BUFALA Gli americani spesero milioni di dollari per creare una biro spaziale, i russi diedero ai cosmonauti una matita – bufale.net
In tempi di fascinazione per Putin tali da renderlo addirittura il protagonista di un manga in cui l’arzillo presidente russo viene mostrato viaggiare in un mondo fantasy per cavalcare ogni sorta di bizzarra creatura, non c’è alcuna sorpresa se qualcuno rievoca vecchie bufale a tema “superiorità del popolo Russo”.
E per noi, è una preziosa occasione per insegnarvi le cose: dopo avervi rivelato i misteri del Giappone e dei loro insegnanti, nonché avervi insegnato i misteri della Lingua Italiana, passiamo ora per questo capitolo di Non è mai troppo tardi a spiegarvi la bufala della “matita spaziale Sovietica”.
Si racconta che la NASA, alle prese col problema di scrivere nello spazio in assenza di peso, abbia speso milioni di dollari per realizzare una biro col serbatoio d’inchiostro pressurizzato. Senza la pressurizzazione e senza la gravità a farlo scendere, infatti, l’inchiostro non scorreva verso la punta e quindi la biro non scriveva.
Gli ingegneri sovietici, dovendo risolvere lo stesso problema, usarono la loro proverbiale semplicità.
Diedero ai cosmonauti una matita.
La storiella ha tutti i caratteri della leggenda metropolitana che è: un “si racconta” detto da un soggetto amichevole ed impersonabile, l’eterno “cugino che sa le cose”, gli Americani ricchi che spendono miliardi per cose non necessarie e gli astuti sovietici ricchi di astuzia che usano soluzioni semplici ed accessibili al popolano.
Il problema è che se nello spazio ci vanno gli astronauti sotto la guida degli scienziati e non Gigino l’Ubriacone sotto la guida della Sciuramaria, sua madre pensionata, un motivo c’è.
Ed il motivo è che la Sciuramaria non conosce i problemi derivati dalla grafite.
Come spiegò il cosmonauta sovietico Anatoly Solovyev
pencil lead breaks…and is not good in space capsule; very dangerous to have metal lead particles in zero gravity
le mine delle matite si spezzano… questo non è bene in una capsula spaziale; è assai pericoloso avere particelle di mina a gravità zero
Come anche i bambini sanno, una matita è infatti composta da un fusto di legno che custodisce al suo interno una mina composta da grafite, un materiale conduttivo e infiammabile.
Se per avventura provaste a gettare nel vostro computer acceso la polverina nera che si ottiene affilando una matita, nella migliore delle ipotesi otterreste alcune componenti da buttare a causa dei cortocircuiti, come se vi aveste versato un bicchiere d’acqua, nella peggiore un incendio.
In assenza di gravità un qualsiasi materiale diventa un rischio: frammenti di mina e trucioli di matita svolazzano e si infilano ovunque, l’inchiostro di penne di qualità scadente anziché macchiare fogli e mani galleggia via in piccole goccioline nell’aria che dovrebbe servirti per vivere e così via…
Nei primi anni dell’esplorazione cosmica furono esplorate varie soluzioni, tra le quali il cercare di stare attenti (del tutto inefficiente ma meglio di niente), l’uso di portamine meccanici con mina sottile (per ridurre il numero di frammenti infiammabili liberati), l’uso di normali penne a sfera (non sempre funzionanti in ogni condizione) e l’uso di china markers, pennarelli a cera avvolti da un involucro di carta da “strappare” per riaffilarli, abbondanti nelle torri di controllo e negli studi di animazione, dove rispettivamente venivano usate per scrivere su pannelli di vetro informazioni da “trasmettere” da un lato all’altro della stanza e per annotare disegni su acetato. Questi ultimi avevano l’enorme vantaggio di scrivere su ogni superficie e liberare l’utente dalla necessità di affilarle, ma lo svantaggio di liberare l’incarto, sostituendo così i trucioli con altrettanto infiammabili e difficili da riacchiappare pezzettini di carta.
Arriviamo così alla tragedia dell’Apollo 1, distrutta dal fuoco con tutto il suo equipaggio durante un’esercitazione nel 1967, cosa che rese comprensibilmente gli astronauti molto più preoccupati dall’opportunità di portarsi dietro materiale infiammabile o in grado di rilasciare residui di alcun tipo, contemporaneamente, aumentò la necessità di produrre grandi quantità di documenti ed annotazioni di ogni singolo momento della missione, cosa impossibile da ottenere senza strumenti di scrittura validi in un’epoca in cui i computer portatili erano ancora troppo grossi ed inaffidabili e non esistevano strumenti come tablet con tastiere wireless.
Eravamo così arrivati ad un empasse: sia nel blocco Sovietico che nel blocco Americano nessuno voleva avere trucioli di matita che gli svolazzassero intorno o penne biro a macchiare documenti, ma tutti volevano improvvisamente scrivere pagine e pagine di documenti per documentare quello che accadeva nello spazio.
La soluzione la fornì un produttore di penne, Paul Fisher, che ebbe, in modo del tutto indipendente e slegato dal governo, l’idea di produrre delle penne pressurizzate e provare a venderle alla NASA ed alle Agenzie Spaziali che ne avessero fatto richiesta.
A differenza delle normali penne biro, che pure secondo un esperimento del 2003 possono funzionare benissimo, le penne di Fisher avevano l’enorme vantaggio di essere pressurizzate, quindi non rilasciare gas, inchiostro ed essere quel tanto più robuste che bastava per placare le preoccupazioni di tutti, e costare poco meno di tre dollari al pezzo: il costo di una buona penna che useresti per un rapporto ufficiale che vuoi redatto senza macchie, problemi e disagi.
Si sa, l’intuizione è l’anima del commercio, ed il prodotto di Fisher arrivò nel momento giusto e fu un piccolo successo.
Le matite non sparirono del tutto dai programmi spaziali, ma sia nel blocco sovietico che in quello americano poter ridurre gli scarti e le scorie a zonzo per l’abitacolo fu visto come un gran vantaggio.
Ad oggi la Fisher vende ancora penne pressurizzate, e con un certo successo, destinate agli amanti della scrittura comoda, semplice e non troppo costosa.
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