Breve storia degli eSports, disciplina più retro di quanto sembri
Questa settimana anche la rubrica Shadow’s Play celebra i successi Olimpici parlando degli eSports, ovviamente con un’occhio al passato data la rubrica retro.
In passato abbiamo più volte letto assieme su queste pagine del concetto di eSports e dei suoi legami col multiplayer online, ma coglieremo l’occasione di ricordare come le prime gare “eSportive” siano nate prima che esistesse un vero multiplayer.
Non c’è da stupirsi: prima di arrivare alle Olimpiadi del resto i primi giochi erano competizioni sportive di corsa e lotta, ancorché non codificate, dipinte sinanco nelle scritture rupestri.
Breve storia degli eSports, disciplina più retro di quanto sembri
La storia delle competizioni videoludiche di massa comincia esattamente come la storia del passaggio dallo sport alla competizione sportiva. Come ad un certo punto della storia le Olimpiadi resero i giochi sportivi occasione pubblica e sociale di importante rilevanza, immediatamente dopo la nascita del gioco “virtuale” qualcuno decise di appellarsi allo spirito competitivo dei primi giocatori per mettere in palio premi, onori e allori.
Nel 1961 Steve Russell detto Slug, all’epoca giovane programmatore, decide sostanzialmente una delle grandi verità del gaming moderno: il gioco deve nascere per divertire, non come dimostrazione educativa.
Nel 1958 il fisico William Highinbotham decise di creare un gioco del Tennis, Tennis for Two in grado di girare su un oscilloscopio con le racchette controllate da un paddle.
Lo scopo era evidentemente educativo: dimostrare che il progresso della scienza “ha ricadute nella vita di tutti i giorni” e che era possibile avere computer in grado di simulare leggi della fisica e attirare il pubblico ad esso con l’artificio di un gioco (che ora chiameremmo videogioco).
Tre anni dopo Steve Russel decise che no, avrebbe creato un gioco il cui scopo era divertire, punto e basta.
E lo fece creando un gioco per PDP-1 dove due giocatori si potessero sfidare con delle navicelle spaziali, spingendosi fino a creare dei primitivi joystick senza contatti rumorosi per giocare comodamente senza dare vantaggio all’altro giocatore, in un mondo virtuale a bassissima risoluzione dove però fosse possibile usare diverse armi e sfuggire a pianeti e buchi neri.
A questo punto della storia, che ho descritto in un passato articolo, succede che una rivista ancora attiva nel settore dell’intrattenimento giovanile e non solo, il 19 Ottobre del 1972, il Laboratorio per l’Intelligenza Artificiale della Stanford University decise di lanciare le “Intergalactic Spacewar Olympics”, le Olimpiadi Intergalattiche di Spacewars.
Pensando alle Olimpiadi moderne a cosa pensate? A campioni di tutto il mondo che si sfidano per premi e onori. Naturalmente in questo caso non abbiamo avuto campioni “dai più remoti angoli della galassia”, bensì da due dozzine di studenti universitari di Stanford riuniti davanti all’unico PDP-1 attivo per la gloria del campione e un abbonamento alla celebre rivista di intrattenimento Rolling Stone
L’ambito premio toccò a Bruce Baumgart, Slim Tovar and Robert E. Maas, campioni rispettivamente del “tutti contro tutti” e del “gioco a squadre”, riconoscibili per la loro aria tipicamente legata al look del giovane studente “hippy” anni ’60 e ’70.
L’arrivo dei punteggi e la prima premiazione
Negli anni successivi successivi accadde qualcosa nel mondo dei videogiochi che contribuì a creare quello che sarebbe diventato il mondo degli eSport. Come mezzo per invogliare i giovani a videogiocare, e come possibilità offerta dalla creazione di sistemi di gioco dedicati (i cabinati arcade e i videogame per uso domestico) e grazie al gioco sugli home computer dell’epoca, fu possibile registrare i punteggi.
Contemporaneamente Space Invaders (1978) divenne uno dei più grandi successi mondiali, ispiratore di future personalità importanti nel mondo degli eSports come Satoshi Tajiri, creatore del mulitimiliardario franchise Pokémon e successo tale da creare la leggenda metropolitana per cui in Giappone negli anni ’70 era diventato impossibile trovare monetine da 100 yen.
Nel 1980 Atari, autore di una conversione ufficiale del gioco per console, decise di cavalcare l’occasione, radunando diecimila giocatori da ogni angolo di America, con tanto di selezioni regionali e locali, allo scopo di incoronare il campione nazionale.
Nacque così lo Space Invaders Championship, in nuce dotato di tutti gli elementi che attribuiamo ad un moderno eSport. Selezioni, una campionessa, ovvero Rebecca Ann Heineman (all’epoca William Salvador Heineman), prima campionessa di una competizione coi caratteri moderni,
Rebecca Heineman era, come molti giovani dell’epoca, una “hacker per necessità”, e probabilmente neppure si sentiva tale: impossibilitata a comprare cartucce per Atari 2600 dalle scarse disponibilità economiche, imparò da autodidatta a programmare copie di cartucce, per poi passare a studiarne il codice e modificare/creare pochi giochi.
Sull’onda del successo alla S.I.C. l’allora diciassettenne ricevette offerte di lavoro come giornalista e scrittrice per testate sul videogame, e dopo aver messo a curriculum il suo passato da programmatrice autodidatta finì al lavorare nel settore, collaborando alla creazione di giochi come Wasteland, il protitipo spirituale della saga di Fallout e per la saga di A Bard’s Tale, della quale sviluppò il terzo capitolo.
Continuò la sua carriera senza sosta: nel 2003 la transizione di genere, nel 2013, dalle ceneri di Contraband Entertainment fondò Olde Sküül, compagnia di cui è tutt’ora CEO.
La creazione dei punteggi ebbe un effetto collaterale gradito ai giocatori ma sgradito ai loro genitori: avevi un modo oggettivo per misurare la tua bravura.
La leggenda metropolitana di Polybius nacque anche in questo modo: ne ho parlato in un precedente articolo.
Parentesi: dal ludo alla ludopatia
I primi casi di ludopatia e “incidenti sportivo-professionali” legati al mondo degli eSport nacquero sostanzialmente coi primi tornei ufficiali.
nel 1981, con la diffusione massiccia dei videogames nelle sale giochi e nelle case degli occidentali (bisognerà aspettare circa un decennio in Russia) anche i problemi medici diventarono evidenti e raggiunsero la stampa, aggiungendo timore e diffidenza per quello che era già percepito sovente come un “passatempo per gente sfaccendata”.
Vi sto confermando che prima del 1981 non era frequente come lo è adesso l’invito a “giocare in locali ben illuminati, mantenendo la distanza di due metri dal monitor e prendendosi frequenti pause evitando effetti luminosi”. Anzi, l’effetto luminoso era parte del fascino del gioco.
La “scoperta” dei problemi alla salute legati a quella che oggi chiameremmo ludopatia, ma anche fermandoci un gradino dietro la scoperta dei problemi di affaticamento oculare, tendiniti e tunnel carpale, portò nelle cronache degli “anni di Polybius” eventi che oggi considereremmo normali, anzi un po’ ingenui ed assurdi.
In quegli anni furono coniati termini come “nintendonitis“, ovvero la tipica combinazione di tendiniti e artriti da movimenti ripetitivi nata proprio con l’uso continuato di joystick e joypad che all’epoca non erano progettati per l’uso ergonomico e l’uso immersivo del videogioco aumentò nelle famiglie la percezione di problemi di salute fino a quel momento se non inesistenti sottovaluttati e trascurati.
Nel 1981 sulla stampa appaiono i primi casi di quella che forse chiameremmo ludopatia: il giovane Brian Mauro di Portland, tredicenne, nel novembre del 1981 decise che per battere il record mondiale di Asteroids sarebbe stata un’ottima idea ricorrere ad un piccolo aiuto della caffeina per tenersi sveglio per il tempo previsto.
Aveva solo tredici anni, e non poteva né permettersi né convincere i suoi genitori a fargli ingollare thermos di caffé: ebbe però la geniale idea di convincere i suoi genitori a portargli gli avanzi del cenone del Ringraziamento, diverse bottiglie di Coca Cola (bevanda con caffeina e zucchero), una sedia imbottita (le sedie gaming non esistevano) e un paio di guanti assai robusti per evitare escoriazioni. Il suo geniale piano di superare il record mondiale di Asteroids si infranse ventotto ore dopo con un fortissimo attacco di dolori gastrointestinali e scariche di diarrea che lo costrinsero ad abbandonare la tenzone e correre in bagno.
Parimenti i limiti di quello che avrebbe reso necessario ai futuri campioni eSportivi allenarsi come i campioni dello sport fermò il record del giovane Mario Lopez, che in quegli stessi giorni puntava al record di Tempest! e finì invece a vomitare nel parcheggio della sala giochi in preda a forti emicranie.
Divenne chiaro a tutti che non tutti avevano “il fisico” del campione, e nel bene e nel male gli eSports erano arrivati alla stampa. Per parlarne bene e dare lode ai vincitori, o per parlarne male e diffondere leggende metropolitane su quanto i giochi “corrompessero i giovani”.
Da Donkey Kong al NES Championship
Nel november del 1982, Billy Mitchell stabilì il primo record di Donkey Kong con 874.300 prima di mandare in crash il gioco (a quell’epoca raramente i giochi arcade avevano un finale: andavano avanti finché il cabinato reggeva).
Uomo dei record, alcuni contestati in modo tale da costringerlo a difendere i suoi risultati con ogni mezzo, anche legale, Mitchell da giovane fece parte del momento in cui l’ultima componente dell’eSport moderno venne a nascere.
Walter Aldro Day Jr., arbitro e gestore di una piattaforma autorizzata dal Guinness dei Primati per stabilire record e punteggi per le competizioni eSportive, chiamata Twin Galaxies come una sala giochi di sua proprietà e dove Billy Mitchell aveva compiuto i primi record, assemblò un team di campioni, tra cui Billy Mitchell, per un tour di 40 città che però non ebbe il successo sperato.
I campioni furono poi inseriti nel U.S. National Video Game Team, prima vera squadra contrattualizzata di campioni e-Sportivi, autorizzati dal Guiness dei primati a tenere competizioni ufficiali e sfidare campioni Americani e mondiali.
Nel 1985 il National Video Game Team organizzò la loro prima competizione ufficiale, in collaborazione con la Croce Rossa, sfidando per beneficienza campioni di Karate Champ (1984), Kung-Fu Master (1984), Commando (1985) e Gridiron Fight (1985), all’epoca i titoli più rinomati e amati, iniziatori peraltro dei generi più praticati negli eSports precedenti i MOBA: i picchiaduro e i giochi sportivi.
Col tracollo di Atari (che peraltro spinse Twin Galaxies ad abbandonare il mondo delle sale giochi per diventare organizzazione arbitrale a tempo pieno), lo U.S. National Video Game Team continò ad organizzare competizioni, includendo il NES tra le console usate.
Questo aprì la pista a Nintendo, che nel 1990, in un mercato reso ormai maturo per le competizioni eSportive e popolarizzato dal film Il piccolo grande mago dei videogames (1989), un enorme product placement per Nintendo (il cattivone Jimmy esibiva fiero un Power Glove, oggetto altrimenti inutilizzabile, l’eroico Jimmy, il “Piccolo Grande Mago” del titolo esibiva la sua bravura “mainando”, ovvero diventando maestro di Super Mario Bros 3, gioco appena uscito, al primo tentativo), fece partire i NES Championship.
Competizione che recentemente ha avuto un titolo commemorativo per Nintendo Switch basato sulla stessa premessa: trasformare i giochi più famosi della casa (negli anni ’90 Super Mario, Tetris e Red Racer) in “speedrun”, gare a tempo dove si premiano i più rapidi, in modo che i più veloci e capaci accumulino punteggio nelle tre “discipline” per trionfare.
Jeff Hansen vinse tra gli under 11, Thor Aackerlund nella categoria 12–17 e Robert Whiteman tra i maggiorenni: tutti i finalisti ebbero la cartuccia speciale coi giochi modificati, divenuta un costoso feticcio che Nintendo rimise in vendita in edizione ultralimitata e recentemente ha ricreato come “steelbox”, scatola speciale, per una collezione di giochi vintage in modalità speedrun per la Switch, come abbiamo già visto.
Nintendo fece il bis nel 1994, e gli eSport arrivarono anche in TV e sui media: sempre negli anni ’80, in Inghilterra vi erano competizioni in TV di classici amati dagli europei come Paperboy, 720 Degrees e Hypersports, seguito del Track&Field che vedremo nel prossimo capitolo.
Ora tutti gli elementi dell’eSport moderno erano a posto: sponsor danarosi pronti a investire, team di giovani campioni pronti a tutti, pubblicità e interessi conomici in ballo.
Track&Field: la competizione olimpica da record
Sempre nel 1984 Konami lanciò una competizione mondiale di Track&Field, il primo “simulatore olimpico” della storia del videogame arcade, preceduto nel gioco domestico da Decathlon un anno prima.
Si trattava di un gioco basato sulle discipline di atletica leggera delle olimpiadi, e fu l’araldo del genere “smanettamento” o “ammazzajoystick”. Per simulare sostanzialmente la prova muscolare di atleti e corridori si chiedeva al giocatore di muovere la leva del joystick o pigiare i tasti in modo il più rapido possibile e con un ritmo costante, col risultato di costringere molti aspiranti atleti e diversi giocatori amatoriali a sostituire diversi joystick nella loro carriera in quanto completamente demoliti dal ritmo sincopato.
Il campionato di Track&Field permise di raccogliere una ingente somma di denaro per March of Dimes, associazione a tutela di puerpere e neonati, entrando saldamente nel Gunness dei Primati come la competizione esportiva più grande di ogni tempo
Mancava un solo elemento: un mezzo per rendere quelle sfide facili.
L’arrivo di Internet
Per molto tempo infatti ci si affidò a vari modi per misurare i punteggi: il Guiness dei Primati ad esempio, mediante Twin Galaxies.
Nintendo ad esempio aveva già imparato ad usare strumenti come il Twin Famicom e il Nintendo Floppy Disk System per creare una sorta di ladder (leaderboard, elenco punteggi) nazionale giapponese. I ragazzini che accedevano ai chioschi per copiare legalmente giochi su appositi floppy potevano depositare i loro punteggi che sarebbero stati raccolti per dare loro premi di vario tipo, dai Game&Watch a giochi altrimenti non reperibili.
Era anche ammesso inviare prova dei propri successi alle varie riviste del settore, e l’ascesa di picchiaduro come la saga di Street Fighter (le varianti del II e la serie prequel Alpha) e Mortal Kombat resero facile creare campionati come gli EVO, in cui riunire campioni da tutto il mondo per sfide al meglio dei tre.
Del resto in un picchiaduro non hai che da vedere chi è che controlla l’ultimo personaggio rimasto in piedi, con tanto di momenti emozionanti e di impatto mondiale come il “Daigo Parry”, rivincita in cui il campione Daigo Umehara strappò a Justin Wong la vittoria parando quindici attacchi di fila quando il suo personaggio era sull’orlo della sconfitta per poi ribaltare completamente la situazione in una vittoria degna del Rope-a-dope di Muhammad Alì.
Qualcosa di nuovo accadde proprio sul finire degli anni ’90: Internet cominciò a diffondersi, e tutto divenne assai più facile.
Abbiamo già letto assieme come il gioco online esistesse già da molto prima delle connessioni di massa, ma negli anni ’80 successe che dal successo di Doom e Quake nacque l’FPS (il first person shooter) moderno, consentendo ai giocatori di sfidarsi online, e “mod” (modifiche) del mondo fantasy di Warcraft aprirono la via del MOBA, giochi a squadre con team professionisti pronti a convergere sulla vittoria.
Merita in tutto questo una menzione speciale Starcraft, il nuovo Sport Nazionale dei Sudcoreani ai primi del 2000.
Mentre il mondo scopriva le gioie degli eSport, la Corea del Sud usciva da una drammatica crisi economica e finanziaria e una fortissima transizione al digitale voluta per cercare di evitarla.
Avevamo quindi l’humus perfetto di grandi quantità di giovani disoccupati, strutture tecnologiche all’avanguardia e il concetto di eSport come ormai pari allo sport.
Il governo Sud Coreano avrebbe potuto, come in Italia per decenni, scrollare le spalle e dichiarare che i videogames erano “passatempi per gente sfaccendata”.
Decise invece di registrare il primo uso moderno della parola eSport, inserire gli eSport (con appositi uffici) tra le discipline tutelate dal Ministero per la Cultura, lo Sport e il Turismo, trasformando così i giocatori di Starcraft in celebrità nazionali.
Il mondo degli eSport oggi
Quando ho iniziato a scrivere questa rubrica mi sono dato una regola aurea: considerare come limite per il retro quello che Nintendo definisce “vintage”, quindi fermarmi al GameBoy Advance e al GameCube.
Non vi tedierò entrando dunque nel dettaglio col mondo degli eSports moderni, ma possiamo usare il mondo moderno come epilogo di questa vicenda.
Non in tutto il mondo, non per tutti gli spettatori possibili, purtroppo ci sono ancora commenti da tregenda ogni volta che l’Italia esprime un suo campione valevole per le competizioni mondiali, e tutti riassumibili con “trovati un lavoro e vai a faticare, i videogiochi non sono sport lo dice ammiocuggino”, ma gli eSport oggi sono una disciplina affermata.
Dopo la Corea del Sud anche la Cina si è unita a chi ha dato regolamentazione agli eSport, salvo poi vietare il videogame ai minori in quanto “droga digitale” mettendoci in una ipotetica situazione pari ad una nazione che introduca leghe calcio ma vieti gli oratori ai ragazzini sicché essi abbiano il primo incontro con un pallone da calcio quando sarà tardi per apprenderne la disciplina.
Parimenti la Russia ha codificato il “cybersport” nel 2001, salvo cambiare idea nel 2006 e di nuovo nel 2016.
Il CIO ha più volte corteggiato la possibilità di far entrare gli eSport nelle discipline Olimpiche, decidendo proprio a ridosso di Parigi 2024 che probabilmente i tempi non sono ancora maturi, e nostante in passato abbia espresso cauto ottimismo per l’ingresso di giochi a tema sportivo, bisognerà attendere un altro po’.
Speriamo non un altro mezzo secolo.
Proprio ad agosto 2024 i Campionati Mondiali di Pokémon ad Honolulu daranno una dimostrazione del meccanismo e dei possibili eSport, ospitando nello stesso punto tornei di giochi di carte collezionabili, tornei di videogiochi per console (Pokémon Scarlet/Violet), per dispositivi mobili (Pokémon Go) e ricordiamo che in passato, fino al 2022, vi era anche il picchiaduro Pokken Tournament DX, sostituito poi da Pokémon Go e dal MOBA Pokémon UNITE.
Tutt’ora ci sono tornei di Smash Bros!, picchiaduro coi più famosi eroi Nintendo, gare di Tekken, Call of Duty, Rocket League, Valorant e Fortnite.
Traccia bonus: il problema del doping digitale
Anche qui ne ho accennato in passato: se nel mondo fisico esiste il problema del doping e dell’idoneità atletica, barare ad un eSport non è impossibile.
E parliamo di ogni tipo di doping: ad esempio l’evoluzione del ragazzino anni ’80 con la pancia piena di Coca Cola, tacchino scaduto e caramelle per tenersi sveglio è, purtroppo, il campione pieno di Adderall e altri stimolanti “da banco”.
Ma se il corpo e la mente possono essere dopati per avere vantaggi, anche altri generi di imbrogli, noti al mondo fisico e possibili solo nel mondo virtuale, lo sono.
In almeno un caso (purtroppo tra tanti), un giovane atleta eSportivo Sudcoreano fu radiato per sempre da ogni federazione e incriminato per aver venduto una sua sconfitta a tavolino, si sospetta per pagare debiti legati al gioco d’azzardo.
Gli FPS vedono l’uso di aimbot e ghost, aiuti tecnologici per migliorare tecnologicamente la mira e diventare invulnerabili, specie durante le competizioni online “da casa” per accumulare punteggio, oltre a meccanismi per sfuggire a questi controlli.
Più bizzarra la situazione per i campionati di Pokémon: incredibile ma vero, è possibile essere incarcerati per la vendita di animaletti virtuali contraffatti, almeno secondo le più restrittive normative Giapponesi sul diritto d’autore e nel 2023 si è avuta una “tempesta perfetta” di aspiranti campioni squalificati per “genning”, ovvero per aver iscritto animaletti virtuali “perfetti” creati con strumenti esterni al gioco anziché con le meccaniche interne (che prevedono, di fatto, far accoppiare diverse generazioni di animali in cerca di quelli con le statistiche migliori), con statistiche “fai da te” che dimostrano come l’80-90% dei giocatori abbia almeno un animaletto generato in quel mondo, specialmente tra i “leggendari” (categoria non ottenibile mediante accoppiamento ma solo in gioco).
The Pokemon Company International in questo ha reagito col bastone e la carota: negli ultimi anni sono stati introdotti diversi strumenti di gioco per “cambiare” alcuni valori sgradevoli del proprio animaletto virtuale senza trucchi esterni (tappi di bottiglia per far salire una delle sei statistiche, “mente medicamentose” per “cambiare la natura”, ovvero redistribuire i bonus-malus delle statistiche stesse), ma che rendono ancora difficile procurarsi determinate combinazioni (ad esempio Pokémon con una particolare statistica, spesso velocità e attacco, a 0 naturale).
Abbiamo quindi discipline, campioni, sponsor e persino il doping: cosa manca ancora?
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