Esiste una regola non scritta nel giornalismo: se una notizia è troppo fresca, se è viralizzabile, se suscita sentimenti forti e crea fame di like allora non bisognerebbe darla.
E non per “censura”, non perché “la stampa non vuole che la gente sappia, la gente deve sapere!!” e altre chimere del complottismo. Ma perché se una notizia è troppo viralizzabile per essere vera, probabilmente i successivi approfondimenti ne ridimensioneranno la portata.
E saprete riconoscere un articolo ben fatto creato per informare da un articolo prematuro, concessione del giornalismo alla fame di like del lettore medio che ne è il peggior nemico proprio dal fatto che un articolo ben fatto arriverà “in ritardo” proprio perché una testata giornalistica o un portale preferirà perdere click e utenti per prendersi il tempo di approfondire.
Lo facciamo noi, che ogni giorno riceviamo centinaia di segnalazioni di cui 70 circa sono richieste di fact checking e 30 sono messaggi di insulti perché non abbiamo risposto a parte di quelle settanta entro la prima mezz’ora e per questo siamo servi corrotti della kasta di Soros che nascondono le informazioni alla povera gente perché Bill Gates, Renzi e Katy Perry ce lo ordinano in nome dei nostri padroni Massoni
Ma quando Il Post, giornale di cui abbiamo già tessuto le lodi per la sua magistrale gestione del Decreto Coronavirus, ha analizzato la vicenda, l’ha fatto prendendosi un giorno di tempo per pervenire alle conclusioni corrette.
Il Post infatti arriva con ritardo, ma mette sul banco le informazioni reali, corrette e verificate, ricordando che i tresti che stanno impazzando nella Rete
riprendono un po’ meno enfaticamente quanto era già stato scritto dai siti dei rispettivi giornali nelle precedenti 24 ore con toni maggiormente scandalizzati e titoli che alludevano al fatto che il trasferimento fosse stato svolto in gran segreto, nascondendo all’opinione pubblica il passaggio di quel materiale a un altro paese, mentre il nostro è nel pieno di un’emergenza sanitaria.
Come ha chiarito l’azienda produttrice nel trasferimento, le cose stanno molto diversamente, anche perché in Italia non c’è un problema di disponibilità dei tamponi, ma semmai di capacità dei laboratori di analizzare così tanti campioni in poco tempo.
Il problema infatti non è nel numero fisico di kit per il test, ma nel fatto che i test di cui parliamo non sono autodiagnostici, ma diagnostici.
Spieghiamo per chi fosse allergico ai “paroloni dei professoroni”: un esempio di test autodiagnostico è il test di gravidanza reperibile in farmacia.
Apri il test, lo esponi ad un campione di urine, leggi il risultato sul test, hai la ragionevole certezza di essere incinta con un numero di falsi positivi contenuto.
I test prodotti dalla ditta di Brescia, indicata in alcuni articoli anche della stampa nazionale col nome per esteso rifacendosi a fonti americane come
Defense One, un sito di notizie che si occupa principalmente di esercito e sicurezza nazionale statunitensi.
appartengono alla seconda categoria, i test diagnostici.
Quelli che una volta eseguiti non puoi leggere, né tu, né il medico di base, né l’operatore che lo ha praticato, ma devono partire per un laboratorio, essere esaminati e nuovamente esaminati per evitare il falso positivo.
Difatti una volta che un test di autodiagnosi ottiene risultato positivo, solitamente si passa al test di diagnosi ancora più accurato, per lo stesso motivo per cui la potenziale puerpera davanti ad un test di gravidanza comprato in farmacia positivo fissa un appuntamento dal ginecologo chiedendo i test più approfonditi del caso.
Accusare quindi una ditta di fare accaparramento di test vendendo all’estero un bene necessario, quando all’estero di fatto sono state vendute scorte eccedenti la capacità del Sistema Sanitario di usare quei test, e sono state comunque vendute in posti dove i test per SARS-CoV-2 cominciano a diventare una necessità è quel genere di notizia viralizzabile, ma inveritiera. Ed il Post ricorda
In Italia dall’inizio dell’epidemia i test svolti sono stati oltre 182mila, quasi il doppio rispetto al dato fornito dall’articolo. Se ne sarebbero potuti fare di più, come hanno segnalato diversi osservatori, ma la quantità non è dipesa dalla disponibilità o meno dei tamponi, piuttosto dalla capacità dei laboratori che poi li analizzano e dalla scelta di effettuare i prelievi solo dai pazienti con sintomi evidenti che facciano sospettare la COVID-19.
In seguito alla pubblicazione dell’articolo sul sito di Repubblica, Copan ha diffuso un severo comunicato per smentire diverse circostanze e chiarire la propria posizione, spiegando per esempio che l’azienda produce milioni di tamponi, più che sufficienti per tutti i clienti:
Nelle ultime settimane abbiamo consegnato agli ospedali italiani oltre 1 milione di tamponi; dall’inizio dell’epidemia, ad oggi, 19 marzo 2020, in Italia sono stati effettuati circa 200.000 test. È evidente che in Italia i tamponi non scarseggiano, tanto che non sono soggetti ad alcuna restrizione all’export, diversamente da altri articoli per uso medicale. Copan da decenni esporta negli Stati Uniti mediante distributori, che servono sia il settore pubblico sia il privato. A causa della scarsità di aerei-merci e dell’acuirsi della crisi Coronavirus, il governo USA ha recentemente organizzato un ponte aereo con un cargo militare per trasportare urgentemente i nostri tamponi.
La stessa Copan ha inoltre spiegato che nei prossimi giorni saranno effettuate altre consegne verso gli Stati Uniti, aggiungendo che “la quantità inviata non è certo ‘impressionante’ rispetto alla popolazione” statunitense. L’azienda ha spiegato che l’accordo commerciale è stato effettuato tramite i classici canali e non di nascosto. Il comunicato si conclude con una riserva da parte dell’azienda di “agire nelle sedi giudiziarie competenti per tutelare la propria immagine”.
Azione legale che, invariabilmente, potrebbe finire a colpire non solo articoli giornalistici, ma anche condivisioni nella blogosfera e rissosi post online.
Tutto questo perché per troppi è importante condividere prima, approfondire poi, quando per noi è importante il contrario.
Perché, dobbiamo confessarvi anche oggi abbiamo ricevuto la nostra trentina di messaggi di persone “indignate e indinniate” pronte a giurare che non gli volevamo rispondere perché “i massoni” e che ci avrebbero subissato di minacce e segnalazioni come nemici del Popolo e della Giustizia.
Ma noi abbiamo deciso, cordialmente, di fregarcene di loro sperando che, mantenuta fede alla loro promessa sparissero per sempre dalla nostra pagina e dalle nostre cassette di posta.
Preferiamo perdere lettori che rendervi un servizio meno che perfetto.
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