BUFALA Rapimenti di bambini a Prato: colpa degli zingari – bufale.net
Questa volta non già voi lettori, ma l’autorevole quotidiano Notizie di Prato ci segnala il ritorno di una bufala che non solo avevamo già trattato in passato, ma è addirittura preesistente ad Internet.
Racconta infatti il giornalista, con cui pienamente concordiamo:
Tre allarmi infondati nel giro di dieci giorni: un paio frutto del fraintendimento, l’ultimo sicuramente falso e probabilmente messo in giro con la chiara intenzione di creare il panico.La bufala degli “zingari che rubano i bambini” è tornata prepotentemente di moda a Prato e dintorni, scatenando il panico tra le famiglie. Tre episodi in dieci giorni sono sicuramente troppi e forse sarebbe il caso che le autorità intervenissero per mettere in qualche modo fine all’andazzo.Basti pensare che l’ultimo falso allarme – il presunto tentato rapimento di due bambini alla Coop del Parco Prato, peraltro con tanto di rasatura dei capelli dei piccoli innocenti – non appena postato su Facebook dal padre di un bambino (che dice di averlo saputo dalla maestra dell’asilo) è stato condiviso su migliaia di bacheche, con un effetto dirompente. Al punto che le redazioni dei giornali già ieri sera sono state tempestate da lettori impauriti e preoccupati.Naturalmente tutte le verifiche fatte con le forze dell’ordine hanno dato esito negativo. Nessun tentato rapimento, nessuna rasatura forzata di capelli. Era una “bufala” bella e buona, peraltro nemmeno nuova, visto che qualche tempo fa era circolata negli stessi termini ma con una location diversa: i Gigli invece del Parco Prato.In tempi di analfabetismo funzionale dilagante basta poco perché una notizia falsa postata sui social faccia velocemente il giro della città, con le conseguenze che è facile immaginare. A volte, come nel caso di Montemurlo, è il passaparola a trasformare un semplice apprezzamento fatto da una donna ad un bambino per il tentativo di rapirlo da parte di due nomadi. A volte, è accaduto sempre a Montemurlo, anche un dirigente scolastico cade nella trappola, emettendo una circolare dai toni allarmistici. Resta il fatto che al momento non risultano aperte indagini sulla diffusione di notizie palesemente false. Con il rischio che, se non si interviene per tempo, la moda possa dilagare ancora.
Una leggenda simile, rileva Paolo Toselli, cominciò a diffondersi in Italia intorno al 1990, ed è rilevante notare come i rapitori sono quasi sempre gli zingari, a riprova della perenne ossessione verso di loro fondata su atavici timori. Inizialmente la leggenda italiana raccontava di un bambino, o una bambina, rapito al supermercato da una zingara che l’aveva legato ad una gamba e nascosto sotto l’ampia gonna. Dall’estate del 1993, invece, si è andata diffondendo una versione molto più simile a quella americana.Il bambino, che era seduto sul carrello spinto dalla mamma, scompare improvvisamente. Quest’ultima da l’allarme e le porte del supermercato vengono subito chiuse. Trascorsi alcuni minuti, il bambino viene ritrovato in un gabinetto assieme a degli zingari che nel frattempo gli avevano completamente rasato la testa, cambiato i vestiti con altri più usurati e sporcato il viso per renderlo il più possibile irriconoscibile.Di solito chi era a conoscenza della storia l’aveva saputa da un’amica che conosceva la cassiera del supermercato. I giornali non ne avevano parlato dietro richiesta della direzione del supermercato onde evitare una pubblicità negativa. Come ho già fatto notare, i “cattivi” sono gli zingari, con tutte le varie denotazioni che il loro stereotipo implica; ecco quindi che il bambino viene “acconciato” per essere più simile a loro, ovvero rasato, vestito con indumenti usurati, e soprattutto sporcato. Penso quindi non ci sia nient’altro da aggiungere sulla adattabilità della storia per la tradizione popolare italiana per quanto riguarda questa traslazione dei rapitori.
Nel XIII secolo, alla tradizionale accusa di rapimento di bambini si aggiunge un nuovo capo di imputazione: secondo le dicerie popolari – sostenute spesso da autorità religiose locali senza scrupoli – gli ebrei non solo rapiscono i bambini, non solo li uccidono, ma usano il loro sangue per pratiche liturgiche pasquali. Il mito dell’omicidio rituale diventa così accusa del sangue: giudici e inquisitori, chiamati a verificare la fondatezza delle dicerie sui “mostri ebrei”, non esitano, lungo tutta l’età moderna, a ricorrere alla tortura per estorcere la piena confessione degli imputati. Così, molti ebrei finiranno per far “mettere a verbale” accuse false e infamanti, che legittimeranno le successive condanne a morte.
L’apogeo dell’accusa del sangue si verifica nel 1475 a Trento. Il piccolo Simone, passato alla storia col nome di Simonino, figlio di un conciacapelli, scompare misteriosamente la sera del giovedì santo: il suo corpo viene ritrovato, in condizioni strazianti, in un fosso d’acqua attiguo alla casa di uno degli esponenti più in vista della locale comunità ebraica. Grazie anche alle invettive di Bernardino da Feltre, predicatore antisemita senza scrupoli, la comunità trentina si convince della colpevolezza degli ebrei. La stessa Santa Sede, che inizialmente – come già aveva fatto in tutti gli altri casi – si oppone alle persecuzioni contro gli ebrei, alla fine finisce per avallare (seppur parzialmente e con molti distinguo) la versione degli antisemiti, e per legittimare il processo. Da allora in poi, senza più ostacoli istituzionali, l’accusa del sangue dilaga in tutta Europa.
Uno degli studi più attendibili e documentati sull’argomento spiega che l’accusa del sangue non nasce dall’ingenuità popolare: essa è piuttosto il frutto di una complessa costruzione istituzionale. «Il mito raggiunge la sua forma compiuta […] non tramite il lento, tortuoso e progressivo affastellarsi o agglutinarsi di credenze e superstizioni popolari, ma grazie ai meccanismi processuali ed inquisitoriali nei cui ingranaggi gli ebrei vengono scaraventati dalle autorità ecclesiastiche e secolari di turno […]. Chiusi i processi e giustiziati gli imputati il discorso sull’accusa del sangue viene poi articolato dalle élites secolari, monastiche ed ecclesiastiche che lo diffondono poi con grande impegno e dispiego di mezzi tra le classi subalterne» [R. Taradel, L’Accusa del Sangue. Storia politica di un mito antisemita, Editori Riuniti, Roma 2002, pag. 132].
C’è, insomma, poco di spontaneo nell’accusa del sangue: più che rimandare alle profondità della psiche collettiva, a paure ancestrali o all’ignoranza diffusa, questa peculiare forma di antisemitismo ci invita a scavare nei meccanismi (istituzionali, e istituzionalizzati) di costruzione politica del nemico. Proprio come accade oggi con gli “zingari”, contro i quali si mobilitano non tanto – e non solo – i timori “spontanei” della gente comune, quanto le complesse dinamiche della costruzione mediale della paura.
Infine, un altro parallelo tra l’antisemitismo di ieri e l’antiziganismo di oggi potrebbe (e dovrebbe) far riflettere.
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