Lo si può leggere in uno studio del Massachusetts Institute of Technology (Mit). La seconda notizia, non meno importante della prima, è che l’associazione di produttori di grano duro del Sud Italia GranoSalus promuoverà autonomamente l’analisi chimica sui prodotti derivati dal grano (pasta, pane e altro). E li renderà pubblici pubblicandoli sulla rete. Sapremo finalmente quale pasta (e quale pane) mangiare. E, soprattutto, quale pasta non dovremo mai più acquistare (con riferimento – con molta probabilità – ai marchi altisonanti e super pubblicizzati).
E’ ufficiale: i derivati del grano al glifosato (o glyphosate, secondo il termine scientifico) – e cioè pasta, pane e altro ancora – provocano danni alla salute umana. La cosa è nota da tempo, ma adesso è disponibile uno studio Massachusetts Institute of Technology (Mit). Il glifosato presente nella pasta e nel pane può provocare malattie gravi: diabete, obesità, asma, morbo di Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica (Sla), e il morbo di Parkinson (come potete leggere qui). Attenzione, insomma, soprattutto alla pasta che acquistiamo nei supermercati. Soprattutto la pasta prodotta con i grani duri canadesi, ma non solo anche quelli dei Paesi dell’Est, che sono letteralmente pieni di glifosato.
La notizia, così posta, è decisamente allarmistica.
Wired infatti è stato interpellato al riguardo. Ed il responso reso è stato ben diverso:
In realtà non c’è alcun nuovo studio scientifico serio che possa confermare o smentire questa teoria. Tutte le fonti su cui si basa l’articolo de I nuovi vespri, infatti, sono notizie vecchie o paper scientifici e testimonianze video di dubbia rilevanza.
Come hanno scoperto i debunker di Butac, l’articolo scientifico a cui si fa riferimento (anche se manca un link) è con tutta probabilità una pubblicazione dello scorso giugno uscita sulla rivista Journal of Biological Physics and Chemistry, edita da Collegium Basilea. Come sempre, per valutare l’attendibilità e l’autorevolezza di uno studio scientifico è bene verificare l’impact factor della rivista su cui viene pubblicato: ebbene in questo caso i valori degli ultimi anni sono sempre rimasti compresi tra 0,11 e 0,48. E questo indica, in sostanza, che si tratta di uno studio su cui non fare troppo affidamento, proprio come per la maggior parte delle riviste scientifiche edite da Collegium Basilea.
Partiamo dal concetto di Impact Factor, descritto come
L’Impact Factor è un indice bibliometrico sviluppato dall’Institute for Scientific Information (ISI) nel 1961 e attualmente di proprietà dell’editore Thomson Reuters. Misura il numero medio di citazioni ricevute, nell’anno di riferimento considerato, dagli articoli pubblicati da una rivista scientifica nei due anni precedenti: è pertanto un indicatore della performance dei periodici scientifici, che esprime l’impatto di una pubblicazione sulla comunità scientifica di riferimento.
L’Impact Factor di una rivista non esprime in sé un valore, ma va considerato rispetto ai valori raggiunti dai periodici del medesimo ambito disciplinare (subject category nel Journal Citation Reports), poichè ogni comunità è caratterizzata da un comportamento citazionale specifico.
E torniamo alla base del metodo scientifico: uno studio, da solo, è come una rondine. Non basta a fare primavera.
Uno studio scientifico viene quindi pubblicato, esaminato, ed i risultati a loro volta pubblicati in modo che si arrivi, se non alla certezza (il metodo scientifico prevede che ogni evidenza possa essere migliorata ed arricchita con nuovi dati), quanto meno ad un “impatto”: alla formulazione di un qualcosa assodato e sicuro.
Lo studio che sta girando ormai da un mese sulla blogosfera è descritto come avere un Impact Factor negligibile, ovvero essere stato tenuto in minimo conto dalla comunità scientifica, e come essere una ipotesi non ancora comprovata ed autorevole su cui Wired consiglia di fare poco affidamento.
Mangiate tranquilli la vostra pasta: se ci avete seguiti fino ad ora, ve ne siete meritati un bel piattone.
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