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C’erano una volta cheat e God Mode: il divino baro nel mondo del retro

C’era una volta il cheat, perché anche il cheat e il cheater, come molte altre cose che diamo per scontate nel nostro universo virtuale moderno, esistevano molto prima di quanto pensassimo e per motivi che possiamo solo immaginare.

Oggi può capitare che un giocatore moderno finisca bannato durante uno streaming, una dimostrazione pubblica e online delle sue abilità in gioco qualora esse si dimostrino essere state fornite da un “aiutino”, da Fortnite a Valorant, da League of Legends a Call of Duty ogni giocatore, parafrasando il grande Stregone Albus Silente (e non è un caso l’uso del termine stregone, come vedremo) “troverà sempre un aiuto, se lo richiederà” (spesso pagando o tuffandosi negli angoli più sordidi della Rete).

C’erano una volta cheat e God Mode: il divino baro nel mondo del retro

In passato? Non fate gli innocentini, vi prego: sapete che il primo cheat della storia è nato col primo gioco della storia. O giù di lì.

Cheat negli anni ’70: la terra dello Stregone

Torniamo assieme in un periodo che abbiamo più volte esplorato: la nascita delle grandi avventure testuali negli anni ’70, con Colossal Cave Adventure e il suo successore spirituale e iniziatore del gioco moderno su PC, Zork.

Come tutti i programmatori William Crowther aveva un enorme problema: un mondo enorme da esplorare in gioco (basato, se ricorderete bene, sulle mappe delle esplorazioni speleologiche effettuate con la moglie Patricia Crowther, esperta programmatrice, speleologa e in grado di tramutare la Mammoth Cave nel Kentucky in un mondo da sogno) e poco tempo per testare tutto.

In un colpo solo Patricia Crowther scopre un passaggio della Mammoth Cave, la mappa del primo gioco di avventura della storia e inventa il bisogno dei cheat

William Crowther ricorse così ad un piccolo artifizio: la parola magica XYZZY (solitamente espediente mnemonico per ricordare il calcolo dei prodotti vettoriali, ma Crowther negherà di esservisi ispirato).

Inserendo il termine XYZZY, scelto perché “non una parola che verrebbe facimente in mente” e perché “le parole magiche devono essere misteriose”, il giocatore/avventuriero/esploratore si sarebbe teletrasportato da una stanza all’altra violando le leggi della fisica per poter testare meglio il gioco, risparmiandosi l’equivalente virtuale delle lunghe esplorazioni della dottoressa Crowther.

Introdusse anche una “Wizard Mode”, la “modalità del Mago” diventata antesignana del God Mode: un utente in grado di inserire alcuni codici nel sistema avrebbe potuto modificare tutte le funzioni del gioco.

Screenshot di CCA

In quanto “stregone” avresti potuto ad esempio aggirare i blocchi messi su copie installate su computer universitari per impedire agli studenti di abusarne in giorni di scrutinio o aprire e chiudere l’accesso all’esterno.

Il termine Wizard Mode tornerà come sinonimo di God Mode in MUD2, antenato di tutti i giochi online, il cui scopo finale prevede far evolvere il proprio avventuriero in uno “Stregone” o una “Strega” dai poteri cosmici e divini illimitati.

A scopo di debug, ovvero per analizzare la propria variante di MUD2, era possibile farsi assegnare da un amministratore o darsi simili poteri, diventando così un’entità onnipotente.

Avrete capito come sono nati i primi cheat code: come mezzo per i programmatori stessi per testare un gioco nel modo più approfondito possibile senza dover essere bravi nel giocare.

L’era commerciale: cheat e trainer

Come abbiamo avuto modo di vedere, nel passaggio dall’era “amatorial-universitaria” all’era commerciale sono cambiate molte cose. Avere un vero e proprio “god mode” nella prima generazione di console di gioco era di fatto impossibile: giochi semplici come Pong di fatto non richiedevano alcun “aiutino”, né era probabile averne.

Quantomeno fino alla seconda generazione, vedasi Atari VCS, cheat e hack erano qualcosa che il creatore del gioco stesso aveva implementato e nascosto o, più brutalmente, errori dati dal “frying”, ovvero accendere e spegnere ripetutamente la console, o manipolando la levettina di accensione in modo da renderla una specie di “dimmer improprio” causando malfunzionamenti dati dalla ridotta alimentazione.

La levetta Power, origine del “frying”

Un esempio di Easter Egg voluto, ancorché privo di vantaggi in gioco, era la stanza segreta di Adventure, citata nel film e nel libro Ready Player One con un messaggio dell’autore per i fortunati giocatori, ma era anche possibile tenere premuto il tasto di reset all’avvio per avere doppi colpi in Space Invaders e simili.

Con l’arrivo della “terza generazione impropria”, ovvero dei giochi per home computer (Commodore VIC20, Commodore 64, Apple II, Spectrum Tandy RadioShack) arrivarono due tipologie di giocatori o loro alleati: l’hacker e lo smanettone, spesso coincidenti.

Anche in quel caso il God Mode era spesso inserito per questioni di testing nel programma: inserire il numero di patente del programmatore in Manic Miner del 1983 ti rendeva automaticamente immortale, e il fatto che ogni videogioco fosse di fatto un programma scritto su computer che caricava istruzioni in memoria consentiva di editare quelle istruzioni.

Il primo Easter Egg della Storia del Videogame moderno

I più abili ci riuscivano da soli, i meno capaci ricorrevano ai “trainers”, ovvero cheat già inseriti e programmati in versioni del gioco. Spesso un gioco con trainer era un simpatico gadget in “omaggio” con una versione piratata.

Abbiamo già parlato del fenomeno della “pirateria da edicola” in Italia, quando giochi piratati e sprotetti venivano venduti, in barba al diritto d’autore dei legittimi proprietari, in tutte le edicole.

Dietro ogni gioco pirata, ricorderete, c’erano gruppi variamente organizzati di pirati spesso in competizione tra loro per la “gloria” di creare il gioco più ricercato aggiungendo più funzioni: tra di esse c’erano i trainer.

Solitamente un menù, preceduto da una “demo”, una composizione grafica e audiovisiva delll’autore che consentiva di impostare l’immortalità del proprio personaggio, colpi infiniti o altre agevolazioni tese a “impratichirsi” col gioco o vederne il finale il prima possibile.

Esempio di Trainer: notare i vari livelli di immortalità

Facilitazioni ovviamente mancanti nel gioco originale e desiderate dai giocatori: del resto, l’etica del gamer dell’epoca era molto, molto diversa.

Abbiamo già visto come anche agli occhi della legge un videogame non fosse altro che “un aggeggio per gente sfaccendata” (Pretura di Torino, 25 maggio 1982), immeritevole di tutela. E spesso i giochi per computer e console erano conversioni di desiderati titoli da Sala Giochi, costruite come vampiri per succhiare gettoni e spiccioli bruciando una vita dietro l’altra.

Per molti giocatori occasionali i “trainer” e l’immortalità di fatto erano un valore aggiunto che impediva, in tempi precedenti l’esistenza del “salvataggio” di dover ricominciare un gioco ancora ed ancora.

Non stiamo ovviamente giustificando la pirateria, ma spiegando il successo ad esempio delle cassette “Napoletane” e “Siciliane”, nome “collettivo” delle cassettine e floppy da edicola ottenuti rivendendo proprio i giochi muniti di crack, trainer e cheat.

Nel mondo Apple II, ad esempio, avresti invece potuto imbatterti in The Great Escape Utility di Moxie, un programma costruito a tavolino per “migliorare Castle Wolfenstein”, di fatto introducendo un God Mode a pagamento in cui avresti potuto “Darti ogni oggtto, in ogni quantità, partire da ogni stanza, modificare la tua mira” e altri hack.

Pubblicità di TGEU

Un piccolo aiuto per tutti gli altri casi

I meno abili potevano comprare le “napoletane” e “siciliane”, o farsi passare il gioco piratato e craccato dall’amico smanettone.

Ma chi non aveva accesso? E chi usava le console, come il Nintendo NES, il Sega Master System e gli altri ritrovati della terza e quarta generazione?

Vennero in soccorso le cartucce cheat: Action Replay, Final Cartdrige III, Retro Replay, Nordic Replay, Game Genie, Game Shark e chi ne ha più ne metta.

Lo scopo era semplice: potevi ad esempio inserire una Final Cartdrige III, una Action Replay III (o il suo clone fatto in Italia “Captain Miki II”, in un incrocio di pirateria informatica plurima) e la cartuccia avrebbe “congelato” il gioco consentendoti di agire sulle aree di memoria del tuo Commodore 64 (spesso con codici forniti in appositi manualetti per i meno pratici, compilati per i giochi più diffusi) introducendo quei cheat preziosi o consentendoti di duplicare il gioco in modo abusivo o creare una sorta di “salvataggio improprio”, congelando (freezando) lo stato del gioco in quel momento per salvarlo su un floppy e riprenderlo dopo.

Capitan Miki II, fonte Internet Archive

Ovviamente i produttori di videogame introdussero, oltre alle protezioni anticopia, le prime protezioni anticheat: alcuni giochi per Commodore 64 ad esempio controllavano la presenza di un floppy drive collegato all’apposito connettore e una cartuccia e rifiutavano di partire fino alla loro rimozione.

Per il gioco su console ovviamente la cartuccia cheat era l’unico modo per “diventare Dio”: sfacciate pubblicità televisive oggi improbabili per tutta una serie di ragioni (anche legali) ti invitavano a comprare il tuo GameGenie da incastrare in cima al GameBoy o al NES con un apposito libriccino pieno di “codici magici” (in realtà le istruzioni da modificare) per ottenere immortalità, fama e fortuna.

Noterete dalla foto che GameGenie era ancora venduta non come “una cartuccia cheat”, ma un “Game Enhancer”, ovvero un “mezzo per perfezionare i giochi”, confermando il concetto del baro come persona non eticamente riprovevole, ma come un utente desideroso di avere “qualcosa di più” per i suoi giochi.

Se vi chiedete come la prese Nintendo, tutt’ora nota per un elevato tasso di litigiosità, la risposta è “male”. Molto male. Nintendo provò a mettere Galoob, produttore del GameGenie fuori dal mercato per vie legali, adducendo una serie di ragioni che oggi sarebbero state considerate del tutto coerenti.

Negli anni ’90 Nintendo trascinò i produttori di GameGenie in Tribunale (o meglio, Galoob adì i Tribunali per veder accertato il suo diritto a vendere il Game Genie suscitando la risposta di Nintendo) adducendo che a. solo esistendo GameGenie usava proprietà intellettuali Nintendo per far profitto danneggiando quindi i guadagni di Nintendo e b. in un mondo in cui, ancora prima del gioco online, i ragazzini facevano già a gara per battere ogni record nei videogames, con Nintendo stessa pronta a raccogliere i record ed elargire premi e gadget ai giovani campioni, GameGenie e simili avrebbero “danneggiato la Cultura Nintendo”, screditando i risultati dei giocatori onesti.

Presunta minaccia all’Ecosistema Nintendo: Game Genie per NES

Fu un nulla di fatto: il Nono Circuito della Corte di Appello di New York decise sostanzialmente che il danno non esisteva. I giocatori dovevano comprare le cartucce NES per avere qualcosa da hackerare, che Nintendo non aveva provato alcun danno economico e che la “cultura Nintendo” non era quindi misurabile come tale.

Cultura Nintendo che vieppiù non era aliena da qualche piccolo aiutino, spesso pubblicato su riviste su licenza come Nintendo Power, come presto vedremo.

I giocatori su computer avevano i loro crack da installare, i giocatori ebbero le loro GameGenie, Action Replay, GameShark e simili, coi codici reperibili in appositi libretti, scaricabili da Internet o “smanettabili” dall’amico esperto.

A questo punto torniamo in quella fase speciale in cui se non puoi battere un nemico, ti toccherà unirti a lui.

Il God Mode legalizzato, parte nel gioco

La stessa Nintendo aveva, ancora prima della causa con Galoob, messo in commercio giochi col God Mode incorporato. Il codice più famoso fu il “Konami Komando” (コナミコマンド), per gli anglofoni e i gamer moderni il Konami Code.

Il Konami Code fu inserito dal programmatore Kazuhisa Hashimoto della ditta Konami nel momento di produrre i port (“Trascrizioni”) da gioco per cabinato a NES dei titoli principali della compagnia, come lo sparatutto a scorrimento Gradius e lo sparatutto arcade Contra.

Il Konami Code: God Mode per tutti

Hashimoto aveva quello che i gamer di oggi definirebbero “un serio problema di skill”, ovvero di abilità. Era in grado di programmare un gioco, ma non di giocarlo fino alla fine per valutare la presenza di eventuali errori di programmazione o reperire betatester con tali abilità.

Introdusse quindi un god mode incorporato, accessibile con la sequenza

alto, alto, basso, basso, sinistra, destra, sinistra, destra, B, A

Opzionalmente, start e select chiudevano la sfilza di comandi facilmente componibili col pad del NES.

Inserito questo comando si potevano ottenere vite aggiuntive e diversi vantaggi in gioco. Come con XYZZY il Konami Code divenne presto sinonimo di cheat e usato come easter egg in altri giochi e persino in altri media. Nel film Ralph Spaccatutto (2012) il Konami Code viene descritto come un codice miracoloso col quale il villain della storia è in grado di acquisire il “potere divino” di riscrivere interi mondi di gioco diventandone il tiranno incontrastato e invincibile, in grado di bandire per sempre o riscrivere le vite dei suoi nemici partendo dal loro passato in modo da sbarazzarsene retroattivamente e più compiutamente che limitandosi a ucciderli.

L’iconico gioco per PC (portato su qualsiasi piattaforma anche non ludica esistente…) Doom del 1993 introdusse sin dall’inizio una serie di cheat code, col prefisso ID (dal nome del produttore) in grado di dare al giocatore ogni singolo potere esistente, dall’attraversare i muri fino a diventare immortale e in grado di manifestare ogni arma possibile.

E se vi dicessi IDKFA ed IDDQD?

Molti giochi dell’Universo Condiviso Apogee/ID Games (composto dalle saghe di Wolfenstein, Commander Keen e Doom, laddove i protagonisti dei tre giochi sono l’uno discendente delll’altro…) degli anni ’90 introdussero il God Mode come mezzo di attrattiva, in Commander Keen descritto espressamente come tale e invocato con la semplice parola GOD o la G.

A questo punto semplicemente il God Mode era ovunque ed in ogni forma. A titolo esemplificativo ricorderemo come nelle varie versioni di Simcity, simulatore della costruzione di una città e della sua gestione nel corso degli anni, sia sempre stato possibile regalarsi del denaro extra o manipolare eventi atmosferici e imprevedibili per mezzo di codici cheat, cosa diventata usuale in altri giochi di simulazione di ditte anche concorrenti come Transport Tycoon di Microprose.

Nella saga di Age of Empires (1997), noto simulatore dell’evoluzione di una città in determinate epoche storiche, i cheat oltre a darti la capacità di sterminare il tuo nemico per atto divino ti consentivano evidenti assurdità come manifestare modernissime auto di polizia, raggi laser e il galeone delll’Olandese Volante con un tocco di tastiera, mentre in Heretic (1994) usare i codici cheat di Doom portava ad una ironica rampogna del programmatore per poi darti l’opposto di quello che chiedevi (ad esempio il God Mode ti avrebbe ucciso il personaggio sul posto, mentre il codice per le armi infinite ti avrebbe privato di ogni arma).

Lo sfacciato manuale di una Action Replay per PSX

Per buona parte degli anni ’90 quindi il God Mode divenne parte del’esistenza del giocatore, sia “regalato” dal programmatore come forma di omaggio e mezzo per invogliarti che come accessorio di “elite” per la tua console di gioco, spesso fondendosi sfacciatamente alla pirateria.

Come alcune Action Replay (si contano infatti nell’elenco anche i “cloni dei cloni”) che promettevano oltre ai cheat la possibilità di giocare giochi di importazione “accecando” il sensore di chiusura del portello della PlayStation con una molla e sostituendo al vostro gioco PAL (le PlayStation erano bloccate per zona geografica) un gioco di importazione di provenienza anche assai dubbia (eufemismo).

Le cose belle finiscono sempre, ovvero gli imbroglioni non vincono mai

Con la sesta generazione di console il gioco online divenne ubiquitario.

Come abbiamo visto in passato, parlando della fine della grande era della pirateria informatica in Russia e della fine della pirateria italiana della “Cassettina da edicola”, sostanzialmente in un certo momento della storia del videogame è diventato più conveniente “mettere la testa a posto” e per l’utente finale l’onestà ha portato più vantaggi della pirateria.

Arrivati all’era del gioco multiplayer online difuso e della banda larga ubiquitaria, sostanzialmente lo scenario descritto da Nintendo in Lewis Galoob Toys, Inc. v. Nintendo of America, Inc. era diventato da ipotesi di scuola e accademia una realtà di fatto.

Realtà di fatto che avremmo visto però di atto con l’ottava e la nona generazione e l’ascesa degli eSports: il “divino baro” era diventato non più un simpatico oggetto di folklore da vezzeggiare e con cui baloccarsi per irretirlo e spingerlo a comprare riviste e gadget dedicati, ma una vera e propria minaccia ad un modello economico basato sulla creazione di eSports, vere e proprie competizioni online.

eSports Palace, Lucca Comics&Games 2019

Sotto gli auspici del DMCA Americano, delle direttive europee sul diritto di autore e di diverse normative locali, non solo i discendendenti dei citati mezzi di cheating furono severamente limitati nell’uso (ancorché, ovviamente, non del tutto scomparsi dai mercati, dovendosi valutare una infinità di fattori che esulano dallo scopo di questa narrazione atecnica riassumibili con la necessità di valutazione dell’uso in concreto e non in astratto), ma i vari produttori di giochi online ritirarono la presenza del “cheat legale”, sostituendolo di fatto con veri e propri watchdog, ovvero cani da guaardia per ostacolare i cheater.

Il motivo l’abbiamo visto nel precedente articolo sulla storia del multiplayer: se in fondo taroccare una partita a MUD2 per essere “autorizzato” a vagare nel mondo virtuale quando avresti dovuto invece studiare per gli esami era un “peccato minore”, coi soldi, la fama e la gloria che girano diventare divinità immortali durante una partita online a Valorant, Splatoon 3, League of Legends o altri giochi famosi equivale di fatto ad essere autorizzati di imbottirsi di steroidi e droghe di ogni tipo sopraffando così gli avversari con con l’abilità ma con l’artificio, danneggiando l’intera cultura del gioco online.

A questo punto, essere banditi in perpetuo o per un lungo periodo dalle competizioni online, eventualità ormai onnipresente in tutte le condizioni di servizio di tutti i giochi più amati, diventa una pena tutto sommato lieve.

Qualcuno ha rischiato la galera per questo. E la cosa ha un senso

Pensiamo ad ordinamenti come quello Nipponico ad esempio, dove si è passati nel volgere di trenta anni dal ragazzino che armato di Game Genie inserisce l’elusivo Mew nella sua cartuccia di Pokemon Verde/Rosso per esibirlo agli amichetti all’adulto che rischia cinque anni di reclusione per aver rivenduto un Pokemon “Quasi Battle Ready”, ovvero quasi pronto alla battaglia creato con mezzi artificiali anziché mediante il tedioso procedimento di cattura/accoppiamento/addestramento (noto come breeding: nel caso esaminato in questo articolo il Pokemon venduto era pre-ottenuto e pre-accoppiato con valori di gioco perfetti, ma da “addestrare”) in gioco con l’Unfair Competition Act.

Ovviamente, un effetto del passare dalle sfide via cavo nel cortile di casa a premi in danaro a cinque cifre e più.

L’attuale panorama è ormai inverso dai tempi di Galoob vs Nintendo: non va più dimostrata l’esistenza di un ecosistema di gioco da proteggere, ma è un dato di fatto che, quando il gioco diventa eSport, il God Mode non diventa solo elusione di mezzi di protezione, ma doping virtuale.

Traccia bonus: i cheat code che non ci sono mai stati

Anche coi cheat code nascono bufale e leggende metropolitane di ogni tipo. Proprio dai tempi ormai remoti in cui il produttore stesso inseriva i cheat nei suoi giochi per motivarti a comprare, cercare e sentirti smanettone sono nate le leggende metropolitane su cheat nascosti in diversi giochi.

Generazioni di piccoli erotomani hanno cercato il cheat per vedere il seno nudo di Chun-Li, affascinante (e per i due anni intercorsi da Street Fighter II: The World Warrior del 1991 a Super Street Fighter II: The New Challengers del 1993, unica) guerriera del mondo di Street Fighter e per sbloccare Sheng Long, elusivo e misterioso guerriero nato da una pessima traduzione di uno dei “taunt”, delle frasi di Ryu apparse in sovraimpressione per mortificare un giocatore sconfitto.

Questo cheat non esiste

Ovviamente entrambi i “falsi cheat” hanno una spiegazione: il “taunt” reale di Ryu recitava “Dovrai sconfiggere il mio Shoryuken (tecnica segreta del personaggio, NdA) prima di battermi”, ma una pessima traduzione aveva ritraslittterato Shoryuken in “Sheng Long”, rendendo possibile immaginare la presenza di un personaggio poi ripreso da una serie di Pesci di Aprile e apparso nell’ultimo capitolo della saga (Street Fighter 6 del 2023).

Per quanto attiene il falso cheat di Chun Li in topless la spiegazione si ritrova negli stessi pruriti adolescenziali che avrebbero portato alla ricerca del cheat per Lara Croft in topless: la presenza nell’ecosistema del videogame nipponico di giochi con tematiche ecchi, ovvero a vari livelli di eroticismo anche nel mondo dei picchiaduro.

Altri cheat prevedevano modi per ottenere Mew ed altri Pokemon Leggendari in Pokemon (tra i quali l’elusivo “Pikablu” si rivelò essere un’anticipazione imprevista di Marill, Pokemon introdotto nei giochi di seconda generazione), un codice per ottenere ERMAC, potentissimo guerriero in Mortal Kombat (nato dal codice di errore ER.MAC, ovvero, “Error Macro”) e altre assurde fantasticherie.

Alcuni di questi finti cheat code sono stati poi ripresi dagli autori dei giochi a fini pubblicitari: nel rifacimento di Pokemon Rosso/Blu/Verde, ovvero Pokemon VerdeFoglia/RossoFuoco per GameBoy Advance cercare Mew “sotto il camioncino” ti elargisce un biscotto utilizzabile in gioco per guarire le energie di un Pokemon ferito e in Ultimate Mortal Kombat 3 apparve davvero un Ermac, guerriero non-morto nato dall’alchimia e dalla fusione empia di una legione di anime di “Kombattenti” (i “guerrieri” di Mortal Kombat) caduti in battaglia nei millenni.

“Spettabile Cheater, dicci come hai barato e forse non ti facciamo del male. Firmato Bethesda”

A metà tra il codice e il non codice, abbiamo ancora delle forme di “modalità di debug” mai rimosse dagli sviluppatori: nel gioco online Fallout 76, open world ambientato in un mondo futuro devasato da una  Terza Guerra Mondiale durata pochi giorni e combattuta con le atomiche, è stata lasciata una “developer room”, una “stanza nascosta” usata dai programmatori per provare tutti gli oggetti di gioco.

I furbetti che nel 2019 sono riusciti a trovare quella stanza ed impossessarsi degli oggetti ivi contenuti, ottenendo dunque enormi vantaggi di gioco e la possibilità di vendere su eBay gli oggetti ad altri giocatori meno abili sono stati provvisoriamente bannati e oggetto di una letterina che chiedeva loro di spiegare nel dettaglio tutte le operazioni compiute per “diventare sviluppatori” (discendenti quindi degli stregoni vintage) per essere forse riammessi al gioco.

Conclusione

In questo mondo forse c’è ancora posto per il divino baro. Ma ironicamente, con la stessa evoluzione data alla divinità dalle religioni: non più gli eroi del mito Greco che camminano tra i mortali pronti a disvelarsi, ma figure occulte, pronte a usare i loro miracoli con parsimonia per non farsi colpire dal maglio del Banhammer, esiliati dal mondo mortale come il divino Ra dopo che la dea Iside l’ha costretto a rivelare tutti i suoi segreti, ormai non più tali.

Nel mondo di oggi è assai più probabile che il produttore nasconda nel tuo gioco un anticheat piuttosto che un cheat code, e ogni Ra pronto a calarsi nel mondo mortale per far sfoggio del suo divino potere avrà non una, ma diverse decine di Isidi alle sue calcagna pronte ad estorcergli e ritorcergli contro i suoi segreti.

Sarà quindi meglio, ma se mi leggete da tanto tempo come penso l’avrete capito, tornare nel mondo del retro: lì potrete emulare l’esperienza di gioco del passato, cheat inclusi.

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