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Arrivano i ninja, ma non sono come ve li aspettate

Tutti amano i ninja. Li abbiamo visti al cinema, in TV, nei telefilm, nei cartoni animati. E siamo abituati a riconoscerli in due specie: il ninja maschio, che chiamiamo ninja e basta, bardato dalla testa ai piedi della sua brava tutina nera col cappuccio pure nero da cui si vedono solo gli occhi che fa bizzarre magie, lancia pugnali e stelline ninja e uccide vigliaccamente i samurai alle spalle e le kunoichi, le “ninja donne” che si fondono al mito indiano delle Vishakanya, le “donne velenose” che uccidono e dominano le menti durante l’amplesso (popolarizzate da romanzi come “The Kouga Ninja Scrolls” del 1958).

Arrivano i ninja, ma non sono come ve li aspettate

In realtà va detto che se potessimo tornare indietro nel tempo al 1400 circa, non saremmo in grado di riconoscere un ninja (anzi, vedremo, uno shinobi). Non grazie alle loro virtù magiche perché nascosti nelle tenebre, ma perché in realtà non esisteva una “divisa ninja” e le arti dello shinobi prevedevano lo sparire in piena vista.

Probabilmente il mendicante al quale avresti buttato due monetine nel cappello chiedendogli se aveva visto un ninja saltare sui tetti avrebbe potuto essere il ninja che cercavi, la donnetta insignificante che hai visto tirare un carretto di chincaglierie da due spicci per venderle al mercato la “pericolosissima e seducente kunoichi” che ti aspettavi di incontrare e il tizio che attaccava briga in cortile con un altro tizio poteva essere il ninja più ninja di tutti.

Il ninja non esiste: lo shinobi assai probabilmente sì

Il “Vocabulario da Lingoa de Iapam”, dizionario Nippo-Portoghese redatto dai Gesuiti nel 1603 descrive lo shinobi come “una spia che in tempo di guerra si infiltra clandestinamente o di notte in castelli e nelle fila del nemico per ottenere informazioni”.

Sostanzialmente uno spione maestro “le cui arti ninja” erano semplicemente quello che ancora oggi viene richiesto ad un’ottima spia. Ovvero sangue freddo, capacità di passare inosservati, ottime conoscenze di combattimento pratico e arti marziali applicate, niente di elaborato o “vistoso” come in un episodio di Naruto a caso, abbastanza per portare a casa il risultato.

Per quanto sorgano legittimi dubbi sull’esistenza del ninja come guerriero invincibile dai poteri mistici e sovrumani, personaggi identificati come Shinobi hanno plasmato la storia del Giappone dalle radici: Tokugawa Ieyasu, fondatore dello shogunato Tokugawa nel 1603, fu salvato da uno shinobi identificato come il personaggio quasi del rango di “Eroe Folk” Hattori Hanzo, e laddove noi abbiamo il mito di Robin Hood, un simile personaggio in Giappone è lo shinobi Goemon Ishikawa (sì, quello che ha ispirato l’amico di Lupin dallo spiccato spirito competitivo e l’etica a metà tra il ladro e il samurai…), descritto come un personaggio che rubava ai ricchi per dare ai poveri e per questo finì bollito vivo in un calderone, impressionando tutti perché col suo ultimo atto da vivo riuscì a salvare il figlio da una simile sorte.

Illustrazione tradizionale di Hattori Hanzo

Gli storici quindi sono certi che il “ninja alla Naruto” che evoca bizzarre creature, sparisce in una nube di zolfo, si moltiplica e fa tiri da cecchino coprendo distanze da Iron Dome con una “stellina ninja” o un kunai (il tipico pugnaletto) non sia mai esistito, ma siano esistiti un nutrito gruppo di spie in grado di usare diversi tipi di armamento.

Il tipico shinobi poteva quindi vagare vestito da monaco e usare il bastone da passeggio per massacrare il suo nemico di botte alla bisogna, oppure vestirsi da contadino e usare un falcetto legato ad una catena come contundente (diventato per questo una “arma tradizionale ninja”), coltelli da giardinaggio e piccole armi nascoste. Oppure la tipica kunoichi non aveva bisogno di improvvisarsi gran seduttrice quando poteva semplicemente vendere merce al mercato o pagare una matrona di bordello per farsi un giretto istruttivo captando segreti e osservando l’ingresso di persone “imbarazzanti” o “attenzionabili”.

Come si è arrivati al ninja tradizionale?

Nel XVII secolo si sviluppa in Giappone il Teatro Tradizionale Kabuki, tipo di rappresentazione drammatica che univa brani drammatici a brani di danza. Praticamente, una via di mezzo tra un musical moderno e un serial televisivo su Netflix.

Dopo una prima fase in cui il teatro Kabuki era recitato esclusivamente da attrici donne (tra cui diverse prostitute), nei decenni e nei secoli successivi il Kabuki divenne esclusivamente maschile e dedito a storie piene di azione e dramma.

Parliamo di un’epoca dove gli effetti speciali non esistevano, ed erano importantissimi i “roadie”, gli attrezzisti e gli addetti alle quinte, i “kuroko” o “Uomini in nero”

Il “costume tradizionale ninja” era in realtà il costume tradizionale dell’attrezzista o del “roadie”, per usare un termine moderno, costume usato sia dagli addetti alle quinte del teatro Kabuki che dai marionettisti del Teatro delle Marionette Bunraku (in modo che fili e marionettista diventassero invisibili e l’occhio potesse concentrarsi sui soli fantocci).

Immagine di un Kuroko all’opera per reggere una “candela fatata” che galleggia nel vuoto

Un ninja vestito di nero da capo a piedi lascerebbe ombre innaturali nelle tenebre rischiarate da fuochi e candele e sarebbe visibile come un automobilista vestito con un giubbetto catarinfrangente sulla neve o su un prato.

Un kuroko no: si mimetizzava perfettamente sullo sfondo e quindi poteva spingere oggetti di scena quasi non visto (aiutava molto il fatto che, come negli attuali concerti e manifestazioni teatrali, gli occhi di tutti siano puntati su attori e cantanti e nessuno guardi mai il povero “roadie” neppure per sbaglio…), preparare il palco e passare gli oggetti di scena necessari.

Un tipico “trucco di scena” per simulare la presunta invisibilità di un ninja era proprio farlo entrare in scena non dal palco, ma dalle quinte vestito da attrezzista, in modo da consentirgli di saltare alla ribalta stupendo l’uditorio: sarebbe esattamente come se un roadie saltasse giù dall’impalcatura delle luci di scena e, impugnata una chitarra, rivelasse di essere parte della band e pronto a stupire tutti.

Ovviamente una volta introdotto il ninja-roadie-attrezzista, ricordiamo che il Kabuki nasce come storie di azione e dramma, ma anche di sesso e temi adulti. Quindi se la storia di uno spione maestro non avrebbe attirato nessun avente biglietto, una storia in cui il ninja sputa fuoco, lancia pugnali da un capo all’altro del palco (retti da un altro attrezzista, da cui la “corsa alla Naruto” a capo chino e braccio proteso…), evoca strane creature ed assume poteri sovrannaturali avrebbe venduto molto.

Se una storia in cui una tizia vaga in giro per un quartiere prendendo appunti avrebbe annoiato, storie di kunoichi seducenti e in grado di uccidere durante l’amplesso aveva un suo fascino: il sesso vende, e non a caso anche diverse civiltà lontane nel tempo avevano sviluppato il mito di donne guerriere di rara bellezza in grado di usare il sesso come arma, come le Vishakanya indiane, descritte come donne esperte in tutti i tipi di assassinio e in grado di ingurgitare potenti veleni che avrebbero ucciso chiunque fosse stato da loro sedotto senza danneggiarle.

Nel 1800 cominciano ad apparire le prime illustrazioni del ninja vestito di nero, corroborate dal fatto che secoli di teatro Kabuki e Bunraku avevano insegnato allo spettatore ad associare il kuroko al concetto immateriale dell’invisibilità

Da questa iconografia è nato col tempo il “concetto moderno di ninja”.

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