Ci segnalano i nostri contatti un trafiletto che sta comparendo in queste procellose acque di maretta istituzionale
Il Presidente della Repubblica ha un ristretto margine di discrezionalità nella scelta del Presidente del Consiglio (mentre non ne ha alcuno nella scelta dei ministri, formalmente demandata al Presidente del Consiglio), proprio perché egli dovrà tenere nel debito conto le indicazioni che gli vengono date da parte di coloro che sono gli interpreti della volontà e degli orientamenti del paese e delle forze politiche rappresentate in Parlamento.
Parrebbe un testo chiaro, e viene indicato come un frammento del manuale di Diritto Costituzionale per studenti universitari Temistocle-Martines, ed. Giuffrè (nonostante alcuni soggetti abbiano deciso di riattribuirlo a Costantino Mortati per motivi sconosciuti di seguito collegati a mere assonanze linguistiche e concettuali, inevitabili stante la materia trattata)…
E questa parte, ma solo questa parte, corrisponde al vero.
Il problema è duplice però:
Innanzitutto, partiamo dal testo dell’art. 92 della Costituzione
“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri“.
Chi è il soggetto? È evidente, il Presidente della Repubblica.
Qual è l’azione? La nomina dei ministri.
Cosa fa il Presidente del Consiglio? Il Presidente del Consiglio propone, il Presidente della Repubblica nomina.
Nella sua chiara laconicità, in claris non fit interpretatio, non bisogna interpretare ciò che è chiaro, ed in un lungo procedimento dettato dalla prassi Istituzionale consolidata negli anni (e come tale, entrato nella gerarchia del diritto nel gradino più in basso)
In sintesi il procedimento si conclude con l’emanazione di tre tipi di decreti del Presidente della Repubblica:
quello di nomina del Presidente del Consiglio (controfimato dal Presidente del Consiglio nominato, per attestare l’accettazione); quello di nomina dei singoli ministri (controfimato dal Presidente del Consiglio); quello di accettazione delle dimissioni del Governo uscente (controfirmato anch’esso dal Presidente del Consiglio nominato)
Quindi la nomina dei ministri avviene per decreto del Presidente della Repubblica, che il Presidente del Consiglio si limita a controfirmare prendendone doveroso atto.
Prima cosa importante, quindi: il presidente del Consiglio propone, il presidente della Repubblica nomina. Significa che anche se è la persona incaricata di formare il nuovo governo a presentare i nomi dei futuri ministri, è il presidente della Repubblica a nominarli con quelli che tecnicamente si chiamano Decreti del presidente della Repubblica, e che vengono firmati dal presidente della Repubblica. Dal punto di vista strettamente costituzionale, quindi, Mattarella ha il diritto di decidere di non nominare un ministro: e i costituzionalisti sono concordi nel dire che – non indicando particolari criteri per esprimere questa discrezionalità – la Costituzione si affidi al giudizio del presidente della Repubblica nel proteggere l’Italia, l’unità nazionale, gli italiani.
Ma il manuale? Allora il manuale è sbagliato?
No, è sbagliato riportarne un esempio, ed è una di quelle cose che, se fatta da uno studente all’esame, porta alla bocciatura col docente che, guardandoti torvo in viso, ti dice
“E la prossima volta il capitolo lo studi per intero, hai capito candidato?!?”
Perché infatti il Capitolo III del Temistocle-Martines continua dopo la descrizione di quella che si palesa essere una petizione di principio, un cosa potrebbe accadere quando tutto va bene, anzi per me dovrebbe accadere per spiegare cosa invece accade quando, come nel caso di specie, tutto va decisamente a ramengo.
Ciò non toglie che, fermi restando siffatti principi, il Presidente della Repubblica possa, alle volte, specie dopo una crisi di Governo dovuta a frantumazione della maggioranza uscita dalle urne, esercitare una effettiva influenza nella determinazione di una nuova maggioranza poiché, in un regime a pluralità di partiti e politicamente non omogeneo come il nostro (ancora tale anche dopo l’introduzione del maggioritario), non è da escludere che le camere siano in grado di esprimere più di una «formula politica» e, conseguentemente, più di una maggioranza. Ben si intende però che, nello svolgimento della sua azione di moderatore tra i diversi partiti che possono concorrere a formare il Governo, o, ancor di più, di organo compartecipe alla soluzione della crisi, il Presidente della Repubblica dovrà sempre mantenersi al di fuori degli interessi strettamente partitici e mirare soltanto ad assicurare al Paese un Governo che dia ragionevoli garanzie di rispondere all’effettiva volontà popolare e di assicurare il rispetto e l’osservanza della Costituzione.
Un ruolo attivo e propositivo può tuttavia essere assunto, con somma cautela, dal Presidente della Repubblica (quale «magistratura di influenza») in caso di «crisi del sistema» e può coinvolgere, in misura più o meno ampia (a seconda, anche, della personalità di chi ricopre l’ufficio) il modo stesso in cui intende svolgere la propria funzione; come l’esperienza repubblicana ha, soprattutto in questi ultimi anni, ampiamente dimostrato.
Abbiamo evidenziato le parti mancanti dal copincolla ostentato in queste ultime ore e plurievidenziato proprio per venire incontro alle esigenze del discente un po’ pigro che ha bisogno del fido pennarello evidenziatore come succedaneo dell’attenzione.
Gli esempi cui il manuale fa riferimento sono già riportati nella bibliografia evidenziata, che riportiamo
Nel recente passato era già successo che un presidente della Repubblica si rifiutasse di nominare un ministro proposto da un presidente del Consiglio incaricato. La differenza, quella che fa sì che questa volta sia stata diversa da tutte le altre, è che allora il presidente del Consiglio incaricato e la sua maggioranza parlamentare avevano preso atto dell’opposizione del presidente della Repubblica e avevano proposto quindi un altro nome: non si erano, in sostanza, “impuntati” come hanno fatto Lega e M5S, che non hanno accettato di cambiare nome facendo saltare il governo prima ancora che nascesse.
Bisogna tenere presente anche che niente di quello che si dicono presidenti del Consiglio incaricati e presidenti della Repubblica è pubblico, a meno che non lo raccontino loro stessi. Quello che sappiamo delle altre volte in cui ci furono scontri simili, quindi, lo avevamo letto sui retroscena giornalistici, che però possiamo considerare in questo caso sufficientemente attendibili perché largamente concordi su come andarono le cose.
Nel 2014, quando Matteo Renzi fu incaricato di formare un governo dal presidente Giorgio Napolitano, propose il nome del magistrato Nicola Gratteri come ministro della Giustizia. Secondo quanto scrissero i giornali, Napolitano si oppose alla sua nomina, per la quale fu poi scelto Andrea Orlando. La motivazione principale, scrissero i giornali, fu che è consuetudine che un magistrato in servizio non possa ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Ma si disse anche che Napolitano non condividesse l’approccio di Gratteri alla gestione della Giustizia, notoriamente duro e poco garantista, almeno secondo le descrizioni che ne fecero i giornali.
Nel 1994, invece, sempre sul ministero della Giustizia si scontrarono Silvio Berlusconi, al suo primo incarico da presidente del Consiglio, e l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Berlusconi propose Cesare Previti, allora suo avvocato e notoriamente avverso alla magistratura italiana, in seguito condannato due volte in via definitiva per corruzione. Scalfaro ottenne che Previti finisse al ministero della Difesa. Un terzo caso, meno noto, è quando nel 2001 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi si oppose alla nomina – di nuovo – a ministro della Giustizia di Roberto Maroni, per via dei suoi processi in corso per un famoso episodio in cui oppose resistenza a una perquisizione nella sede della Lega Nord. Maroni finì al Lavoro, e alla Giustizia fu nominato Roberto Castelli.
Vieppiù, soccorre all’analisi del professor Riccardo Guastini, per l’Associazione Italiana Costituzionalisti
(i) Sulla tesi che la nomina del Presidente del Consiglio non possa essere frutto di scelta arbitraria si può convenire. Certo il potere del Presidente della Repubblica è circoscritto dalla norma che esige che il Governo ottenga la fiducia delle Camere.
Ma è sbagliato pensare che il Presidente debba atteggiarsi a fedele notaio della volontà di una maggioranza parlamentare già esistente. Intanto, è del tutto possibile che la nomina di un Presidente del Consiglio privo di una maggioranza precostituita abbia l’effetto di coagulare una maggioranza nuova, fino a quel momento inesistente, attorno ad un “governo del Presidente”. Inoltre, non si vede perché mai il Presidente della Repubblica debba essere prono a qualsivoglia designazione di una maggioranza parlamentare già esistente. Se tale maggioranza designasse, poniamo, un noto assassino recidivo, o anche solo una persona imputata di diversi reati, il Presidente dovrebbe limitarsi a prenderne atto? Basta prospettare questa ipotesi (certo di scuola) per rendersi conto che la tesi “notarile” è assurda.(ii) La tesi che il Presidente della Repubblica non possa disattendere la proposta del Presidente del Consiglio circa la nomina dei ministri – ancora una concezione “notarile” della funzione presidenziale – è del tutto implausibile. Chi così pensa ignora la grammatica del termine “proposta” nella lingua italiana: una “proposta” che non può essere respinta non si chiama proposta, si chiama decisione.
È ben vero che il Presidente della Repubblica è “vincolato” alla proposta del Presidente del Consiglio: ma solo nel senso che non può nominare un ministro in assenza di proposta, non nel senso che la proposta sia “vincolante” in senso tecnico. Concretamente: non può nominare alcun ministro senza la controfirma del Presidente del Consiglio, e questo è tutto. Per saggiare la consistenza della tesi secondo cui il Presidente della Repubblica dovrebbe limitarsi a prendere atto delle proposte del Presidente del Consiglio è sufficiente, di nuovo, immaginare – ancora un’ipotesi di scuola, s’intende – che il Presidente del Consiglio proponga alla nomina un noto esponente mafioso, o (che so?) un suo famiglio.(iii) L’idea che il Presidente della Repubblica abbia il potere di nominare il Presidente del Consiglio e i ministri, ma non di revocarli, è alquanto paradossale. Sarebbe come dire che il Parlamento, pur avendo il potere di legiferare, non abbia però il potere di abrogare leggi ormai in vigore. Nessuno osa sostenere questa seconda tesi, ma stranamente tutti – in ossequio alla “teoria generale” del governo parlamentare – paiono convenire sulla prima. Non esiste (la costituzione non richiede) un rapporto fiduciario tra Presidente della Repubblica e Governo, si dice. Se ne trae la conseguenza che il voto parlamentare di fiducia ha il magico potere di santificare il Governo e di renderlo irrevocabile, fino a che la fiducia non venga meno. Non ci si avvede, forse, che questo modo di vedere implica che il voto di fiducia abbia altresì l’effetto di sospendere – di estinguere, seppure temporaneamente – il potere di nomina del Presidente.
Ora, che la costituzione non richieda un rapporto fiduciario tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio è, a ben vedere, una tesi equivoca, resa possibile dal duplice significato (ordinario e tecnico, o semi-tecnico) del vocabolo “fiducia”. La verità è che la costituzione esige che il Governo goda, per così dire, di una duplice “legittimazione”, presidenziale e parlamentare, che si compie in due distinti atti giuridici. Il primo (cronologicamente primo) atto di legittimazione si chiama “nomina”, e spetta al Presidente della Repubblica; il secondo atto di legittimazione (cronologicamente successivo) si chiama “(voto di) fiducia”, e spetta alle Camere. Entrambi gli atti sono disgiuntamente necessari alla legittimazione del Governo. E non vi sono in costituzione basi testuali per sostenere che il voto di fiducia abbia una qualche preminenza assiologica sulla nomina: una misteriosa virtù consacratoria, di cui la nomina sarebbe priva.
Ad offrire una chiave di lettura sul caso descritto nel Temistocles-Martines come crisi di sistema, dettagliandola ed indicandone sentieri ed orizzonti.
Riportiamo anche in calce il fatto che molti utenti su Facebook hanno preso una delle immagini e hanno tagliato solo la parte in alto (quindi passando solo una parte delle informazioni), mentre chi ha riportato valide informazioni rischia di vedere danneggiata la sua immagine, che va difesa. Di seguito riportiamo uno dei thread originali (D’accordo con l’autore con cui abbiamo parlato).
Ci scrivono alcuni condivisori dell’appello rilevando come la dottrina e la giurisprudenza non siano concordi sul tema: e con questo non possiamo che convenirne.
Resta comunque un problema complesso, e le prerogative del PdR vanno valutare caso per caso, sempre in concreto e con un’occhio alla fattispecie del caso.
Niente da vedere: problemi oggettivamente complessi non accettano che risposte oggettivamente complesse.
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