sarebbe sbloccato il finale col Karateka e Mariko che felici fuggono dal castello di Akuma verso la loro vita assieme.
Karateka fu un successo, portato su diverse piattaforme come il Commodore 64 (dove il padre di Mechner potè divertirsi riorchestrando le OST per trarre vantaggio dalla superiorità del SID, il rivoluzionario chip audio a tre voci più rumore bianco del Commodore 64), i computer DOS e il FamiCom e GameBoy, dove Nintendo aggiunse della lore rendendo il Karateka un “Guerriero di Nanto” e un “Maestro Guerriero”.
Karateka sarà un successo immortale, eclissato solo in parte dal Principe di Persia, e avrà un reboot nel 2012 dove i possibili “Karateka” di Mariko sono tre guerrieri, ognuno dalle caratteristiche diverse (il “Vero Amore” di Mariko, un Monaco e un “Bruto”), e terminare il gioco col Monaco e il Bruto comporta un “finale non-finale” nel quale si viene invitati a riprovarci fino a trovare un “salvatore che piaccia a Mariko”.
Mechner ci riproverà nel 1989, col Principe di Persia, violando però una delle regole che si era imposto.
Creerà un gioco non del tutto originale, ma affine a Karateka, questa volta però con atmosfere prese dalle Mille e una Notte e I predatori dell’Arca perduta.
Anche qui ci sarà un forte aiuto del rotoscope: questa volta Jordan Mechner usò suo fratello, ritratto mentre correva e balzava.
Anche qui abbiamo un malvagio, un eroe ed una principessa. Il malvagio Visir Jaffar, mentre il Sultano è lontano dalle sue terre, decide di separare la Principessa ed il suo Eroe, gettando il primo nelle segrete e gettando un incantesimo sulla prima che la ucciderà in 60 minuti se rifiuterà di sposarlo.
L’Eroe ha quindi 60 minuti di tempo reale per scappare dalle segrete, evitare trappole e porte pieghevoli, sconfiggere scheletri animati e guardie inviate da Jaffar e uccidere quest’ultimo liberando la Principessa dalla maledizione.
Come Karateka, la storia si dipana lungo corse e combattimenti, anche qui con una sorta di “minigioco”, basato sulla spada, unico mezzo per abbattere i guardiani e domare un “doppelganger”, un “Principe Oscuro” uscito da uno specchio per tormentare l’Eroe (rubandogli pozioni curative ed attivando trappole) fino al livello finale.
Il Principe di Persia ebbe un successo ancora più esplosivo di Karateka, ma dilazionato.
All’inizio soffrì, e moltissimo, del fatto che l’Apple II era una piattaforma ormai calante, e non ebbe un porting per Commodore 64 se non fanmade perché Commodore in quel periodo era sull’orlo della crisi.
Fu portato per Commodore Amiga e grossomodo tutte le console ad 8 bit, qualcuna a 16 bit e i computer dell’epoca.
Fu lì che il vero successo iniziò, portando nel 1993 ad un sequel con la medesima formula (Jaffar ritorna dalla sua presunta morte, questa volta dando al Principe 75 minuti per sconfiggerlo…) e un sequel in 3D nel 1999, meno amato dall’utenza, nel quale il cattivo è il cugino della Principessa al quale era stata promessa la mano della cuginetta per scopi dinastici e sentendosi derubato del trono, decide di incatenare la stessa ad un complesso meccanismo per poi trasformarsi in una bizzarra tigre mannara e combattere il Principe per vendicarsi.
E fino a questo punto, l’avventura di Mechner potrebbe aver raggiunto l’apice, ma non lo fece.
Di cosa accadde dopo ne abbiamo parlato: come abbiamo visto Karateka ebbe due rifacimenti, anche Prince of Persia ebbe i suoi sequel moderni.
La saga delle “Sabbie del Tempo”, arrivata anche al cinema, rese il protagonista un eroico principe che acquisisce poteri arcani, in grado di mostrare le capacità tecniche delle nuove console.
Nel 2007 si decide di usare le funzionalità della Playstation 3 per lanciare una nuova saga. Una basata su componenti stealth.
Ubisoft dovette affrontare un problema diverso: la ditta aveva la proprietà intellettuale del Principe di Persia, ma non riteneva giusto usarla direttamente.
Era una questione di logica: un principe non fu ritenuto idoneo ad essere un “eroe oscuro” che uccide per il bene della Patria
È un principe: o parte per gloriose campagne militari per salvare il trono, oppure combatte in campo aperto. Il Principe, si decise in fase di discussione, è un “numero due” in attesa di diventare a sua volta Sultano o Re (anche se nella trilogia originale il Principe era decisamente eroico e pronto al combattimento).
Ma per spezzare una lancia in favore della Ubisoft dell’epoca, il Principe era basato su combattimenti eroici, uno contro uno e scontri epocali adatti ad una storia “cinematica”. Il plot del nuovo gioco avrebbe avuto un eroe “stealth”.
Si pensò dunque che a quel punto il protagonista non sarebbe stato più il principe ma una sua “guardia del corpo”. Ma anche così, una guardia del corpo è reattiva e non proattiva. Uccide le minacce che attentano alla vita del principe, non ha facoltà di muoversi liberamente per il Regno.
Il passo successivo fu introdurre una “confraternita degli Assassini” nella storia, proattiva, che il principe avrebbe invocato per sconfiggere le minacce al Regno, con il nostro protagonista come operativo.
A quel punto, arrivati a “Prince of Persia: Assassins”, semplicemente non c’era più bisogno della figura del Principe: l’ispirazione divenne il romanzo Alamut, più una sottotrama sci-fi che lega gli Assassini e i Templari ad una cospirazione durata millenni basata sulla scoperta di una antica civiltà pre-umana di grande potere e saggezza, coi discendenti di alcune stirpi (e, più tardi, ricercatori in grado di fare la stessa cosa senza legame di sangue diretto) pronti a invocare i ricordi dei loro avi e riviverli per dipanare quei misteri.
Assassin’s Creed superò Prince of Persia per fama tra i nuovi giocatori.
Prince of Persia ci lasciò il primo, e più amato, tra i giochi “cinematici”, giochi dove le ambientazioni diventano il pretesto per raccontare una storia, infatti Mechner negli anni era diventato un affermato scrittore, romanziere e regista, nominato agli Academy Awards.
La sua esperienza col mondo dell’arte si traspose nella sua produzione videoludica, e nel recente autobiografia. E tutto nacque perchè gli fu consigliato di “osare” anziché riprodurre supinamente quanto visto da altri.
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