Ci segnalano i nostri contatti una condivisione per cui “chi ha ricevuto il vaccino si ammala di una variante più aggressiva”, con espresso riferimento ai vaccini a mRNA.
Condivisione che contiene una serie di leggerezze destinate, senza alcun raffronto, a destare immotivato allarmismo.
Problema: il titolo del testo è stato tradotto coi soliti sistemi di traduzione automatica.
Laddove
“Vaccine breakthrough infection with SARS-CoV-2 Variants”
non può essere tradotto con “Infezioni da vaccino rivoluzionario”, dato che “Breakthrough infection” è un predicato, bensì va tradotto col corretto “Infezioni intercorrenti con la vaccinazione da varianti del SARS-CoV-2”
Ed esprime il dubbio che ci siamo sempre posti.
Ovvero sull’esistenza di varianti in grado di essere così diverse dallo “specimen”, dal “tipo zero” usato per creare i vaccini da sfuggire alla loro efficacia.
Ne abbiamo già parlato in passato: le varianti sono “innocenti fino a prova contraria”.
Vanno considerate con cautela ed esaminate, ma non senza pervenire a verdetti.
In questo caso, lo studio dichiara che esiste almeno una variante per la quale l’efficacia dei preparati in commercio potrebbe risultarne ridotta, la c.d. “Variante Sudafricana”.
Ridotta, non significa comunque azzerata.
Del resto, come abbiamo avuto modo di dire in passato, le cinture di sicurezza dimezzano la fatalità in caso di incidenti altrimenti mortali, e solo uno sciocco deciderebbe di rimuovere le cinture di sicurezza perché “Fatalità dimezzata vuol dire che comunque nel 50% dei casi muoio lo stesso, meglio morire senza la cintura”.
E per quanto riguarda la Variante Sudafricana, abbiamo già appurato in passato come il vaccino Pfizer preservi una certa, corposa efficacia contro lo stesso.
Proprio quel vaccino Pfizer che nella maggioranza dei casi consente di raggiungere immunità sterilizzante e non solo da malattia.
Sostanzialmente, di solito non contrai la malattia, ma quando la contrai (perché nessun vaccino ha efficacia del 100%, anche se molti ci vanno “abbastanza vicino”), lo fai con sintomi assai meno gravi e non con “varianti più aggressive”.
Le varianti peraltro non nascono dal vaccino.
Sappiamo benissimo come funziona un vaccino: una parte del virus, o un virus inattivato, viene esibito al sistema immunitario perché questi impari a riconoscerlo.
Talune varianti, come accade con l’influenza, possono diventare “abbastanza diverse”, quel tanto che basta perché il riconoscimento del sistema inmmunitario ne risulti meno agevole, e sfuggire ad una sorveglianza ferrea.
È il motivo per cui ogni anno la vaccinazione antinfluenzale viene rimodulata sulle varianti più diffuse.
Ma anche il motivo per cui l’Unione Europea si è munita di programmi per rendere lo studio e l’autorizzazione di “formule per i vaccini esistenti aggiornate all’ultima variante” ancora più veloci.
Ed è il motivo per cui studiamo le varianti. Il motivo per cui l’articolo citato suggerisce “l’importanza di una lotta contro il tempo tra i vaccini e le varianti” e suggerisce che, anche nel pieno di una campagna vaccinale, non bisogna abbandonare il distanziamento sociale, il tracciamento dei contatti e il sequenziamento dei campioni ottenuti dagli stessi.
Proprio perché ogni volta che una variante risulterà particolarmente “tenace” si potrà intervenire come si fa con i vaccini antinfluenzali per prevenire.
Il che non significa che “chi ha ricevuto il vaccino si ammala di una variante più aggressiva”.
Significa che in primo luogo evita le varianti più “comuni”, in secondo luogo riduce (anche se non annulla del tutto, ma riduce il che significa molto) il rischio di contrarre eventuali varianti, e significa che qualora emergessero varianti particolarmente resistenti, proseguire il tracciamento e il sequenziamento ci darà strumenti per affrontarle.
Senza panico, senza allarmismo.
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