I segreti e la storia di Monkey Island, saga del pirata più amato da tutti
“Sono Guybrush Threepwood, temibile pirata!”: questa è la presentazione ricordata da ormai generazioni di fan di Monkey Island, una saga sospesa tra la storia del retro e la storia del gioco moderno, con capitoli vecchi come gli anni ’90 e nuovi come l’anno scorso, descritta dal suo stesso autore come una sorta di testamento spirituale lasciato al mondo ancora da vivo.
Perché Guybrush Threepwood è lui, è noi: è invecchiato con quel genere di fan del retro che sono i miei lettori e che sono io, e rappresenta la storia di un approccio al videogioco.
Del resto ne avevamo parlato giusto la settimana scorsa, e sarà bene ricordarlo.
Dalle avventure testuali alle avventure grafiche
Ricordate quando abbiamo parlato di Colossal Cave Adventure e di Zork? Se non lo ricordate, rinfrescatevi la memoria leggendo il nostro precedente articolo qui e poi tornate.
Per quello che riguarda la storia, sappiate che già negli anni ’70 quattro “Implementors”, i programmatori di Zork, ispirati da Colossal Cave Adventure avevano di fatto inventato diversi tratti dell’avventura videoludica moderna: un gioco (di testo) con un narratore ilare e giocoso simile al narratore di Dungeon&Dragons (famosissimo gioco da scrivania appena nato), venduto “boxato”, ovvero in scatole col media fisico da cui caricare il gioco, manuali e simpatici gadget e storie ricche di “lore”, ovvero ambientazioni e “storie dentro la storia”.
Zork ad esempio presentava la storia del “Grande Impero Sotterraneo”, un tempo noto come Quendor, un tempo ricco impero che controllava la terra, il mare e il sottosuolo e poi ridotto in rovina da una dinastia di regnanti imbecilli e oggetto delle attenzioni di avventurieri a caccia dei suoi tesori.
Zork e CCA furono venduti per tutti gli anni ’80 (e anche oltre), ma le possibilità tecniche introdotte nel passaggio dal microcomputer all’Home Computer fecero in modo che il giocatore desiderasse qualcosa di più: vedere i luoghi della sua fantasia non solo con l’immaginazione, ma coi suoi occhi sul monitor di macchine capaci di grafica (o qualcosa di simile).
All’inizio assai incerta e primitiva, ad esempio semplici immagini ad “ornare” la descrizione testuale della “stanza” dove ti trovavi, talora persino composte in ASCII (usando caratteri di testo per disegnare immagini), le avventure grafiche trasformarono una specie di libro interattivo in un libro illustrato interattivo, dove potevi vedere quello che in Zork era solo immaginato.
Il primo esempio noto fu Mystery House (1980) di On-Line Systems, in futuro Sierra Games (segnatevi il nome: tornerà), un’avventura horror-thriller in cui un ladro a caccia di tesori in una villa si ritrova improvvisamente a fronteggiare uno “slasher”, un killer spietato e inarrestabile.
In questo caso un grafica ASCII mostrava le stanze composte coi caratteri di testo, sfruttando le poche capacità dell’Apple II (in grado di visualizzare grafica, ma che semplicemente non sarebbe entrata nei floppy di gioco).
Non era il primo gioco ad usare grafica ASCII, titolo che spetta a Pedit5 del 1975, un gioco di esplorazione, ma fu la prima avventura testuale a cercare di mostrarti dove eri.
Altri giochi come “Lo Hobbit” di Beam Software per vari computer a 8bit, tra cui l’ormai onnipresente Commodore 64 contribuirono a popolarizzare la formula, introdotta anche in versioni successive della Z-Machine: avventura testuale in fondo allo schermo, disegno più o meno elaborato in cima.
Il passaggio all’avventura grafica in toto: le avventure Sierra e il loro “problema” secondo LucasArts
Qualcosa però era cambiato nel modo di fruire i videogiochi. E quel qualcosa l’abbiamo visto nei precedenti capitoli di questa rubrica: se nel 1975 era assai improbabile che un programmatore potesse procurarsi un joystick da collegare ad un PDP-10, computer utilitario e non fatto per i videogame, la stragrande maggioranza degli Home Computer degli anni ’80 erano costruiti per ereditare il pubblico dei “giocatori da console” introducendo e popolarizzando il concetto di “giocare su computer in comodità”.
Insomma, parliamo di computer dotati di joystick e mouse, nonché capacità grafiche eccedenti, e di molto, un passato di telescriventi e grafica “testuale”, e di un pubblico ormai abituato a suono e colore da tre generazioni di gioco su console.
Ricorderete quando abbiamo parlato di Sierra Games: nel 1980 Roberta e Ken Williams, fondatori di Sierra Games, rilasciano The Wizard and the Princess, gioco a metà tra una favola e un’avventura basato sulle intuizioni di Mystery House, ma con immagini a colori dall’atmosfera fiabesca.
Quattro anni dopo l’ambientazione fiabesca di Wizard and the Princess fu trasferita nella saga di King’s Quest, capolavoro e iniziatore del genere che lanciò Roberta Williams nell’Olimpo dei creatori.
Dal punto di vista della trama, siamo ancora nel territorio di Zork: una saga in diversi capitoli in cui una famiglia reale affronta diverse avventure (le “quest” del titolo) per salvare il trono, avventure multigenerazionali che partono da un giovane avventuriero destinato a diventare Re e finiscono coi suoi figli, un principe e una principessa, non meno eroici dei genitori.
Dal punto di vista del gameplay mouse e joystick consentono di vivere l’avventura in un modo diverso, muovendo il personaggio liberamente in sfondi disegnati pixel per pixel.
Parser che comunque veniva conservato, almeno nei primi capitoli: potevi ad esempio muoverti liberamente col joystick (o assai più probabilmente il tastierino numerico o i tasti cursore) per poi usare il parser per dettare le tue azioni.
Potevi posizionarti quindi davanti ad una porta per scrivere “Open door” e ottenerne l’apertura, o davanti ad un personaggio per scrivere “Talk to man/woman” e cominciare una discussione.
Il grande successo della saga fu replicato con Lesure Suit Larry (1987), le avventure un po’ pecorecce di un gioviale latin lover ai giorni nostri e Space Quest (1986), avventure dell’umile cadetto e spazzino spaziale Roger Wilco (il cui nome deriva dal codice militare “Roger, Will Comply”, ovvero “Ti ascolto, obbedisco”) destinato ad una vita di avventure più grandi di lui.
Tutti questi giochi avevano un enorme “problema”: ereditavano ai loro antenati testuali una certa difficoltà.
Potevi “morire” anche in una avventura grafica, e morire male. Potevi, come in avventure testuali come “Guida Galattica dell’Autostoppista”, scoprire dopo ore di gioco che una scelta sbagliata nelle prime mosse ti avrebbe condannato a perdere a tavolino.
Oppure scoprire che arrivare “impreparato” all’enigma tale ti avrebbe portato a morte certa. Se per molti giocatori era qualcosa di speciale che aggiungeva fascino all’avventura (del resto anche in Dungeon&Dragons si moriva eccome), per molti altri era una sorgente senza fine di frustrazione.
Ripetere all’infinito un’avventura cercando di sopravvivere per vedere il finale, per alcuni causava la fine dell’illusione. E qui entra in scena LucasArts.
SCUMM, da Maniac Mansion a Monkey Island
Nel 1987 LucasArts’ tira fuori dal cilindro Maniac Mansion per Commodore 64 e Apple II, portato poi su altri home computer dell’epoca. Gioco ispirato sia alle “grandi saghe” Sierra che al cinema di serie B, con una serie di bizzarri adolescenti pronti ad esplorare una villa dove uno scienziato pazzo ed altri personaggi non meno assurdi hanno sequestrato la fidanzata di uno di loro per assurdi esperimenti.
Ron Gilbert decise di sostituire il “parser” con un’interfaccia del tutto “punta e clicca”, con una serie di verbi inseriti sul fondo della scena che potevano essere “combinati” alla stessa.
Usando mouse o joystick potevi ad esempio avvicinarti ad una porta e anziché scrivere “Open Door”, cliccare “open” e poi la porta, oppure “push” o “pull” a seconda dei casi.
Prendendo in prestito una soluzione tecnica da Zork LucasArts’ produsse un sistema a metà tra il linguaggio di programmazione, il linguaggio di scripting e l’ambiente di sviluppo, lo SCUMM (Script Creation Utility for Maniac Mansion), pronunciato come “scum”, ovvero il termine inglese per feccia.
Come la Z-Machine rendeva facile creare giochi perfettamente multipiattaforma, SCUMM semplificava il porting per altre piattaforme consentendo di aggiungere ulteriori motori integrati per musica, immagini e altro.
Anche con Maniac Mansion, Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman non furono persuasi: come detto prima, nella loro mente c’era un’avventura grafica in cui non potevi morire o essere sconfitto, ma solo divertirti ad esplorare un mondo fantastico.
Ron Gilbert fu ispirato dalle attrazioni Disney dei “Pirati dei Caraibi” (quelle che poi ispireranno i film con Johnny Deep) e dalla saga di romanzi “Mari Stregati”.
Volle creare così un mondo di allegri pirati pronti all’avventura, ma nel quale il protagonista potesse “scendere liberamente dalla nave e godere del mondo immaginario”, conservando però un approccio a puzzle.
Salvo in un paio di easter eggs semplicemente non potevi morire: fallire nel risolvere un puzzle significava semplicemente restare “bloccato” in un determinato punto della storia senza poter proseguire.
Finalmente arriva Guybrush Threepwood
Con Maniac Mansion Ron Gilbert aveva popolarizzato il concetto di “cutscene”, il concetto ancora presente nei giochi moderni in cui la storia ad un certo punto si interrompe per mostrarti brevi sequenze animate in cui scopri cosa sta succedendo nel mondo intorno a te.
Con Guybrush Threepwood nacque una rivoluzione copernicana. The Secret of Monkey Island (1990) e i suoi seguiti non sono una storia narrata da un “Game Master” in cui interpreti un personaggio, ma una storia che Guybrush stesso racconta a chi vorrà ascoltarlo.
Guybrush è ancora un “Everyman”, un uomo comune. Anzi, è Ron Gilbert, Tim Shafer, Dave Grossman e tutti i giovani “nerd” in quel momento a casa (cosa che peserà nei capitoli successivi). È un giovanotto semplice, senza particolari virtù, impacciato al punto “di non saper parlare alle donne” senza impappinarsi, afflitto da un imponderabile terrore per tutto ciò che è fatto di porcellana tazze del water comprese (parodia della paura di Indiana Jones per i serpenti), nelle sue stesse parole “un uomo di azione, un gradasso, un poco di buono, un uomo che può trattenere il fiato per dieci minuti!”
Il suo stesso nome, Guybrush Threepwood deriva dal richiamo a questa natura: Guybrush deriva da “Guy.brush”, ovvero dall’indicazione di un file per Deluxe Paint contenente il bozzetto di un “tizio”, Guy. Il “tizio” nello sviluppo divenne quindi Guybrush Ulysses Threepwood, dove Guybrush era una chiara indicazione del suo essere una “nullità”, incarnazione del giovane nerd a casa che sogna di diventare “un qualcuno”, Ulysses era un nome inutilmente aulico per la suddetta nullità e Threepwood era un cognome arzigogolato e difficile da pronunciare, creando una comicità affine a quella del nostro Fantozzi in cui nessuno sembra ricordare il nome del povero ragioniere ed esso viene chiamato “Pupazzi”, “Fantocci” o altre variazioni fino a far concludere al suo interlocutore che non vale neppure la pena di ricordarne il nome e quindi lo si può chiamare “merda**ia” impunemente.
Perché Guybrush è la quintessenza della mer*accia fantozziana: un giovanotto incapace che sogna di essere un temibile pirata e grazie alle meraviglie dello SCUMM realizza il suo sogno.
La rivoluzione copernicana lo rende immortale: salvo i citati Easter Egg (perlopiù legati alla capacità di “trattenere il fiato per dieci minuti”) una scelta platealmente sbagliata non può uccidere Guybrush. Anzi, in almeno due capitoli della saga (il secondo e l’ultimo) cercare di “uccidere Guybrush” porterà alla reazione scomposta dell’uditorio che accuserà il povero pirata di voler mentire e divertirsi ai loro danni perché, ovviamente, se è morto non può essere lì a raccontare e se ha tempo per scherzare non ha tempo per raccontare davvero la sua storia e non merita ascolto.
Guybrush racconterà quindi le sue avventure dall’inizio ma con la consapevolezza di una storia, introducendo oggetti ormai leggendari, come il “pollo di gomma con carrucola” citato da Elly Shlein (che sembra però dimenticare che lo stesso Guybrush nell’ultimo capitolo della saga, cosa non secondaria, dirà che l’era dei polli di gomma è finita a causa della loro “scarsità mondiale”, citazione giocosa della crisi dei semiconduttori ma latrice di significati ancora più riflessivi e oscuri per un gioco leggero), il “Pirata Fantasma/Zombie Lechuck” come sua eterna nemesi e la compagna di sempre Elaine Marley.
Il primo capitolo della saga, la cui morale è “Mai pagare troppo un gioco per computer” è un romanzo di formazione nerd in fondo: Guybrush sogna di diventare un temibile pirata, si innamora della bellissima e ben più capace di lui (“girl power” prima che andasse di moda, insomma) Elaine Marley, combatte il Pirata Fantasma LeChuck, spasimante respinto della bella Elaine tornato con un corpo imbevuto di potere spirituale e supera delle prove per diventare un vero Pirata e sconfiggere il suo rivale armato di una bottiglia di birra di radice, incontrando bizzarri cannibali, pirati dalle pessime abitudini e scimmie con tre teste.
LeChuck e Guybrush torneranno nei capitoli della saga successivi, con Guybrush sempre più maturo e ancora pronto a combattere il Pirata Zombie LeChuck.
Nel secondo capitolo della saga un Guybrush “avvelenato” dal successo dovrà ricominciare le sue avventure, solo e privo della stima guadagnata nel primo capitolo, riconquistando l’amore di Elaine e sfidando nuovamente LeChuck per scoprire il segreto di Monkey Island in una sequenza onirica affine al finale di Guerre Stellari.
Sposerà infine Elaine nel terzo capitolo, non prima di averla accidentalmente mutata in una statua d’oro per aver cercato di donarle un anello di fidanzamento rubato di incerta provenienza, salvandola poi e facendole capire che in fondo Guybrush resterà lo scemotto di sempre, mentre nel quarto salverà l’isola di Melee, dove Elaine è governatrice, dalle mire di un avido magnate Australiano padroneggiando una variante della “scherma a insulti” dei pirati, sport nazionale dei pirati dei Caraibi basata su insulti proferiti nell’arcana lingua delle scimmie.
Se il quarto capitolo ha sorpreso i giocatori abbandonando SCUMM per passare a GrimE, un nuovo motore di gioco, il quinto passerà al mondo delle “Avventure a episodi” che hanno sostituito le avventure grafiche vintage, mostrando un Guybrush di una tempra eroica e cupa, pronto al sacrificio di se stesso e con un seguito nei Caraibi, come l’affascinante cacciatrice di taglie Morgan LeFlay, divenuta maestra nella scherma ad insulti e nell’arte di trattenere il fiato ma solo per cinque minuti per somigliare al suo idolo.
Il quinto capitolo farà cerchio di tutto, mostrando un Guybrush ormai ingrigito raccontare al suo figliolo Boybrush ed ai suoi amichetti, avuto dalla bella Elaine, la “vera storia di Monkey Island”, per poi stabilire che in fondo non è importante come le storie finiscono, ma cosa esse ci hanno regalato nel viaggio.
Le novità della saga
Monkey Island come abbiamo visto ha donato al mondo del videogioco l’avventura grafica “punta e clicca” moderna, abbandonando il parser per avere una “tastiera virtuale” di verbi da combinare e infine neppure quella, rendendo possibile cliccare gli oggetti in scena per vedere Guybrush reagire ad essi.
Ha anche esplorato le possibilità tecniche del computer, introducendo versioni su CD dei primi capitoli (e direttamente del terzo) nelle quali il CD-Rom diventava mezzo per introdurre tracce audio ad alta fedeltà e il doppiaggio, con l’iconica voce di Dominic Armato per Guybrush (un po’ querula e infantile, ma in grado alla bisogna di esprimere risolutezza) e la voce di Alexandra Boyd per la bella Elaine.
Dalle avventure testuali e grafiche ha ereditato una narrazione vivace e umoristica, distaccandosene per l’immortalità “anti-frustrazione” della storia di Guybrush.
Come Zork ha saputo creare un mondo vivace, anche il mondo di Guybrush si è colorato di mitologia piratesca: la saggia “Voodoo Lady”, una misteriosa veggente sempre al fianco di Guybrush convinta che il Destino abbia affidato il mondo nelle mani (scarsamente) capaci del giovane e che per questo sia necessario aiutarlo, la citata Elaine, il “grog”, bevanda realmente esistente descritta nel gioco come una mistura in grado di sciogliere le serrature, distruggere i boccali e corrodere cose e persone, la leggendaria “scherma a insulti”, l’imbroglione Stan, ora venditore di navi, ora assicuratore, ora pubblicitario dalla inconfondibile giacca di flanella dai riquadri allineati in modo bizzarro, Murray il teschio parlante, burbero e magniloquente eppure amichevole e altri scalcinati personaggi in un mondo a metà tra l’attrazione da parco giochi, il fantasy e l’epopea piratesca.
Monkey Island ha ereditato il concetto di “feelies”, impacchettando le scatole con gadget-sistemi di protezione come il Dial-a-pirate, citato nell’ultimo capitolo, una ruota colorata con volti di pirati da comporre per ottenere i codici di di avvio.
Monkey Island vive a cavallo tra il retro e il moderno, così tanto che edizioni “rimasterizzate” dei primi capitoli sono ancora fruibili su cellulari e dispositivi touch moderni e grazie a ScummVM le versioni originali possono essere godute su ogni piattaforma.
E non solo.
Dalla lettera di Ron Gilbert: come Flaubert
Flaubert dichiarò nel corso di un celebre processo per oltraggio alla morale ed al costume di essere Madame Bovary, di averle prestato voce e sentimento creando una nuova postura autoriale, la fine del “romanzesco” e il contatto profondo tra realtà e immaginazione.
Guybrush Threepwood è Ron Gilbert, e insieme tutti noi.
Giocando e “platinando”, finendo fino alla fine l’ultimo capitolo della saga è una epistola del suo stesso autore a rivelarlo.
Guybrush di Secret of Money Island, il primo capitolo, è il giovane Gilbert, un ventenne lanciato in una nuova avventura della quale non conosce gli esiti e il finale. E insieme è il “nerd” adolescente o giovane uomo che scartoccia il prodotto di quel’avventura perdendosi in un mondo immaginario.
Il Guybrush del seguito, Return to Monkey Island, è ancora Ron Gilbert che cerca di riempire gli stivali che ha creato nel primo capitolo, in un quel senso di straniamento in cui ancora non sai di aver fatto la storia, ma l’hai fatta.
Dopo due capitoli affidati ad altri team, Tales of Monkey Island è una storia più cupa. Siamo nel 2009 ormai: il giovane Ron Gilbert giovane più non è. I giovani giocatori non lo sono più. Sono ormai tutti ultraquarantenni, disillusi, spesso piegati se non spezzati dalla vita: Guybrush è ancora un buffo guasconcello, ma è anche un uomo vissuto col peso del suo mondo sulle spalle.
Infine, Return to Monkey Island, il recentissimo ultimo capitolo, ci mostra un Guybrush ormai padre, che racconta a suo figlio gli effetti e il dramma di Gilbert e di quei giovani nerd ormai cinquantenni o giù di lì.
La crisi di mezza età, il momento in cui capisci che non sarai mai più, consentitemi la metafora natalizia, ci rendiamo conto per sempre che non saremo mai più il ragazzino davanti ad un Amiga 500 appena scartato che inserisce i floppy di Secret of Monkey Island, che ogni tentativo di tornare a quel passato rifiutando il presente diventa becero escapismo, non meno ridicolo del personaggio di Jerry Calà in Torno a vivere da solo che cerca di tornare ad essere un giovane vitellone e a tratti più crudele e violento con se stesso e il prossimo nell’impossibile tentativo di difendere una gioventù ormai mitica e sfumata, ma se avrai accettato questa realtà dentro di te potrai tornare a quell’epoca coi tuoi ricordi e raccontarla ai tuoi figli perché sappiano che ora è il loro turno di sognare.
Un lascito lungo una vita: che ancora non finisce. “Guybrush will return”, direbbero gli Avengers. Nelle citazioni del linguaggio collettivo, come ospite in giochi moderni come “Sea of Pirates”: ovunque ci sia un Guybrush, ci sarà il Guybrush. In un gioco che ha creato un genere.
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